"Il lavoro più bello del mondo e i cerchietti" (i valori dell’Essere soldato)

(di Falconfab)
25/05/16

“Papà, esci ogni giorno con lo stesso vestito, io chiedo alla mamma dove vai, e lei dice: ‘a lavoro’. Che lavoro fai?”, “Il vestito si chiama uniforme, lo indosso perchè sono un soldato”.

Riccardo era perplesso, per lui il soldato era un uomo grosso e cattivo che uccide nemici ancora più cattivi, il soldato era un po’ Superman e un po’ Crudelia de Mon. Ma lui non aveva mai visto il suo personale super eroe usare violenza.

“E ogni giorno spari a qualcuno?”, “no, per carità! Non si spara quasi mai, per fortuna”.

Riccardo era confuso: “ma allora cosa fai?”, “servo la Patria, figliolo” e, come la notte segue il giorno, inevitabile, arrivò l’altra domanda.

“Cos’è la padria? Perchè la servi?”, “la Patria, con la ti, è quel posto dove abbiamo le nostre radici, quel posto dove sono vissuti i nostri padri e, la servo perchè...”, “ok, ho capito cos’è la padriaconlattì” e, soddisfatto oppure annoiato, tornò ad incastrare i suoi mattoncini per inventare una nuova astronave. Ma, quel giorno, andando in caserma, provai un senso di vuoto. Quella spiegazione enciclopedica di Patria non mi rappresentava più.

Perchè obbedire e rischiare per una padria? Cosa c’entravo io con la terra di avi che non ho mai conosciuto? E quelli che conosco, sarebbero davvero fieri di avere un croce alla memoria al posto di un figlio? Deluso e stanco, con le spalle curve sotto l’invisibile peso di parole vuote, mi sentivo imprigionato in un lavoro che non potevo più cambiare ma che svolgevo per venale interesse. Da allora, iniziai a celebrare l’alzabandiera per dovere, senza entusiasmo. Sussurravo un inno ‘distante’ e mi chiedevo quanto fosse vero che, se l’Italia avesse chiamato, sarei stato ‘pronto alla morte’. Sapevo la risposta ma, il retorico giudice della mia coscienza mi vietava di ammettere una pavida verità.

Tempo dopo, arrivò il giorno di una cerimonia, una ricorrenza o una festa che rendeva gli onori a martiri del passato o del futuro. “Papà, oggi indossi un vestito nuovo!” Riccardo sente il tintinnio delle medaglie che sto sistemando sulla diagonale e grida con entusiasmo: “WOOOW!”. Io le stringo mollemente in mano. Sento solo freddo metallo.

“Cosa sono questi cerchietti di ferro?”, “medaglie” rispondo sbrigativo. I giorni in cui ero orgoglioso del loro peso sono lontani. Oggi sono solo un vezzo, una vanità. Ma Riccardo, con lo stupore di un bambino, è affascinato. Le gira e le rigira tra le dita paffute e chiede: “me le dai? Le porto a scuola!” “be’, no. Non posso dartele, queste non vanno sciupate, hanno un significato profondo e, se regalate, perdono di valore. Devono essere guadagnate”.

“E come le hai guadagnate? Cosa significano?”, non so rispondere, mi gira la testa. Ricordo un giovinetto che, con l’incoscienza dei suoi ‘verdi anni’ guarda un paese distrutto. Vedo, con gli occhi della memoria, una città coperta di fumo. La mente rievoca quel giorno polveroso in cui io maledicevo le mosche che desideravano abbeverarsi intorno ai miei occhi stanchi dalle nove ore di guardia. Quella donna velata veniva verso di me. Io le intimavo di fermarsi senza convinzione. ‘L’11 settembre’ sarebbe venuto anni dopo e non pensavo a bombe o attentati. E poi, quegli occhi neri, belli, disperati e sinceri, mi imploravano fiducia. L’istinto vinse sulla paura e le permisi di avvicinarsi. Poi lo vidi. Nascosto tra le vesti abbondanti, il bambino era tra le sue braccia. Aveva 5 o 6 anni. Era bianco, di quel bianco che prelude il sonno senza ritorno. Il petto si alzava ed abbassava per strappare l’ultimo minuto ad una cinica ed inevitabile morte. Chiamai il maresciallo che chiamò il medico. Questi, con il pranzo ancora in bocca, corse accanto a me, abbracciò il bambino sporco e, ruminando il boccone senza proferir parola, lo portò con se. La mamma, seduta su un marciapiede, pianse a lungo, in silenzio. In seguito seppi che dieci giorni prima le avevano ammazzato il marito davanti agli occhi. Lui era stato un dottore ma aveva curato tutti, anche i figli della padria sbagliata. Ricoverarono il piccolo in infermeria. Non andai mai a trovarlo. Ebbi paura provare l’affetto che, da lì a poco, sarebbe diventato dolore della perdita.

Un paio di giorni o un secolo dopo, mentre contavo i minuti che mancavano per smontare da quell’altro, eterno, turno di guardia, la vidi. La signora velata, esibendo un passi blu, entrava in base. Avevo chiesto la sua storia, mi avevano raccontato che il bambino aveva avuto una qualche malattia semiseria. In un paese in pace i genitori si sarebbero preoccupati un po’ e lo avrebbero portato dal dottore, due antibiotici e via, di nuovo a giocare. Ma li, dove non esisteva più una Patria, una vedova sola e confusa aveva scelto, nella teca-farmacia del marito appena ucciso, le medicine per il figlio. Aveva sbagliato intruglio e l’aveva avvelenato. Disperata aveva chiesto aiuto a tutti: nessuno poteva aiutarla. Nessuno voleva salvare quella famiglia infettata dal sangue del traditore. Ingoiati orgoglio e dignità, era andata anche da quelli verso i quali avrebbe dovuto provare odio e risentimento. Fu derisa. Allora, prima di lasciarsi morire, aveva deciso di dare il suo bambino ad un medico sconosciuto, venuto da una terra di altri avi. Con la mente immersa in questi pensieri, la mano sul fucile e gli occhi guardinghi, attesi pochi momenti ed eccoli, mano nella mano, madre e figlio, uscire pronunciando sconosciute parole di ringraziamento. Lo avevano salvato. 

“Papà, papà! Come le hai guadagnate?”, con un nodo in gola e gli occhi lucidi tornai alla realtà, “facendo il lavoro più bello del mondo”. “Te le ha date la padriaconlattì? Cosa significano?”, “il significato non lo so più ma mi ricordano che la Patria è quel posto dove un dottore può far sorridere un bambino come te senza chiedergli chi è suo padre. La Patria è la terra che mi hai concesso in prestito. La Patria sei tu, la mamma e i nonni. La Patria è quel posto dove la mia famiglia può vivere felice e che io, grato, difenderò ad ogni costo”.

  

Liberamente ispirato a fatti reali. Italia 2013. Kosovo, 1999.