La strategia marittima cinese

(di Renato Scarfi)
15/04/21

In un altro articolo abbiamo esaminato la strategia navale russa, che fa riferimento al presidio di “bastioni” marittimi, quale difesa contro gli attacchi al proprio territorio. Un approccio difensivo che tende alla distruzione delle forze navali antagoniste nel caso di eventuali azioni ostili e a garantire un’efficace reazione con armi atomiche contro il territorio avversario.

Un’impostazione che si distingue nettamente dalla strategia di presenza avanzata continuativa delle flotte statunitensi sui mari del mondo e dal nuovo concetto di Expeditionary Advanced Base Operations (EABO), ideato dalla U.S. Navy, che ha dato nuovo impulso allo sviluppo delle capacità da sbarco dei Marines. A régime si tratta di avere elevatissime capacità di proiezione in grado di permettere di concentrare rapidamente i mezzi necessari per amplificare la potenza del gruppo navale che opera nell’area interessata dalla crisi, aggiungendo moderne capacità anfibie.

In estrema sintesi, è un concetto ideato per le esigenze di presenza avanzata al fine di “…defeat adversary attempts to execute counter intervention and fait accompli strategies that might otherwise inhibit a credible US response to aggression against treaty allies and economic partners…”1. Lo scopo ultimo è quello di avere la capacità di condurre operazioni di proiezione di potenza in modo da annullare eventuali strategie aggressive senza ricorrere alla distruzione delle forze avversarie.

In tale ambito va sottolineato che, mentre l’EABO si distingue nettamente dall’approccio russo, che si basa sul significativo contributo di mezzi basati a terra (aerei, missili) per la protezione delle forze subacquee strategiche e per rendere quanto più impermeabile possibile l’area dei “bastioni”, la strategia cinese appare porsi in una posizione di equidistanza tra le due potenze della Guerra Fredda, avendo punti in comune sia con la linea statunitense che con quella russa.

Il contesto geopolitico ed economico

La comprensione della strategia marittima di Pechino non può prescindere dalla conoscenza dei variegati e importanti interessi che gravitano davanti alle coste cinesi. La Repubblica Popolare della Cina già da qualche tempo ha, infatti, messo in atto una vasta offensiva diplomatica, supportata dallo strumento militare marittimo, per le sue rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale (v. articolo). Pechino, infatti, ritiene che circa il 90% di quell’area sia da considerare come territorio cinese. I motivi sono principalmente economici, dato che su quel tratto di mare transitano circa l’80% delle sue importazioni di energia e il 30% del commercio marittimo mondiale, che sotto le sue acque si trova quasi il 10% del pescato a livello mondiale e che i suoi fondali custodiscono un’enorme quantità di gas naturale e di petrolio.

Nel Mar Cinese Orientale la disputa sino-giapponese circa i diritti di sfruttamento del vasto giacimento di gas “Chunxiao” (stimato in circa 4,8 miliardi di mc), che si trova all’interno del limite della ZEE cinese, ma a soli 4 km dalla ZEE giapponese (si pensa infatti che il giacimento si estenda ben al di fuori dell’area cinese), sembra aver visto Pechino e Tokio risolvere i loro contrasti con un accordo per il prelievo congiunto.

Le rivendicazioni marittime/territoriali cinesi si basano sulla cosiddetta “linea dei nove tratti” che, a forma di “U”, parte grosso modo da Taiwan e passa lungo la costa occidentale delle Filippine, piegando a sud verso le acque al largo della Malesia per poi tornare verso nord all’altezza della penisola vietnamita, giungendo all’isola cinese di Hainan.

L’area all’interno di questa linea ideale è costellata di isolotti, banchi di sabbia e scogliere affioranti, per lo più disabitati che, a partire dal 2013, la Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione Cinese (People’s Liberation Army Navy - PLAN) ha deciso di militarizzare allo scopo di costituire un territorio avanzato ed estendere la propria area di influenza economica e militare su quel trafficatissimo tratto di mare. Rivendicazioni che il Tribunale arbitrale, dalle Filippine chiamato a esprimersi, ha definito sostanzialmente illegittime. Ciò nonostante la Cina prosegue lungo la sua rotta, indifferente al pronunciamento del 2016, incontrando la decisa opposizione degli Stati Uniti e di alcuni Paesi rivieraschi.

Gli USA, in particolare, fin dal 1950 applicano la strategia del contenimento dell’espansione cinese all’interno di due linee denominate “island chains”, la prima delle quali congiunge la penisola coreana, le acque a sud del Giappone, Okinawa, Taiwan, le Filippine e Singapore. La seconda, più lontana dalle coste cinesi, parte dal Giappone, passa da Guam e Palau, fino alla Nuova Guinea. A ciò si aggiunge la creazione di una grande rete di alleanze regionali, di cui abbiamo già parlato in altri lavori su questo giornale.

Taiwan (Formosa)

Il principale argomento di attrito tra le due potenze nucleari è Taiwan. Si tratta di una nazione di fatto (ma non giuridicamente) indipendente e democratica, nata il 1 ottobre 1949, quando il leader cinese Chiang Kai-shek fuggì a Taiwan in seguito alla presa del potere da parte di Mao Zedong. Nell’occasione portò con sé le riserve auree del Paese e quel che restava dell’Aviazione e della Marina cinese dopo le aspre battaglie combattute per il potere. I comunisti della Repubblica Popolare di Cina dichiararono illegale il governo nazionalista taiwanese che, ancora oggi, si considera l’unico governo legittimo della Cina. Nella sua costituzione, infatti, rivendica la sovranità sulla Cina continentale e sulla Mongolia esterna. La capitale de iure è Nanchino, sulla costa cinese, mentre la capitale provvisoria è Taipei.

La Repubblica di Cina, come è anche conosciuta, è costituita da un gruppo di isole che, oltre a quella principale separata dalla Cina continentale da un braccio di mare largo al massimo 95 NM, lungo circa 185 NM e con una profondità media di 70 m, comprende anche altre isole e piccoli arcipelaghi come Penghu (Pescadores), Kinmen (Quemoy) e Matsu, geograficamente situati molto più vicino alle coste cinesi. Taiwan è riconosciuta solo da 15 stati sovrani al mondo.

Fino agli anni ’90 Pechino non ha potuto fare altro che lanciare vuote minacce contro Taipei, non avendo la capacità navale per attraversare lo stretto con grossi corpi di spedizione, in modo da riprendere il controllo di quella che considerano una provincia “ribelle”. Nello stesso periodo Taiwan era nota per essere la sponda dello stretto militarmente più forte.

Oggi le cose sono decisamente cambiate e la Marina cinese ha raggiunto le capacità per consentire il “salto” da una sponda all’altra del consistente contingente militare costituito da circa 360.000 militari di stanza nel settore cinese dello Stretto di Taiwan (sui circa 915.000 complessivi a disposizione di Xi Jinping).

Ciò nonostante, Pechino preferirebbe comporre pacificamente la questione e, nel frattempo, mantiene alta la pressione diplomatica. Il 2 gennaio 2019, il segretario generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping, ha pronunciato un lungo discorso diretto alla popolazione cinese e taiwanese, con il quale ha sottolineato che “…i due lati dello stretto appartengono a una sola Cina e insieme lavoreremo affinché si raggiunga la riunificazione nazionale…”, ventilando la possibilità che il futuro assetto di una Cina riunificata possa prevedere “…un Paese, due sistemi…”. Un’affermazione che, viste le vicende di Hong Kong e Macao, nei taiwanesi ha suscitato molto turbamento e nessun entusiasmo.

Lo stesso Xi ha poi più volte confermato che il suo obiettivo è una riunificazione pacifica delle due sponde dello Stretto ma che, anche se con estrema riluttanza, la Cina è pronta a usare tutta la forza militare di cui dispone e disporrà per riportare Taiwan nel continente. In tale ambito ha anche lanciato un fermo avvertimento verso chiunque avesse intenzione di intromettersi nella questione tra le due Cine, sia con aiuti diretti che indiretti. Al di là del linguaggio impiegato, si è trattato di un intervento ammonitore, che ha sottolineato con forza che per Pechino la questione taiwanese si trova al primo posto nella lista delle cose da fare. E, viste le notevoli implicazioni economiche e territoriali della questione, non si tratta neanche di un argomento usato per distrarre l’attenzione della comunità internazionale, in modo da poter perseguire altri obiettivi, magari effettuando una mossa del cavallo in qualche altra parte del globo. Le linee di comunicazione marittima che avvolgono Taiwan sono effettivamente fondamentali per l’economia cinese e per i collegamenti tra i porti settentrionali e meridionali di quel grande Paese.

Per mantenere alta la pressione nei confronti di Taipei, la Marina cinese continua a mostrare i muscoli incrociando sempre più spesso nelle acque attorno all’isola e non si ferma di fronte a nulla per ribadire la sua posizione. Lo scorso 7 aprile, per esempio, unità cinesi hanno intercettato una fregata francese che navigava nello Stretto di Taiwan, intimandole di allontanarsi in quanto si trovava in acque territoriali cinesi.

...e non solo

Come detto, Taiwan non rappresenta l’unico argomento marittimo all’ordine del giorno della politica cinese. Le rivendicazioni territoriali sugli arcipelaghi delle isole Spratly (rivendicate anche da Vietnam, Malesia, Filippine, Taiwan e Brunei) e delle isole Paracelso (rivendicate anche da Taiwan e Vietnam) contribuiscono non poco a mantenere tesi i rapporti tra i Paesi rivieraschi e la Cina. Pechino ha, infatti, militarizzato buona parte di quelle aree, costruendovi installazioni di scoperta e sorveglianza, aeroporti militari e batterie missilistiche, oltre a porti che consentono alle navi di essere immediatamente disponibili in zona di operazioni. La postura navale, inoltre, si fa sempre più aggressiva, allo scopo di scoraggiare il transito dei mezzi navali “non graditi”.

Lo scorso agosto 2020, per esempio, la Guardia Costiera cinese ha confiscato l’equipaggiamento da pesca di alcuni pescherecci filippini che si trovavano nei pressi della secca di Scarborough, un’area di circa 150 kmq (altezza massima 1,8 mslm) a 105 NM a ovest di Luzon e 520 NM a est dell’isola cinese di Hainan.

Lo scorso 8 aprile, secondo quanto riportato da alcuni media francesi, una nave filippina stava navigando nei pressi di Second Thomas Shoal, un atollo di circa 20 km di lunghezza che viene periodicamente sommerso con l’alta marea e che si trova a 110 NM a ovest dell’isola filippina di Palawan e a oltre 540 NM a est di Hainan, quando una motovedetta della Guardia Costiera cinese si è avvicinata, ha chiesto di identificarsi e ha poi intimato di allontanarsi. Per evitare qualunque tipo di problema il comandante filippino ha deciso di rientrare, ma la nave cinese ha continuato a inseguirlo per oltre un’ora, a volte avvicinandosi eccessivamente e a velocità sostenuta.

Tutto l’evento è stato filmato dalla troupe della ABS-CBN che si trovava a bordo della nave filippina per effettuare un servizio sui problemi dei pescherecci di Manila in quelle acque. Dopo qualche miglio, quando era in vista di Palawan, si sono avvicinati anche due pattugliatori veloci d’attacco Tipo 022 (classe “Houbei”) della Marina cinese.

Questi due eventi lasciano comprendere come la Marina cinese si stia comportando come se avesse effettiva autorità su quelle acque. La situazione è sintetizzata dalle recenti dichiarazioni del ministro della Difesa filippino, con le quali Delfin Lorenzana accusa Pechino di aver occupato parte dello spazio marittimo delle Filippine e di voler imporre le proprie regole su tutto il Mar Cinese Meridionale, come anche di aver invaso la Zona Economica Esclusiva a ovest di Manila con oltre 220 battelli da pesca, creando non pochi disagi e danni ai pescatori filippini.

Una situazione estremamente tesa che rischia di accendere una miccia difficilmente controllabile e nella quale la PLAN gioca un ruolo di primo piano.

La Marina cinese in prima linea

È, quindi, per effetto di questi contrasti irrisolti (in particolare Taiwan) che potrebbe approfondirsi la divisione tra Pechino e Washington, due potenze nucleari. Tuttavia, il sostegno USA a Taiwan non deve essere dato per scontato, dato che già in passato gli USA (Kissinger) avevano ipotizzato un allontanamento dall’isola, allo scopo di non esacerbare le tensioni con la Cina. In un tale rovente contesto la Marina cinese si trova in prima linea nel sostegno alla politica espansionista cinese. È per tale motivo che dal 2003 è stata inaugurata una stagione di grandi costruzioni navali, che hanno portato Pechino ad avere oggi una flotta quantitativamente superiore a quella di Washington (v. articolo La sfida cinese alla potenza navale statunitense del 25 novembre 2020). Un deciso cambio di strategia, dato che la Cina è sempre stata una potenza militare terrestre.

Una rapidissima crescita quantitativa (e per molti versi qualitativa) che permette alla Cina di essere presente anche su molti mari del mondo, a partire da quell’Oceano Indiano che si è ormai geopoliticamente fuso con il Pacifico, creando il grande teatro Indo-Pacifico. Una presenza delle navi militari cinesi che si spinge fino al Golfo Persico (dove nel dicembre 2019 hanno effettuato esercitazioni congiunte con Russia e Iran), a Gibuti e anche al Mediterraneo. Attività che permettono alla Marina cinese di acquisire esperienza e visibilità internazionale, manifestando al contempo la ferma volontà di non rimanere rinchiusa all’interno dei suoi confini geografici ma di voler diventare potenza (marittima) globale.

Ma l’area sulla quale si stanno maggiormente concentrando gli sforzi di Pechino è proprio quella delle acque antistanti le proprie coste. Innanzitutto, per attuare una credibile strategia di deterrenza nucleare a protezione delle aree marittime di casa e di quelle reclamate, Pechino si è dotata del missile balistico strategico JL-2 (sigla NATO CSS-N-14) che, derivato dal missile “terrestre” DF-31, è imbarcato sui sottomarini Tipo 094 classe “Jin” (classificazione NATO), e vantano una gittata di circa 8.000 km. Questi battelli di seconda generazione fanno parte della moderna triade di dissuasione nucleare cinese e sono basati nel nord della Cina. Tuttavia tale collocazione, seppure strategica, presenta delle importanti controindicazioni operative. Il fondale del Mar Giallo, per esempio, raggiunge raramente una profondità superiore ai 50 m nelle acque territoriali cinesi e, anche se la profondità sale a oltre 100 m nei pressi della penisola coreana, appare ancora insufficiente a rendere sicure le rotte in immersione. Per far fronte a tali problemi, é in corso la costruzione di una seconda base di sottomarini balistici nel Golfo del Tonchino, sulla già citata isola di Hainan. La nuova collocazione permetterà ai sottomarini di accedere più facilmente alle acque oceaniche profonde.

Ma la Cina non si limita alla dissuasione nucleare sottomarina. Dal 2013, infatti, Pechino sta utilizzando i numerosi banchi di sabbia affiorante degli arcipelaghi Spratly e Paracelso per costruire isole artificiali a scopo militare. Ufficialmente lo scopo è quello di creare degli avamposti dai quali sorvegliare le zone di pesca rivendicate ma, secondo quanto riportato dall’Asia Maritime Transparency Initiative del Centro per gli Studi Strategici e Internazionali (CSIS), un importante think tank statunitense, la grandezza delle installazioni, i materiali impiegati e l’armamento fornito ne rivelano la vera natura di basi aeronavali avanzate.

Altri osservatori stimano che gli hangar in cemento armato costruito su quelle isolette possano ospitare ciascuno fino a uno stormo di caccia bombardieri, difesi da installazioni radar e da batterie di missili supersonici antinave YJ-12B e YJ-62, con un raggio d’azione fino a 400 km circa2. Si tratta di missili che hanno ormai raggiunto un’elevata precisione, soprattutto grazie al sistema di guida satellitare cinese, il ”BeiDou”. La Cina ha, infatti, creato un sistema rivale e concorrenziale del GPS, in modo da essere completamente indipendente. Secondo quanto dichiarato dalle Autorità cinesi, la costellazione di quarantaquattro satelliti (al 2019) permette, infatti, una precisione della posizione pari a cinque metri, come quella del GPS, anche se per uso militare la precisione aumenta considerevolmente nei due sistemi. Tutto questo significa che i cinesi sono ora in grado di lanciare missili balistici o da crociera verso un determinato obiettivo con la ragionevole certezza di colpirlo. Ma significa anche che gli USA non possono più far fallire il lancio semplicemente spegnendo il sistema GPS.

Le installazioni militari cinesi, inoltre, presentano anche moderni apparati per la guerra elettronica e rilevanti impianti portuali e logistici. L’ombrello protettivo offerto da questo sistema combinato aero-radarmissilistico copre tutta l’area del Mar Cinese Meridionale, con avanzate capacità di scoperta e possibilità di colpire bersagli anche oltre il territorio taiwanese, indonesiano, malese, filippino, vietnamita e tailandese.

Non solo, la particolare collocazione geografica e la distribuzione di queste isolette militarizzate permette la reciproca protezione e la moltiplicazione della potenza di fuoco incrociato contro eventuali avversari. Queste moderne fortezze interconnesse sono l’applicazione pratica del concetto di Anti Access/Area Denial (A2/AD) e rappresentano una evidente minaccia per coloro che intendono tutelare il principio di libera navigazione sui mari e difendere le linee di comunicazione marittime che attraversano l’area. Tali isole, tuttavia, non sono altro che la parte emergente del “bastione” navale cinese. Sotto la superficie, infatti, la Cina sta organizzando una sorta di copia del sistema di Sound Surveillance System (SOSUS) sul tipo di quello installato tra Groenlandia, Islanda e Regno Unito nel periodo della Guerra Fredda. In pratica una “Grande Muraglia” sottomarina di sensori acustici in grado di rilevare i movimenti delle unità navali e dei sottomarini.

A dare una mano nella raccolta delle informazioni si aggiunge poi la flotta di pescherecci, molti dei quali sono dotati di apparecchiature elettroniche avanzate, che permettono di avvisare in tempo quasi reale della presenza di eventuali “intrusi” nelle acque contestate.

La giovane Marina cinese sta, quindi, gradualmente aumentando la postura assertiva, in linea con la strategia marittima di Pechino, principalmente impiegando le sue moderne piattaforme multiruolo, dotate di capacità antinave, antiaeree e antisommergibile avanzate, che si avvalgono di efficienti sistemi lanciamissili balistici e da crociera, in grado di colpire con precisione a distanze notevoli. Uno strumento navale affiancato dalle unità della Guardia Costiera, recentemente militarizzata e dalla citata flotta da pesca, che funge da sensore diffuso.

Una flotta che appare complessivamente sempre più indirizzata alla proiezione di potenza e alla possibilità di acquisizione e controllo delle aree marittime di interesse strategico.

Conclusioni

Sotto molti punti di vista l’effetto a lungo termine della strategia marittima cinese presenta implicazioni ancora non chiare. È, quindi, abbastanza difficile effettuare dei pronostici dato che sono molti i fattori che contribuiscono a rendere efficace una postura navale. Primo fra tutti il livello di addestramento e di perizia degli equipaggi. I cinesi non hanno sostanzialmente alcuna esperienza (o tradizioni) di combattimento sul mare e ciò potrebbe negativamente influire sulle sorti di un eventuale scontro “a caldo”. Ciò nonostante, ogni buon pianificatore sa che è necessario organizzarsi per essere in grado di affrontare lo scenario peggiore.

Di fronte alla crescente potenza della Marina cinese, quindi, alcuni esperti statunitensi stanno chiedendo di valutare la possibilità di attivare dei bastioni concorrenti nel Mar Cinese Meridionale. Gli USA vantano una notevole rete di alleanze nell’area (Corea del Sud, Giappone, Filippine, ecc…), ma molto probabilmente il bastione più delicato è proprio Taiwan, oggetto dell’attenzione perversa di Pechino, la cui posizione geografica taglia a metà le linee di comunicazione marittime cinesi. Per il Celeste Impero l’isola rappresenta, quindi, una spina nel fianco e la promessa, qualora riunificata pacificamente od occupata militarmente, di una migliore situazione strategica che vedrebbe, per esempio, la possibilità per i sottomarini nucleari di incrociare liberamente nelle acque domestiche e l’opportunità di raggiungere aree del Pacifico ben più distanti dalla madrepatria, portando il territorio americano nel raggio d’azione dei propri missili balistici.

Una minaccia che gli USA hanno ben compreso e che non possono permettere che si realizzi. Lasciare improvvisamente sola Taiwan, inoltre, lancerebbe un pessimo messaggio agli alleati americani nell’area, a partire dai giapponesi e dai sud-coreani. Un messaggio che farebbe perdere agli USA molta della credibilità che si sono costruiti con decenni di presenza in quelle acque. È per questi motivi che la Cina si muove con molta circospezione sui dossier taiwanese e delle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale. Nel breve termine non appare, quindi, ipotizzabile che la Cina decida di agire con la forza per risolvere le sue questioni marittime.

Al momento, l’ipotesi più accreditata è che Pechino continui le provocazioni con continue esercitazioni navali e aeree nei pressi dell’isola, in modo da mostrare alla popolazione taiwanese e all’apparato militare di Taipei i suoi enormi progressi nell’acquisizione di capacità militari. Una pressione psicologica esercitata costantemente per “consigliare” al governo taiwanese di sedersi al tavolo delle trattative per la pacifica riunificazione alla Repubblica Popolare. Una proposta che Taipei è ancora molto riluttante a prendere in considerazione. La Cina potrebbe anche decidere di accentuare la pressione attraverso misure non distruttive come attacchi informatici ai sistemi bancari, aeroporti, mercato azionario, ecc... di Taiwan. Misure che non causerebbero perdite di vite o distruzione di infrastrutture, ma che avrebbero delle significative ricadute economiche sull’attività di Taipei.

Una possibile futura opzione, che alzerebbe significativamente il livello del confronto, potrebbe poi essere la creazione di un blocco navale attorno all’isola o, in senso più ampio, di tutta l’area all’interno dei nove tratti. Nonostante le numerose e moderne navi, tuttavia, la PLAN non sembra avere ancora il peso e la qualità necessarie per confrontarsi con un avversario come la U.S. Navy, qualora questa decidesse di rompere l’eventuale blocco imposto da Pechino, cosa peraltro non certa. Al contrario, in una simile evenienza sembrerebbe più probabile una risposta statunitense di contro-blocco nei confronti dei mercantili di interesse cinese nelle acque del resto del pianeta, dove attualmente Pechino non ha assolutamente le forze per assicurarsi gli indispensabili approvvigionamenti per mantenere galoppante la sua economia. Un consistente aumento delle dislocazioni all’estero di unità militari cinesi (da usare come scorta ai convogli diretti verso la Cina) potrebbe, quindi, essere un indicatore di una possibile decisione di Pechino di usare la forza.

Lo scenario peggiore prevede, invece, l’occupazione militare di Taiwan, che non potrebbe che essere preceduto da un attacco aereo o missilistico contro le installazioni aeroportuali dell’isola, al fine di azzerare le possibilità di reazione dei moderni caccia avversari. Nel caso di intervento statunitense a sostegno della piccola repubblica i cinesi non potrebbero poi fare a meno di prevedere attacchi (molto probabilmente missilistici) anche alle installazioni americane in territorio giapponese come Kadena AFB a Okinawa, Iwakuni AFB nell’isola di Honshu e alla base navale di Yokosuka, dove si trovano le navi e la portaerei della Settima Flotta. Ma, dato che la protezione delle navi americane dipende pure dalla copertura della forza aerea giapponese, gli attacchi dovrebbero colpire anche le installazioni aeroportuali giapponesi di Okinawa e Honshu, dove si trovano quattro squadroni di caccia su due aeroporti, allargando ulteriormente il conflitto, che potrebbe ulteriormente diffondersi in tutto il pianeta. Si tratterebbe, comunque, di attacchi che, per essere efficaci, dovrebbero essere condotti simultaneamente su sei basi taiwanesi, americane e giapponesi più un settimo attacco alla Anderson AFB di Guam, formalmente territorio americano, dove sono posizionati i bombardieri pesanti a lungo raggio e i rifornitori. Un attacco così coordinato richiede un’elevata capacità di coordinamento interforze, che al momento non sembra ancora raggiunta dalla Cina, che non appare oggi in grado di confrontarsi con gli USA neanche sul piano subacqueo, sia per capacità complessive che per addestramento degli equipaggi.

Va poi considerato che, anche se la strategia marittima cinese è disegnata su orizzonti di lungo termine, la vera forza della PLAN deriva dal fatto che è ancora concentrata in un’area abbastanza ristretta, quella delle acque domestiche. Quando Pechino deciderà di confrontarsi in forze anche sui mari del mondo la potenza davanti all’uscio di casa verrà a ridursi considerevolmente, diminuendo sensibilmente il potere contrattuale cinese sulle questioni del Mar Cinese Meridionale e sulla strategia A2/AD nell’area.

Secondo Giorgio Grosso, del Centro Studi Geopolitici e di Strategia Marittima, l’approccio cinese è oggi certamente orientato a operazioni in aree non lontane dalle coste, come si comprende analizzando la composizione delle forze della PLAN, riconducibile a un modello “green water” a ridotta capacità di proiezione. Egli aggiunge poi che “…la manifesta superiorità tecnologica e operativa della Marina statunitense, che oggi comporterebbe la certezza della sconfitta in uno scontro diretto, unitamente all'impossibilità della Marina cinese di raggiungere un livello simile nel breve e medio periodo, è un fattore che ha spinto Pechino a ragionare in termini asimmetrici, con investimenti cospicui in quei settori che permetterebbero alla Cina di convincere gli Stati Uniti che il costo economico e umano di un eventuale intervento militare sarebbe troppo elevato rispetto ai benefici (concetto più vicino alla superiorità relativa corbettiana che al sea command mahaniano)...” e sottolinea come Pechino non abbia alcuna fretta di alzare il livello del confronto, dato che il sistema cinese consente una continuità d'azione politica e strategica difficilmente rilevabile in un sistema democratico. 

Quando Xi Jinping afferma che la strategia marittima cinese si basa sulla costruzione di uno strumento che sia in grado di combattere efficacemente e di vincere le guerre, sta molto probabilmente pensando proprio alla questione taiwanese, come obiettivo immediato, ma immagina un teatro molto più ampio. Per il raggiungimento dei suoi successivi obiettivi avrà però bisogno di una flotta che non sia solo numericamente importante, ma che possa sostenere tale strategia ovunque nel mondo. Un traguardo che non appare alla portata di Pechino per almeno i prossimi venti anni.

È, tuttavia, indispensabile mantenere alta la vigilanza perché l’approccio cinese nelle relazioni internazionali è oggi più che mai evidente e, qualora la memoria collettiva manifestasse delle lacune, abbiamo l’esperienza di Hong Kong a ricordarcelo.

Nel frattempo, la PLAN si propone sempre più come strumento in rapido potenziamento, avendo come obiettivo l’attuazione della strategia marittima delineata da Pechino, con l’effettuazione di prolungate missioni di “presenza navale” anche in aree lontane da casa e una crescente capacità di esercitare una pressione marittima in linea con gli obiettivi di politica estera del Celeste Impero.

1 Expeditionary Advanced Base Operations (EABO) Handbook, 1 june 2018, version 1.1

2 US Naval War College Review del 2011

Immagini: MoD People's Republic of China / CSIS / Naval Institute Press Annapolis / U.S. Navy