La percezione russa delle minacce alla propria sicurezza

(di Renato Scarfi)
15/11/22

Dal 24 febbraio scorso siamo tornati a parlare insistentemente di Russia quale minaccia alla sicurezza europea. Erroneamente, infatti, le aggressioni degli ultimi quindici anni non avevano fatto avvertire il grande paese euroasiatico come un rischio per i paesi europei. Con l’inizio del confronto ad alta intensità con l’Ucraina, invece, è completamente cambiata la nostra percezione del pericolo, rappresentato da un sistema dittatoriale mascherato da pseudo-democratico.

Nonostante le drammatiche immagini che vengono quotidianamente veicolate dai media mondiali, tuttavia, in Occidente permangono correnti di pensiero che indicherebbero la Russia come una vittima e non come carnefice, giustificandone le azioni violente con la percezione che Mosca ha della propria sicurezza, sentita come una minaccia alla propria stessa esistenza. Generalmente si tratta di correnti di pensiero che si abbeverano abbondantemente dalle fontanelle inquinate della propaganda coordinata dal Cremlino, quasi sempre non controllando le informazioni in maniera critica con altre fonti indipendenti ma acquisendole in maniera ideologica e, spesso, facendo semplicemente copia e incolla di quanto divulgato da Mosca. Posizione legittima, per carità, ma lontana da quella che dovrebbe essere un’analisi che tiene conto dei fatti accertati, che sia essa geopolitica, economica, storica, sociale o militare e ciò rende tali posizioni prive di credibilità.

Senza avere alcuna brama di stabilire chi ha ragione e chi ha torto (lo stabiliranno la storia e la Corte internazionale) ma mantenendo chiaro il concetto che, nel caso ucraino, esiste un aggressore (la Russia) e un aggredito (l’Ucraina) appare, quindi, opportuno analizzare le ragioni dichiarate da chi ha avviato questa guerra, al fine di cercare di comprendere quali sono le effettive cause di questo disastro europeo e quali potrebbero essere i suoi effetti a medio e lungo termine.

La cornice ideologica

La principale causa della sorpresa europea di fronte alla nuova (ma vecchia) assertività imperialistica della Russia di Putin risale senza dubbio sulla convinzione che la vittoria di Eltsin sul candidato comunista Zjuganov, nelle elezioni a suffragio universale del 1996, avesse contribuito a consolidarne il sistema democratico, eliminando il rischio di un ritorno al comunismo sovietico. Un’impressione largamente favorita dal fatto che la Russia di fine secolo scorso era una Russia cui era venuta a mancare un’ideologia unificante, tant’è che si era avvalsa di inno, bandiera e scudo imperiale. A ciò si è aggiunto, più tardi, anche l’atteggiamento relativamente collaborativo dimostrato da Mosca, con la firma della Dichiarazione di Roma del 2002, e l’apertura di una propria rappresentanza presso il Quartier Generale della NATO a Bruxelles.

Chi scrive era al tempo destinato presso gli uffici del Gabinetto del Ministro della Difesa e ricordo il plauso generale che suscitò tale tipo di atteggiamento collaborativo. Un atteggiamento che riscontrai successivamente anche al mio arrivo presso la Rappresentanza militare italiana al Quartier Generale della NATO a Bruxelles, dove i rappresentanti militari e politici russi partecipavano attivamente a riunioni ad-hoc con i paesi della NATO, formalmente da pari a pari. Si trattava di un’eccellente sistema per approfondire la mutua conoscenza e costruire insieme un clima di fiducia reciproca, dopo decenni di Guerra Fredda. Purtroppo si è trattato di una collaborazione che non è durata molto, giacché già nel 2008 la Russia ha aggredito la Georgia, per poi ripetersi nel 2014 con la Crimea e, oggi, con l’intera Ucraina.

Alla base di tutto bisogna comprendere che la Russia è profondamente immersa nel continente euroasiatico, ma non necessariamente riveste il ruolo messianico assegnatole da quello che da più parti è stato indicato come il “filosofo” favorito di Putin, Alexander Dugin. Nel suo libro “I fondamenti della geopolitica: il futuro geopolitico della Russia”, pubblicato nel 2017, egli afferma infatti che “…la battaglia per il dominio mondiale dei russi non è finita…” e che la Russia rimane “…l’area di scena di una nuova rivoluzione antiborghese, antiamericana…”. In tale contesto, secondo Dugin (al tempo consigliere di geopolitica del presidente della Duma) l’impero eurasiatico dovrebbe essere costituito “…sul principio fondamentale del nemico comune: il rifiuto dell’atlantismo, il controllo strategico degli USA e il rifiuto di permettere ai valori liberali di dominarci…”. Concetti impressionanti e terrificanti per chi è abituato allo stile di vita occidentale e ai valori democratici sui quali tale stile si basa. Uno stile forse imperfetto, ma è il migliore che abbiamo al momento.

Viste le ripetute forti dichiarazioni di alcuni esponenti di spicco della élite politica russa, cresciuti professionalmente durante la Guerra Fredda, sembrerebbe che le “idee” del filosofo abbiano comunque avuto una creta influenza all’interno del paese e potrebbero aver fornito le basi ideologiche che hanno portato alle ultime drammatiche scelte nella politica estera di Mosca.

Nel dibattito politico, quindi, si sarebbero unite correnti di pensiero del passato, che si sono fuse per giungere all’attuale ideologia dispotica che si richiama alla Santa Madre Russia come salvatrice del mondo. Un’ideologia che si è affermata con lo Zar Alessandro III (1845-1894) e che ha dato origine all’espansione russa verso l’Europa e verso i Balcani, alternata con quella verso l’Asia. Un’ideologia dal carattere marcatamente nazionalista e imperialista e il fatto che il comunismo ne realizzò molti obiettivi contribuisce a spiegare l’adesione dei russi che, nella Seconda Guerra Mondiale (chiamata dal comunismo “la grande guerra patriottica”) difesero strenuamente la patria più che l’ideologia.

Aspetti geografici, demografici e geopolitici

Per comprendere in pieno la percezione russa circa la propria sicurezza è prima di tutto necessario fare rifermento alla sua geografia e alla sua dinamica demografica.

La collocazione del paese, ponte tra Europa e Asia, la sua estensione, la bassa densità abitativa, la presenza di culture enormemente diverse, i lunghissimi confini terrestri e un clima durissimo hanno contribuito a creare la sensazione di pericolo che ha contraddistinto la relativamente breve storia della Russia. Nonostante la riduzione del territorio percepito come “sicuro” dopo la fine della Guerra Fredda, la Russia oggi copre circa un ottavo delle terre emerse, e ha il 60% di superficie più del Canada, il secondo paese più esteso del mondo. L’estensione rappresenta, quindi, la sua forza e la sua debolezza.

La scarsa popolazione, commisurata all’estensione geografica del paese, rende ancor più difficile il controllo del territorio e dei confini nazionali. Se a ciò sommiamo la possibile minaccia rappresentata dalla galoppante crescita demografica di alcuni paesi ai suoi confini, si comprende come con il tempo (si parla del 2050) la pressione possa diventare significativa. Dei circa 150 milioni di abitanti, inoltre, il 74% vive nelle aree urbanizzate a ovest degli Urali, lasciando quasi disabitata (e sostanzialmente priva di controllo) tutta la vastissima area verso l’estremo est. Un’area dove qualche milione di russi vede la presenza in Manciuria di qualcosa come 130 milioni di cinesi, di cui un numero significativo vive sul lato tradizionalmente russo del confinei. Il patrimonio demografico russo, infine, nel tempo è andato impoverendosi, dato che ogni anno molti cittadini, prevalentemente lavoratori specializzati, lasciano il paese per trasferirsi all’estero, spesso senza fare più ritorno (375.000 famiglie nel solo 2015).

Alcuni studi indicano, inoltre, che nella popolazione russa del futuro cresceranno le percentuali di mussulmani, cosa che impensierisce la Chiesa Ortodossa di Mosca (e il Cremlino). La crescita demografica di gruppi lungamente oppressi, infatti, potrebbe creare difficoltà interne al momento non prevedibili nella loro dimensione e intensità.

La Russia, inoltre, è come un grande magazzino di risorse, alcune delle quali non ancora pienamente sfruttate. La sua economia è piuttosto rigida e largamente dipendente dall’esportazione di risorse energetiche, come petrolio e gas naturale. Con la crescente competizione in atto, ciò rende la Russia vulnerabile agli appetiti predatori dei vicini, affamati di tali risorse. A ciò si aggiungono la previsione di drastiche riduzioni delle esportazioni verso l’Europa, per effetto della transizione energetica per il 2035-2050 (percepita come minaccia economica), e le difficoltà e i costi per l’estrazione di petrolio, che prevedibilmente aumenteranno in futuro a causa dello scioglimento dei ghiacci della tundra settentrionaleii.

Tuttavia, lo scioglimento dei ghiacci aprirà nuove opportunità per Mosca, con la possibilità di utilizzare in modo progressivamente maggiore nuove rotte commerciali marittime lungo il confine settentrionale. Un’opportunità che potrebbe essere sfruttata congiuntamente all’Europa, creando una promettente alternativa alla Belt and Road Initiative cinese. Rimane da vedere quali capacità avrà ora il paese per sfruttare tale opportunità senza ledere il diritto internazionale e senza creare nuovi contrasti. L’area artica rimane, infatti, potenzialmente ottimale per la cooperazione o il conflitto, sia in chiave economica che geopolitica, ma anche in un’ottica militare di insediamento di basi per sostenere le proprie rivendicazioni territoriali/marittime lungo la Rotta Nord. La principale di queste rivendicazioni vede già oggi la disputa tra Russia, Canada e Danimarca per la dorsale di Lomonosov, che collega la piattaforma canadese con la piattaforma siberiana e che Mosca rivendica come appartenente alla propria piattaforma continentale, con implicazioni sulla Zona Economica Esclusiva (leggi articolo “Zona Economica Esclusiva e potere marittimo”).

Tuttavia, nonostante queste evidenti vulnerabilità strutturali, la Russia di Putin ha sviluppato una percezione della minaccia orientata quasi esclusivamente verso occidente. Una errata sensazione di pericolo che ha portato, per esempio, a rifornire l’area di Kaliningrad con ulteriori missili balistici a corto raggio SS-26 “Iskander”, anche se quell’area è la più tranquilla e pacifica tra tutte le zone di confine russe.

In tale quadro si inserisce la convinzione dell’ipotetico “accerchiamento” della NATO, un termine impiegato in maniera impropria giacché, come si può notare dalla mappa, solo una minima parte del confine russo coincide con i paesi della NATO.

Ma per comprendere la percezione russa circa la propria sicurezza è indispensabile effettuare anche una velocissima analisi della situazione geopolitica lungo i suoi confini.

Soprattutto per la presenza del gigante cinese, alleato ma non troppo, in Estremo Oriente e in Asia centrale non sembra che Mosca abbia particolari mire espansionistiche, a esclusione della penetrazione commerciale (laddove possibile e sempre in concorrenza con Pechino) e della disputa con il Giappone circa le Isole Curili, che si trovano tra l’estremità nordorientale dell’isola giapponese di Hokkaidō e la penisola russa di Kamchatka. Una disputa che va avanti da 75 anni.

Nel resto dell’area Mosca sembra focalizzata al mantenimento degli attuali confini, applicando una postura difensiva basata sulla strategia conosciuta come Anti Access/Area Denial (A2/AD) e il dispiegamento di una forza deterrente basata su armamento missilistico e sulla presenza della Flotta del Pacifico (Bastione del Pacifico). (leggi articolo “La strategia navale russa”)

In tale ambito vanno ricordate le relazioni con la Corea del Nord, con la quale la Russia condivide solo circa 18 km di confine, con la Cina, la cui influenza sui territori russo-siberiani sta velocemente crescendo, e il Kazakhstan, il più esteso e popoloso delle ex-Repubbliche sovietiche, ricco di risorse energetiche e alla continua ricerca di una stabile indipendenza dal vicino russo.

Nei confronti delle ex-Repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale la Russia ha un approccio tendente a mantenerle nella sua sfera di influenza privilegiata anche se, come detto, alcuni paesi cercano con decisione una propria dimensione indipendente, pur mantenendo una qualche forma di attento bilanciamento politico nei confronti di Moscaiii. Al momento, anche per le esigenze correlate alla guerra in Ucraina, Mosca non sembra comunque avere gli strumenti militari per imporre la propria completa influenza su tutta la regione.

Il Caucaso ha sempre rappresentato una sfida per le questioni securitarie russe. È l’area dove i temi geostrategici ed economici si accavallano agli aspetti etnici, linguistici e religiosi. L’aggressione alla Georgia del 2008iv e la costituzione delle due autoproclamate Repubbliche di Ossezia del Sud e di Abkhazia è stata un avvertimento al mondo che la Russia è e vuole rimanere bellicosamente e prepotentemente ingaggiata nelle aree che ritiene di importanza vitale per la propria sicurezza. Un avvertimento che è stato ribadito con l’aggressione all’Ucraina nel 2014 (Crimea) e nel 2022. Da parte di molti analisti si tratta di eventi che potrebbero precludere a successive ulteriori devastanti e similari velleità nei confronti della Moldavia e di altri paesi confinanti con la Russia. Mosca, infatti, percepisce qualunque tipo di presenza occidentale nell’area caucasica come una grave minaccia al dominio russo e un vulnus operativo della propria area di sicurezza. In tale ambito riveste particolare rilevanza la contrapposizione con la Turchia sulla questione del Nagorno-Karabakh tra Armenia (supportata da Mosca) e Azerbaijan (supportata da Ankara), che periodicamente torna a incendiare l’area.

E veniamo all’Occidente, territorialmente rappresentato dall’Europa, nano politico profondamente diviso sulla politica estera e sostenuto da lontano dagli USA. Qualunque discussione circa le relazioni tra Russia e Occidente deve partire dalla percezione che Mosca ha del sistema politico liberal democratico e del sistema economico occidentale, ritenuto una vera e propria minaccia esiziale. Tale approccio è sostenuto dalla narrativa di regime, che sottolinea come ci si trovi in uno stato di permanente competizione e confronto con l’Occidente. Ciò permette di consolidare all’interno del paese l’autostima, la fiducia … e i controlli. Un sistema che lascia intendere che alla competizione economica è unita la competizione politica e militare e che permette, quindi, di stringere la morsa del controllo interno. Un sistema che permette anche di scaricare all’esterno ogni fallimento interno, sia esso economico, politico o militare. In sostanza, se qualcosa va male in casa è colpa degli stranieri, acerrimi nemici della Grande Madre Russia. Poco importa se, per esempio, l’Occidente non ha avuto alcun approccio aggressivo verso la Russia (tant’è che era stata accolta all’interno del NATO HQ), ma si è focalizzata sull’inclusione volontaria (e felice) dei nuovi paesi sovrani emersi dal disfacimento del sistema sovietico in un sistema democratico basato sul libero mercato.

Gli aspetti militari

Si comprende, pertanto, come gli aspetti geopolitici abbiano contribuito a plasmare la percezione russa circa la propria sicurezza. Una percezione aggravata dalla difficile gestione dello strumento militare, anche per effetto delle grandi distanze tra i due estremi territoriali, lontani ben 11 fusi orari. Fin dai tempi degli Zar questo ha rappresentato un importante dilemma per la sicurezza del paese.

Per effetto dei vincoli demografici ed economici la Russia ha, inoltre, difficoltà a sostenere per lungo tempo importanti interventi militari, specialmente lontano dai propri confini. Come nel caso del lungo impegno in Siria, che ha drenato le già contenute risorse militari russe.

Pochi militari realmente ben addestrati, quindi, che sono indispensabili ma insufficienti per operare efficacemente con i moderni mezzi tecnologici. Soprattutto pochi militari davvero motivati, come dimostrano le cronache ucraine e l’arruolamento forzoso, cui i giovani russi cercano di sottrarsi con tutti i mezzi (leggi articolo “Alcune riflessioni sull’esercito russo”).

Queste Forze di terra, con poche eccezioni (truppe d’élite), sono poco preparate e sono relativamente poco numerose (mantenere un grosso esercito costa molti soldi, che la Russia non ha) ma devono controllare un territorio vastissimo. Alle operazioni in Ucraina e nei vari distretti militari russi, inoltre, si aggiungono le esigenze di personale per le guarnigioni permanenti in Siria, Armenia, Kyrgyzstan, Tajikistan e Moldavia (Transnistria).

E proprio da queste fragilità strutturali nasce l’esigenza di prevedere operazioni che si sviluppino in tempi estremamente contenuti. Un esempio sia la guerra-lampo in Georgia per la “liberazione” dell’Ossezia del Sud (1 - 12 agosto 2008) o il primo attacco all’Ucraina in Crimea (23 febbraio – 19 marzo 2014). Un principio che stava anche alla base dell’aggressione all’Ucraina del 24 febbraio scorso: conquistare velocemente la capitale, destituirne il governo, facendo crollare l’impalcatura di sicurezza nazionale, nominare un governo che assicurasse la fedeltà a Mosca e far rientrare le truppe. Le cronache ci raccontano ogni giorno del completo fallimento di quella pianificazione.

Queste fragilità sono alla base delle attuali difficoltà russe, nonostante alcuni osservatori si ostinino a dichiarare che la Russia conserva intatta la propria capacità industriale e militare, nonostante le gravi perdite di uomini, di materiale e le sanzioni economiche (leggi articolo “A che punto è la notte”).

L’unico elemento che rappresenta al meglio l’efficienza militare è rappresentato dalle Forze nucleari permanenti (missili, bombardieri e flotta di sottomarini), la crema del personale militare russo. Tuttavia, è molto probabile che all’interno dell’apparato militare russo molti autorevoli pensatori pragmatici siano convinti che l’impiego delle armi nucleari (anche tattiche) siano legittimate solo per la difesa e non per ampliare la propria sfera di influenza con l’esercizio della forza bruta. Ciò lascierebbe margini di manovra per la dialettica e la composizione diplomatica delle dispute, anche quelle più sanguinose.

Conclusioni

Qualunque siano le cause, percepite o reali, che hanno condotto Putin a un tale grave passo, non vi è alcun dubbio che, sotto il profilo militare, la condotta delle truppe russe finora è stata tutto fuorché onorevole e che tale disonore resterà per moltissimi decenni come marchio di infamia.

L’amministrazione Zelensky forse potrà non essere stata trasparente od onesta, resta certo che l’aggressione russa ha ottenuto l’obiettivo – non voluto – di far compattare gli ucraini attorno a loro presidente, amato o meno.

Sotto il profilo geopolitico, la sconsiderata azione di Putin e l’evidente scarsa preparazione delle sue Forze ha causato un grave indebolimento (eufemismo, visto che le navi principali sono state affondate o gravemente danneggiate) della flotta del Mar Nero, violata perfino all’interno dei propri porti. A tutto vantaggio di Erdoğan, che ringrazia per l’inaspettato “aiuto”, mentre si appresta a diventare il maggiore attore sul Mar Nero (anche grazie al controllo degli Stretti), con tutto quello che ne consegue a livello di potere contrattuale nelle relazioni con gli Stati costieri e di approvvigionamento delle abbondanti risorse sottomarine dell’area.

Lo stesso Putin ha completamente fallito anche in Europa settentrionale, se si tiene conto che uno degli obiettivi preconizzati da Dugin era “…la finlandizzazione di tutta l’Europa…” mentre auspicava che la Finlandia stessa fosse assorbita dalla Russia. Il Parlamento di Helsinky, infatti, proprio a seguito delle azioni russe ha deciso di lasciare la tradizionale neutralità e ha deliberato di avviare le procedure per l’adesione alla NATO. Stessa cosa da parte della Svezia.

E che dire dell’area centro-asiatica, quella che era la forza della vecchia Unione Sovietica? Con la sua mossa Putin non è riuscito ad acquisire neanche il sostegno politico del Kazakstan, il paese più rilevante (per estensione e disponibilità di risorse energetiche) del vecchio sistema sovietico.

Molto ci sarebbe da scrivere circa le relazioni tra Russia e Occidente e probabilmente ognuno rimarrebbe saldo nelle proprie convinzioni. Tuttavia, anche se negli ultimi 15 anni ci sono stati evidenti errori politici da entrambe le parti, nulla giustifica un’aggressione militare e tanto meno il brutale trattamento riservato alla popolazione civile ucraina.

La Russia, comunque vada a finire la drammatica vicenda ucraina, continuerà tuttavia a essere un’importante potenza giacché la storia ha dimostrato che si tratta di un paese di cui l’Europa ha bisogno. Le due economie, per esempio, sono complementari. Ma il Vecchio Continente ha bisogno di una Russia democratica, stabile e amica.

Nessuno sano di mente desidera una Russia prostrata o, peggio, frazionata in tanti staterelli poveri e arrabbiati, con tutte le intuibili conseguenze politiche, militari, economiche e sociali. Nonostante le paure del Cremlino, quindi, il destino della Russia non potrà essere determinato dall’esterno. Tantomeno dalle minacce (che non sono la stessa cosa della deterrenza), percepite o reali.

Il destino della Russia rimane nelle mani dei russi. Sui milioni di abitanti di questo paese sterminato a cavallo tra Europa e Asia, ricchissimo di materie prime e di fonti energetiche, che sarebbero sufficienti a dare a tutti loro un benessere sostanziale e duraturo. Regimi assolutisti e diffusa corruzione a parte.

Si tratta di superare, una volta per tutte, la pluriennale abitudine a considerarsi degli eletti e a considerare una minaccia tutto ciò che non può essere occupato, sottomesso o spaventato.

Si tratta di decidere se continuare a subire un governo dall’alto, che ha favorito l’instaurarsi di una forma di governo presidenzialista a sfondo autocratico, che dovrebbe essere maneggiato da una persona capace di comprendere le potenzialità e le esigenze della Russia e del suo popolo.

Le incognite risiedono, pertanto, nel come e se i russi sapranno gestire il proprio paese, in modo da percepire diversamente le presenze ai propri confini e non rappresentare più una minaccia per le altre popolazioni, ma una risorsa a sostegno degli equilibri mondiali.

i Liz Bagot e Josh Wilson, The Russian far East, Gateway to Asia, School of Russian and Asian studies, 2016

ii Deborah Gordon, Opportunities and Challenges Facing Russian Oil, Carnegie Endowment for International Peace, 2013

iiiUnderstanding the Russian Sphere of Influence, UKEssays.com, 2015

iv Michael Cecire, Georgia Misses Chance on Russia Overreach in Abkhazia, South Ossetia, World Politics Review, 2015

Foto: Cremlino / NATO / MoD Federazione russa / web