Donbass, la “Somme” del XXI secolo alle porte dell’Europa

(di Giorgio Bianchi)
19/06/19

Sono oramai passati quattro anni dalla prima volta che misi piede a Donetsk.

All’epoca la città appariva spettrale.

Dei circa due milioni di abitanti ne erano rimasti poco più di 60000.

Le strade erano deserte, i negozi serrati, i supermercati sprovvisti anche dei generi di prima necessità.

Era inverno, faceva freddo.

Il rumore dei bombardamenti era udibile fin dal centro della città, sembrava un temporale in lontananza.

La cosa che più mi colpì all’epoca fu che il Teatro dell’Opera e del balletto funzionasse.

L’edificio, unico sopravvissuto alle devastazioni naziste nella città, continuava ad essere affollato di spettatori nonostante la guerra, nonostante le bombe.

Quando chiesi alle persone il motivo per il quale si recassero a teatro a dispetto di quella situazione apocalittica, la risposta fu pressoché unanime; quello era l’unico luogo in città dal quale non si udivano i rumori dei bombardamenti.

Gli artisti e le maestranze che non erano fuggiti altrove avevano fatto una riunione e avevano deciso di proseguire il lavoro, pur senza ricevere lo stipendio, per continuare ad offrire alla popolazione almeno quelle due ore di ristoro dall’orrore della guerra civile.

Con il passare degli anni la situazione è andata via via normalizzandosi e la linea di demarcazione tra la periferia della città e il centro si è fatta progressivamente più netta.

Oggi Donetsk si è ripopolata, le vie sono affollate durante tutto l’arco della giornata (tranne la notte per via del coprifuoco ancora in vigore) e i rumori della guerra sono quasi del tutto assenti.

Insomma nelle vie del centro la guerra sembra oramai lontana, un ricordo del passato.

In questo momento sembra esserci una sorta di porta dimensionale in grado di trasferirti dalla più assoluta normalità, fino nel bel mezzo dell’orrore e della devastazione della guerra civile.

A Donetsk è pertanto possibile ritrovarsi con gli amici nella caffetteria di fronte al teatro a mangiare una fetta di torta e a sorseggiare un cappuccino, e mezz’ora dopo essere in una trincea che nulla ha da invidiare a quelle scavate dai nostri nonni nella Somme, durante la Prima Guerra mondiale.

Nella zona delle trincee a differenza del centro della città si spara ancora e i feriti e caduti continuano ad ingrossare i numeri di questa assurda guerra alle porte dell’Europa del XXI secolo.

I soldati della Shakhterskaya Divisiya operano nelle trincee scavate a meno di 600 metri dalle postazioni ucraine.

In poco più di tre anni hanno costruito in quella zona una città sotterranea con tanto di dormitori, mensa, magazzini, cucina e addirittura una sauna russa.

Si scava tutti i giorni, tutto l’anno a -25 d’inverno e a +40 d’estate, nella neve e nel fango, con casco e giubbotto antiproiettile, perché come ti ripetono continuamente i soldati, lì può piovere qualcosa in qualsiasi momento.

Dalla postazione di avvistamento si vede chiaramente la bandiera gialloblu delle trincee ucraine.

La rotazione degli uomini avviene spesso: l’arrivo del camion Ural con le truppe fresche è annunciata da una chiamata alla radio.

Appena posato il ricevitore due uomini si mobilitano e si pongono in osservazione verso le postazioni nemiche.

Ogni movimento è programmato al secondo. Quello è il momento più pericoloso della giornata, perché il camion potrebbe essere bersagliato dal tiro nemico.

Appena accostato di fianco all’ingresso della trincea gli uomini saltano giù e iniziano a scaricare zaini e attrezzature. Ogni trasporto viene inoltre sfruttato per portare in postazione acqua fresca e tronchi d’albero tagliati lungo la strada.

Appena scaricati i tronchi vengono rifiniti a misura e posizionati per rinforzare la copertura delle postazioni.

Il tempo libero in trincea è veramente poco.

Nelle rare pause i soldati ne approfittano per fare una partita a domino, per pulire le armi e perché no, per schiacciare un pisolino in camerata.

Il cuoco lavora tutto il giorno e si ingegna per cercare di servire ogni giorno un passo vagamente differente da quello del giorno precedente.

La sua famiglia abita poco distante dalla trincea. Quando torna dalla sua abitazione porta sempre con sé le marmellate fatte in casa e il preparato per fare gli infusi alla frutta.

Non aveva mai cucinato prima in vita sua, ha imparato sotto le armi.

Il nome della divisione che tradotto letteralmente significa la “divisione dei minatori” ricorda che molti di loro prima della guerra lavoravano nella miniera poco distante.

Andrej, mi mostra all’orizzonte il suo vecchio posto di lavoro. Si vede ad occhio nudo.

Prima era caporeparto, ora è tenente.

Dopo cinque giorni che ero lì con loro mi invitano a fare la sauna.

Inizialmente credo di aver capito male.

Invece no. I ragazzi hanno costruito nella trincea una sauna russa che soddisfa gli standard più elevati.

C’è il vestibolo dove poter spogliare l’equipaggiamento militare e la sauna vera e propria con tanto di sedili, lenzuoli e luci a led.

Mentre sono sdraiato a godermi il vapore caldo, un soldato afferra un fascio di rami di alloro e inizia a massaggiarmi la schiena.

Se ci fosse ancora la neve la tradizione prevederebbe ogni tanto di uscire e di cospargersi il corpo con manciate di fiocchi candidi. In questo periodo il fango ha preso il posto della neve, pertanto in sostituzione c’è il secchio d’acqua gelata.

È un momento magico quello della sauna. In un attimo l’umidità che mi era entrata fin dentro le ossa lascia il posto ad un generale senso di benessere. Il profumo dell’alloro riesce in qualche modo a mascherare l’odore da trincea che il mio corpo stava iniziando ad emanare dopo cinque giorni senza doccia.

Non riesco ad immaginare come sia possibile che nel 2019 ci siano ragazzi costretti a vivere in quelle condizioni. Oggi quantomeno qualche confort sono riusciti a darselo. Ma quando sono arrivati lì, più di tre anni fa, non c’era nulla.

Gli hanno dato le pale e gli hanno detto di scavare. E così hanno fatto giorno dopo giorno, inverno dopo inverno, sigaretta dopo sigaretta.

Foto e testo: Giorgio Bianchi