"Il Signor Parolini"

(di Gregorio Vella)
25/09/17

Era da qualche giorno che lo osservavo. Lo trovavo diverso dagli altri operai, sembrava avesse l’aria come perennemente spaesata, anche se come età e come anzianità si trovava decisamente sopra la media dei suoi colleghi; si vedeva che non gli veniva naturale adeguarsi a loro e per questo sentivo di somigliargli, provando una indefinibile comunanza che mi portava a cercarlo con lo sguardo a mensa o allo spaccio, durante la pausa caffè delle dieci.

Si chiamava Parolini, portava un po’ male i suoi cinquantacinque anni; il profilo affilato, i tanti capelli grigi; era magro di aspetto, di quella magrezza afflitta e plasmata dalla fame giovanile, mal placata dalla pattona, l’indigesta polenta di farina di castagne, l’unico frutto che la natura elargiva copiosamente, tra quelle balze di Lunigiana dove Parolini era nato.

Io, venticinquenne, ero arrivato sei mesi prima, nell’ottobre del 1977 per lavorare nello Stabilimento del munizionamento della Marina Militare, dopo aver vinto un concorso da perito tecnico e stavo terminando il periodo di prova facendo pratica nelle sue officine.

Mi ero presto reso conto che ero oggetto di studio da parte della gente dello Stabilimento. Venendo dal sud (dalla “bassa”, come mi sentivo dire) rappresentavo un’incognita, per cui ero relegato in una specie di quarantena di cordiale diffidenza, dalla quale e dopo lungo e attento esame, sarebbe scaturito se potevo essere considerato “dei loro” o no. Parolini non mi studiava mai ed il suo sguardo, le rare volte che si incrociava con il mio era sempre aperto, vi notavo solo quella spontanea deferenza che la gente semplice prova per le persone che “hanno studiato”, ma senza alcun atteggiamento servile.

Un giorno, per vari motivi il gruppetto di cui facevo parte e che a mensa mangiava allo stesso tavolo, si era sgranato e mi sedetti a pranzare con Parolini che era da solo.

  • Buongiorno Parolini, posso?”

  • Certo dottore, si accomodi.

  • Non sono dottore e se vuole può darmi del tu, sono ancora giovane; com’è il minestrone?

  • Discreto ma un po’ salato e non va bene per la mia pressione; mi scuso se l’ho chiamata dottore ma mi consenta di darle del lei, è un mio superiore.”

  • Come vuole, ma siccome sono un suo superiore, dispongo che lei si rivolga a me per nome, Gregorio, e se proprio vuole può continuare a darmi del lei; non le sembra un buon compromesso?

  • Va bene... grazie.

  • Mi scusi se non mi faccio i fatti miei, ma l’ho osservata l’altro ieri in officina, quando finivate di spolettare quel lotto di proietti da 127; pensavo che il capofficina ce l’avesse con lei dandole da fare i lavori più antipatici, ma poi ho visto che se li cerca da solo, mentre i colleghi giovani si defilano elegantemente.

  • Non voglio fare dei discorsi facili, ma i colleghi giovani fanno così, perché sanno poco di cosa sia la fatica del lavorare. Non glielo ha insegnato nessuno; io quando avevo la loro età sono stato educato alla fatica e dalla fatica, quella vera. Quella che ti prende tutte le forze e che quando senti che ti stanno per finire, stranamente non ti preoccupi per te stesso ma ti dispiace perché pensi non riuscire a completare bene quello che devi fare. Sarà per questo, per questa cosa qui che mi viene da quando ero giovane, che non riesco a separare il lavoro dalla fatica. Cosa vuole, per me va bene così, si figuri se non va bene ai miei colleghi giovani. Ed anche a quelli che tanto giovani non sono; sa, qui siamo quasi tutti contadini e le forze bisogna conservarsele per quando andiamo a casa; c’è da vangare, da legare le viti, da fare i solchi per i pomodori, c’è chi ha le bestie da governare…

  • Le posso chiedere se ha fatto sempre questo lavoro e come ha cominciato?

  • Queste sono cose che succedono per caso; quasi sempre. Conosco poche persone che nella vita hanno fatto quello che sognavano di fare da ragazzi, e quelli che hanno avuto il destino di realizzarlo, spesso hanno avuto anche grosse delusioni; tanto più acute quanto più grande era stato il desiderio della realizzazione del loro sogno. La vita, anche se non a tutti, prima o poi ti presenta il conto per quello che ti da, a volte è salato ed inevitabilmente uno si chiede se ne valeva la pena.

Ma questo non c’entra con quello che mi ha chiesto.

Io sono del ventidue e quando compivo diciassette anni, che l’Italia entrasse in guerra era nell’aria. Mio babbo era morto da invalido cinque anni prima; s’era beccato una granata austriaca sull’Adamello nel diciassette, mentre andava all’assalto, urlando “Savoia!” e con il moschetto 91 in mano; l’avevano rappezzato alla meglio, sotto una tenda da campo alla luce del lume a petrolio per poi metterlo assieme ai morti, sotto la pioggia, perché nessuno avrebbe scommesso mezza lira che se la cavava. Invece la mattina dopo era ancora vivo; se ne accorsero perché chiamava la mamma, e allora lo mandarono nelle retrovie sopra un 18 BL, che rimanere vivo su quel camion con le gomme piene per venticinque chilometri di pietraie forse è stato peggio della granata. Tornò a casa cieco, senza il braccio sinistro, con due medaglie e con un certo numero di schegge di granata in corpo, con le quali convisse altri dieci anni. Praticamente non aveva un organo in ordine, tranne quello che gli servì per mettere incinta mia madre, prima di mia sorella e poi di me. Come moglie di grande invalido, a mia mamma diedero il posto in Arsenale a Spezia, all’officina bandierai, ma non poteva viaggiare tutti i giorni da Monzone, sia per il tempo che ci voleva sia per la spesa; la paga dell’arsenale era grama ed ancora più scarsa era la pensione di guerra del mio povero babbo che combinato com’era non poteva più lavorare i campi e gli occhi gli erano rimasti solo per piangere di questa situazione. Mamma alloggiava in un appartamentino di sartine vicino piazza Brin e per ritornare a Monzone, ma solo per un giorno alla settimana, doveva prendersi due treni.

Meno male che eravamo una grande famiglia; su a Monzone dove sono cresciuto, quella di mia madre. Fra parenti ed affini eravamo una ventina. Stavamo in un grande casone e ci volevamo tutti un gran bene; a mangiare si mangiava in due turni, come qui in Stabilimento, lavoravamo tutti e tanto, anche i piccolini. Erano tempi grami, ci si accontentava di poco e non ci mancava quasi nulla; compravamo solo i fiammiferi, il sale, le medicine ed i libri per la scuola, tutto il resto anche i vestiti lo facevamo da noi o lo procuravamo barattando granturco, farina di castagne e vino.”

Avevamo finito di mangiare da un po’ e non mi ero perso una sola parola di quello che mi aveva raccontato, avevo voglia di starlo ancora a sentire e mi sentivo beneficato dall’essere considerato meritevole delle confidenze dei suoi ricordi, mentre l’ascoltavo l’avevo osservato mentre mangiava. Si possono capire tante cose della persona, osservando il modo in cui mangia; Parolini lo faceva con lentezza quasi reverenziale ed in maniera spontaneamente educata, a piccoli bocconi, spingendo delicatamente la minestra nel cucchiaio con un tozzetto di pane, si capiva che aveva un grande rispetto per qualsiasi cosa avesse nel piatto.

Dopo il caffè che faticai a fargli accettare, ci salutammo con un arrivederci e con la promessa di raccontarmi il resto, dalla stretta di mano avvertivo di essergli simpatico ed ero contento.