"Un bullone da 12"

(di Gregorio Vella)
02/09/17

Il sole sta tramontando ed una leggera brezza si è levata a mitigare il caldo, che il giorno successivo si prevedeva sarebbe stato più intenso. Non ho voglia di tornare a casa subito e pedalo adagio sulla mia fidata bici, che sento come un normale prolungamento di me stesso; è piacevole l’aria che mi accarezza il viso, mi da benessere. Sono un po’ seccato, perché ero passato a ritirare la patente, rinnovata in agenzia ed avevo ancora nelle orecchie le parole della irriguardosa ragazza: “Siamo cresciuti caro ammiraglio Perassi!, ecco la sua patente, lo sa che la prossima volta il rinnovo è non più fra dieci, ma fra cinque anni. Quarantasei euro e trenta, prego”.

E già! Siamo cresciuti, ma come caspita è successo che ho sessantasette anni. Da giovane non pensavo proprio che l’età avanzasse in maniera così rapida e silente. Il tempo è come una cosa implacabile che ti trascina con velocità uniformemente accelerata e che non riesci ad apprezzare, che non da riferimenti certi; e ti senti fregato, quando ti ritrovi pensionato di fresco, con la sensazione che la cosa non riguardi proprio te e ti senti pure ridicolo, quando devi convincerti di essere diventato anziano e non riesci a toglierti dalla mente e di dosso l’atteggiamento che avevi nei confronti degli anziani e della pensione, quando più di quarant’anni fa avevi incominciato a lavorare.

Pedalo lentamente, con la sensazione che la mia bicicletta proceda per volontà e propulsione propria e non sia io a spingere sui pedali od a piegare il manubrio, non facendo altro che assecondare il loro moto.

Mi trovo a percorrere una direzione che non è quella per andare a casa e costeggio il muraglione del vecchio cantiere. Non è un percorso insolito per me; qualche volta faccio una capatina la dentro; all’interno i suoi spazi mi appaiono smisurati, come la sua gloria, passata ed ormai quasi dimenticata, la gloria di avere, in tempi ormai lontani, impostato, costruito e varato centinaia di navi, generate dall’ingegno fecondo, dalla corale fatica e dalla disciplinata passione delle migliaia di persone che, per oltre un secolo, di padre in figlio vi avevano lavorato.

Mi stupisco di pensare in maniera così retorica e varco l’ingresso, salutato da Gino, vecchio guardiano nonché figlio e nipote di guardiano, di quello che ormai è solo un disordinato cimitero di navi, di ogni tipo e dimensione, in attesa di essere demolite. Le demolizioni navali, qui come altrove, seguono l’andamento del prezzo del ferro. Quando sale si intensificano, quando scende rallentano o si fermano e le parecchie decine di operai, quasi tutti irregolari asiatici o dell’est, vengono mandati via a cercarsi altrove il reddito con il quale sopravvivere.

Procedo d’abbrivio sulla banchina, evitando con consumata abilità i mucchi di cordami, di rottami di ogni tipo, di vecchi impianti ed arredi e di tutta la variegata spazzatura navale lasciata li.

So dove mi sta portando la bicicletta, verso l’estremità dell’ultimo pontile, oltre gli scali, a trovare un vecchio amico, male in arnese e che da più di dieci anni galleggia, malamente ormeggiato e sbandato di oltre cinque gradi a dritta. Dalla fiancata di poppa mancano due “c”, la “s” ed una “o”, che però hanno lasciato la loro traccia, sotto, ed il nome si legge comunque.

C’è scritto Scirocco.

È stata la mia Nave da direttore di macchina per quasi due anni, tanto tempo fa. Mi ha tenuto nel suo ventre vibrante per ventidue mesi, dove sono cresciuto in esperienza, saggezza e grado, sperimentando le più belle amicizie della mia vita e portandomi in giro per il mare a vedere il mondo e conoscere la vita. Ho condiviso con lei tempeste e bonacce, la spensieratezza dei vent’anni e le serene preoccupazioni delle prime vere responsabilità.

Vengo a trovarla di tanto in tanto, non so se è viva o se è morta, ma le parlo ancora delle cose mie. Non vorrei mai più salirci sopra: troppi ricordi. Oltre ai topi regolamentari, ci abitano i gabbiani; li vedo entrare e uscire dai vetri rotti della plancia, che sicuramente avranno adibito a nursery.

Inaspettatamente vedo accostata una passerella a poppa; è strano, anche perché sembra di legno lucido, come mogano; ma cosa ci sta a fare? visto che nei dieci anni di abbandono, dalla nave hanno ormai portato via tutto quello che poteva considerarsi di valore. Se non l’hanno ancora demolita è perché, prima di porla in disarmo, si pensava di venderla alla marina uruguayana, poi di farne nave museo a Napoli, poi ancora di cederla gratis a qualcun altro. Alla fine non se ne è fatto un bel niente, ma le beghe amministrative erano ormai così tante da incartarla al punto che, probabilmente, rimarrà li fino a quando non deciderà di andare a fondo da sola.

Signor Perassi!”, la voce che mi chiama viene dal fondo della poppetta, sotto il ponte di volo; distinguo una persona, “Signor Perassi, venga su, svelto, che la stanno aspettando!”. Mi avvicino:”Ma lei chi è, e chi mi sta aspettando?” L’uomo si avvicina alla draglia e ad un tratto lo riconosco, è Simonini, il nostromo; qualche anno fa mi avevano detto che era morto; ma come ho fatto a riconoscerlo subito, sembra un vecchio cadente, è lacero e sporco. Come mai ha la tuta da lavoro con il nome ed il grado? “Simonini!, come stai? che piacere vederti, ma che ci fai la sopra?”. “Lei sa benissimo cosa ci faccio; signor Perassi venga su! si sbrighi, sono in quadrato ufficiali, c’è pure l’ammiraglio venuto dall’Ispettorato.”

Non rifletto, scendo dalla bici e mi trovo a salire sulla ben salda passerella di mogano. E poi perchè usa l’appellativo di “Signore1? Simonini era rispettosissimo e saprà benissimo che sono ammiraglio “a due botte” e che fino al mese scorso ero in servizio. Mi inoltro nel corridoio, c’è una luce fievole che non si capisce da dove arrivi. Riconosco ad un tratto il suo odore. Ogni Nave ne ha uno, suo, né gradevole né sgradevole ma particolare ed unico, che si sovrappone all’immancabile odore di fondo del gasolio. Sul pavimento c’è una quantità incredibile di materiale abbandonato, Simonini mi precede con sicurezza, quasi etereo, come se avesse fatto quel percorso da sempre e sapesse perfettamente, anche al buio, dove mettere i piedi ad ogni passo. Faccio fatica a tenergli dietro anche perché la Nave è sbandata, ma riesco a cavarmela. Saliamo per la scaletta interna che porta al ponte di copertino, verso il quadrato ufficiali; incomincio ad aver freddo. Simonini è sparito davanti a me. Trovandomi all’altezza del “quadrato”2, afferro quello che resta della maniglia e premo verso il basso, cercando di spingere la porta. Non cede, spingo più forte, i cardini corrosi scricchiolano e la parte inferiore della porta, aprendosi a fatica, struscia contro la ruggine del pavimento corroso ed ormai privo di rivestimento blu cordova, mi infilo nel varco e sento il freddo aumentare, improvvisamente.

Sono in quattro, seduti al tavolo, sembrano impolverati e con le uniformi sdrucite, i volti hanno un aspetto incartapecorito e percepisco gli sguardi severi dai loro occhi incavati. A sinistra riconosco Drogi, il comandante, al suo fianco c’e il secondo3: Bastiani, al centro siede un ammiraglio del genio con, alla sua sinistra, con il capo chino e che, a giudicare di quello che rimane del cordone, è l’aiutante di bandiera dell’ammiraglio; entrambi mi ricordano qualcuno o qualcosa. Hanno davanti alcune carte, uniformemente impolverate e sparse sul tavolo. Sono impolverati anche loro, specialmente sulle spalle e sulle maniche delle divise logore; l’illuminazione è scarsa ma mi sembra di vedere delle ragnatele che li congiungono alla paratia ed al soffitto.

Perassi, venga avanti! Finalmente ha avuto la compiacenza di presentarsi! È da tanto tempo che l’aspettiamo.

È il secondo a parlare. Ad un tratto mi ricordo perfettamente di quanto fosse stronzo, della sua servile e poco autorevole severità, non convincente ed improntata soprattutto a compiacere i superiori.

Ma chi siete? Che pagliacciata è questa! Va bene, ho capito, dove sono le telecamere nascoste? Sono in un reality, candid camera o che altro?!

Perassi! - continua Bastiani - guardi che la pagliacciata riguarda solo lei. Terremo in debito conto anche questo suo inqualificabile atteggiamento, oltre a quanto abbiamo il dovere di contestarle. Perassi stia attento! che la sua carriera è appesa ad un filo.”

Ma che filo e filo! Smettiamola accidenti! E badate bene che per voi e chiunque voi siate, io sono ancora l’ammiraglio Perassi e che il mio stato di servizio è ed è stato sempre ineccepibile; ed adesso vi saluto!”

Basta! – questa volta è l’ammiraglio a parlare, come in uno stridulo rantolo e dando contemporaneamente una gran manata sul tavolo, che con un rumore secco solleva una nuvola di polvere – Perassi, la smetta immediatamente e stia sull’attenti! Le sue farneticazioni mi colgono del tutto impreparato, le confesso che leggendo le sue ottime note mi aspettavo di trovare una persona…diversa, da chi vedo adesso tentare di farsi credere matto per cercare di passarla liscia. Comunque siamo qui per dare corso all’inchiesta che riguarda la sua persona, per i fatti a lei addebitati ed in merito ai quali abbiamo il compito di accertare le responsabilità. Le rammentiamo che in data 23 aprile scorso, il riduttore di questa nave ha subito una grave avaria; l’entità del danno non è stata ancora del tutto determinata; la conseguenza immediata è stata l’annullamento di un’importante missione internazionale, alla quale tutto l’equipaggio si preparava da mesi. Non so se si rende conto dell’entità del danno d’immagine oltre che economico e dello sconquasso della pianificazione oltre allo smacco per essere stati sostituiti dai turchi. Allo Stato Maggiore hanno già preparato il patibolo e lì non sono certo i boia a mancare”.

Adesso mi ricordo perfettamente dell’episodio, avvenuto durante le mie prime settimane d’imbarco sullo Scirocco; era stata la prima grossa grana della mia carriera e me la cavai per un pelo.

Mi sento intorpidito per il freddo ed i ricordi vengono ad ondate.

La cosa non mi coinvolse direttamente in quanto coincise non ricordo se con l’inizio o la fine di una licenza. Mi ricordo ancora oggi e molto bene, del senso di colpa che mi accompagnò per moltissimo tempo in quanto, moralmente, mi sentivo comunque responsabile e non feci nulla per manifestarlo. Ne fece le spese il mio sottordine, il povero Falorni, che non fui capace di aiutare adeguatamente e che fu fatto sbarcare e mandato ad Augusta, in Arsenale. Seppi successivamente che, completamente sconfortato e disilluso, si era congedato, facendo la felicità di suo padre, miliardario, vedovo e proprietario di una grande azienda zootecnica nel modenese che, per mandarla avanti, riebbe così il suo unico figlio, che si era arruolato in Marina per seguire la sua passione per il mare e per gli orizzonti lontani e fuggire così da un destino ristretto e predeterminato, fatto di vacche e di maiali. Di lui non avevo mai più saputo nulla e mi sforzavo di pensarlo ricco e appagato, con un sacco di figli grassi, con la moglie grassa, rubizza e sempre incinta, fra gli olezzi di letame, le nebbie padane e con il padre che non aveva che l’imbarazzo della scelta, per scannare tutti i vitelli grassi che voleva per festeggiare all’infinito il ritorno del suo figliol prodigo.

Praticamente era accaduto che, per una serie quasi perversa di eventi e di circostanze, alla riaccensione dei motori principali, ad ultimazione di una breve sosta lavori pre-missione, erano saltate ben due ronde di controllo. I portelli di visita del riduttore erano stati trovati inspiegabilmente aperti e da essi mancavano sei bulloni da MA12, che erano finiti fra gli ingranaggi, devastandoli. Successivamente, notando le scarse deformazioni subite dai bulloni recuperati e che sarebbero dovuti essere stati macinati dagli ingranaggi, per un mio scrupolo ne feci sottoporre un paio ad analisi chimica, che confermò il mio sospetto, in quanto risultarono essere costituiti di acciaio cementato al boro, materiale particolare e di non facile reperibilità ma ben adatto a danneggiare seriamente gli ingranaggi del riduttore e che era di tipo completamente diverso da quello con cui erano costituiti i normali bulloni dei portelli di visita, di tipo commerciale ed in acciaio bassolegato. Questo aspetto fu ben rappresentato nelle mie relazioni, ma da esso non ne scaturì mai alcuna valorizzazione né, tantomeno, fu mai verbalizzato in nessun documento ufficiale attinente al fatto.

La cosa all’inizio mi sconcertò moltissimo, poi sempre meno.

Allora, Perassi, che mi sa dire di questo? per il quale, presumo, avrà maggiori informazioni di noi?” - è l’ammiraglio a parlare e, contemporaneamente, la mano ossuta del suo aiutante, sempre con il capo chino, sposta obliquamente in avanti, lentamente, come se fosse l’alfiere degli scacchi, un bullone da dodici, inciso e deformato. Rialzando lievemente il capo, nell’aiutante riconosco Falorni, ne avevo il presentimento. Tendo la mano verso il bullone, il freddo mi impedisce quasi di pensare, lo afferro delicatamente per poi stringerlo in pugno con la pochissima forza che riesco ad esercitare. È in quel momento che arriva un fremito, leggero ma profondo, sordo e come se provenisse da ogni direzione. Lo conosco fin troppo bene, sono i motori principali che si avviano; ma com’è possibile? La luce è quasi sparita, avverto odore di gasolio fresco ed un lungo e lamentoso scricchiolio accompagna il riassetto della nave, che si sta raddrizzando recuperando lo sbandamento. I quattro, adesso, sembrano immobili, come di cera. Indietreggio verso la porta, non so cosa fare, non so dove andare. Mi ritrovo nel corridoio, intravedo Simonini in fondo al corridoio che mi fa segno di avvicinarmi, sorride. Barcollando lo raggiungo, mi indica un portello, in basso, è semiaperto. Che strano, lì non c’è mai stato nessun portello e poi come mai è perfettamente rotondo e di legno lucido, sembra di mogano come la passerella. Mi fa segno di infilarmi dentro. Lo faccio, con difficoltà ma senza minimamente esitare, fermandomi solo un attimo per scambiare con lui un ultimo sguardo, come di serena e reciproca intesa. Adesso sono dentro, con la sensazione di essere perfettamente a mio agio. Avanzo carponi con sicurezza e ritrovata energia, affrontando e superando ostacoli di ogni tipo; adesso ho la precisa coscienza di essere dentro un grande déjà vu ed avanzo, sempre più sicuro, come se ripercorressi un itinerario fatto un’infinità di volte, disseminato di situazioni difficili ma tutte previste, che affronto con sicurezza e consumata esperienza. Le pareti di ciò che mi avvolge sembrano morbide, rassicuranti, tiepide ed umide, c’è un buon odore, come di matita temperata ed è come se li dentro riuscissi a fare tutto quello che voglio, anche volare.

Un ultimo piccolo sforzo e sono arrivato; il freddo si è ormai stemperato in un soave tepore.

Signor Perassi si svegli. C’è posto di manovra fra un’ora e siamo in anticipo di quasi due. Il vento c’è stato favorevole ed i principali4 sono andati come orologi, stanotte hanno acceso le TAG5 per una mezz’oretta. Sono quasi le sette, le porto un caffè?” Questo diceva il giovane nostromo Simonini al suo direttore, il capitano di corvetta Mario Perassi, ancora mezzo addormentato e che incominciava a stiracchiare piacevolmente ogni muscolo del suo corpo di atletico ventottenne. Aveva dormito vestito, cullato dalla Nave; prendendo sonno cinque ore prima guardando nel dormiveglia un film in VHS, “Il miglio verde”. Del film non si ricordava nulla tranne, stranamente e molto bene, solo una breve scena, nella quale un condannato a morte diceva al protagonista, che il Paradiso era come riandare nel passato e rivivere infinite volte il periodo più felice della propria esistenza. Nell’alzarsi dal letto, avverte una leggera fitta al fianco destro ed adesso, che era ben sveglio, si ricorda di quel fastidio che lo aveva oppresso per tutta la notte; c’era qualcosa, in tasca, che premeva sull’anca; vi infilò una mano e toccò un oggetto di metallo, tiepido, spigoloso da una estremità, rotondo e zigrinato dall’altra.

Lo tirò fuori lentamente; era un bullone da 12, inciso e deformato.

 

1 Nella Marina militare, invece che con il grado, agli ufficiali inferiori ci si rivolge con l’appellativo di “signore”. Analogamente, ci si rivolge agli ufficiali superiori, con “comandante” e agli ammiragli, con “ammiraglio”.

2 I “Quadrati” sono i locali di bordo destinati alle attività ricreative e alla mensa di ufficiali e sottufficiali. I graduati dispongono della “mensa equipaggio.

3 “Secondo” è l’appellativo del comandante in seconda.

4 Motori principali.

5 Turbine a gas.