Hong Kong, Pechino e il Mar Cinese meridionale

12/07/20

Il 1 luglio 1997 Hong Kong è tornata alla Cina. A 23 anni da quell’avvenimento senza precedenti sul piano economico, culturale, sociale e, ovviamente, politico che dopo 154 anni (trattato di Nanchino del 26 giugno 1843) ha visto ammainare l’Union Jack dagli uffici pubblici, è possibile fare un esame di quel difficilissimo matrimonio, iniziato con la promessa cinese di non influenzare la vita dei cittadini e la recente scoperta che, invece, le questioni locali sono state trattate da Pechino con mano pesante e il consueto autoritarismo.

Ma cosa è (o era) Hong Kong? Il pragmatismo britannico aveva fatto nascere un’entità che non era classificabile né colonia né dominion, ma definita come territorio dove venivano riconosciute la legge inglese (common law, rules of equity, customary law) ma anche le ordinanze del Governatore. Un’entità in terra asiatica con una struttura economica, sociale e politica liberal-democratica analoga a quella del mondo occidentale. Un’entità che con il tempo ha assunto una propria rilevanza e un proprio peso nell’area del Pacifico, e non solo.

Geograficamente Hong Kong (o meglio Hiang Kiang = le dolci lagune) è la più grande isola dell’estuario del Si-Kiang. Nel 1860 Pechino fece ulteriori concessioni, permettendo l’annessione a Hong Kong di una parte della penisola di Kow loon. Il successivo accordo che definiva l’affitto per 99 anni a favore della Corona britannica si riferisce alla rimanente parte della penisola e alle 235 isolette circostanti. Questi nuovi territori sarebbero poi stati riconosciuti come parte integrante e inscindibile di Hong Kong nel corso delle trattative che hanno portato nel 1984 all’accordo per la restituzione alla Cina di tutta l’area.

C’è poi la Cina, il paese territorialmente più grande del mondo, il più popoloso, economicamente fortissimo e, soprattutto, il più omogeneo per cultura e lingua. Il mandarino, che era il linguaggio aulico della corte, è oggi parlato da non meno del 70% dei cinesi, mentre il rimanente 30% parla sette altre lingue molto simili (tipo spagnolo e italiano). Un processo di unificazione linguistica e culturale che risale alla dinastia Qin (circa 220 a.C.).

Nel documento preparato a suo tempo dalle due parti (per il Regno Unito Margareth Thatcher e per la Cina Deng Siao Ping) per il formale rientro di Hong Kong nell’area cinese si legge che …il sistema e la politica socialiste (cioè cinese n.d.A.) non saranno applicati nella S.A.R. (Special Administrative Region) e il precedente sistema capitalista e di modo di vivere (cioè di Hong Kong n.d.A.) resterà invariato per 50 anni…. Sappiamo oggi, alla luce dei recenti tristissimi fatti, che quelle promesse, pur costituendo un esempio di sinteticità e chiarezza (sulla carta), non sono state mantenute.

Ad ogni modo, l’accelerazione data da Xi Jinping alla “normalizzazione” cinese di Hong Kong, nel palesare il desiderio di Pechino di bruciare le tappe nella sua opera di espansione politica e territoriale, espone la Cina alle giuste critiche politiche mondiali e alle prevedibili reazioni, specialmente del Regno Unito, ma non solo. Sotto il profilo economico, non sarebbe bizzarro se queste forti critiche comportassero anche un deciso calo di fiducia del mondo degli affari internazionali verso la “cinesizzata” Hong Kong. Una fiducia che Pechino, rispettando i patti liberamente sottoscritti, era riuscita a mantenere anche nel periodo immediatamente successivo all’handover ma che questo gesto autoritario, giudicato sbagliato dal resto del mondo, potrebbe far crollare. Per comprendere l’attuale valore economico di Hong Kong basti ricordare che figura tra i primi dieci centri finanziari mondiali per volume di scambi commerciali.

Ma perché questa accelerazione? Una prima risposta sta probabilmente nella storia dei cinesi, nel loro approccio alle relazioni internazionali e nella loro cultura politica. Nel ‘700, per esempio, quando le potenze occidentali bussavano alle porte della Cina, al tempo ancora chiusa nel suo orgoglioso e diffidente isolazionismo, la Corona britannica inviò una delegazione a Pechino, carica di molti e cospicui doni. L’imperatore dell’Impero di mezzo, l’Imperatore di tutte le Cine, rispose ringraziando del cortese gesto di … sottomissione.

Quell’approccio ultra nazionalista non è cambiato. Un approccio che, tra le altre, vuole far dimenticare un relativamente recente passato carico di umiliazioni per i trattati considerati iniqui e per la dura occupazione giapponese. Un approccio che ha come obiettivo l’assimilazione di tutto il territorio geograficamente pertinente al pensiero e al modo di vivere cinese, eliminando “pericolose” derive occidentali. D’altra parte, era illusorio credere che Pechino avrebbe potuto accettare a lungo che una relativamente piccola parte di Paese vivesse secondo regole non comuni alla restante parte, con il pericolo che ciò potesse creare richieste di una liberalizzazione politica che l’attuale classe dirigente cinese non ha intenzione di concedere.

In un’area così vasta e importante come il Pacifico, Hong Kong in versione liberale ha svolto e potrebbe continuare a svolgere un ruolo utilissimo di mediatore economico tra diverse visioni del mondo, proprio perché non vincolato da servitù politiche o ideologiche. Un mediatore il cui obiettivo era e potrebbe essere soprattutto lo sviluppo, componente indispensabile per il benessere delle popolazioni. Ma ciò non ha impedito a Pechino di imprimere una svolta autoritaria allo status di Hong Kong, minandone l’economia.

Sotto il profilo geopolitico Hong Kong è (o era) parte economicamente attiva di una vasta area, quella del Pacifico, dove gravitano quattro grandi potenze (USA, Russia, Cina e Giappone) e altre quattro o cinque medio-piccole. La decisione cinese di accelerare sulla strada autoritaria ha però incrinato il già fragilissimo equilibrio della fiducia. Ciò apre la possibilità di nuovi scenari, con preoccupanti implicazioni di carattere politico, militare ed economico. Una preoccupazione non peregrina, dato che, magari per recuperare voti per le prossime elezioni presidenziali, l’Amministrazione Trump potrebbe giudicare utile mostrare i muscoli di fronte alle manifestazioni di assertività dei cinesi e promuovere dimostrazioni di potenza che potrebbero innescare dure controreazioni da parte di Pechino.

Dimostrazioni di potenza che potrebbero definitivamente incendiare un’area già sede di fortissime tensioni originate, ancora una volta, dal desiderio cinese di assumere nuovi e più determinanti ruoli e responsabilità all’interno della comunità internazionale.

L’area del Mar Cinese è, infatti, già da tempo teatro primario del confronto tra la Marina dell’Esercito di Liberazione Popolare (People’s Liberation Army Navy - PLAN), decisa a mettere complessivamente in discussione gli equilibri di forza nel bacino del Pacifico e i relativi concetti geopolitici e geostrategici, e la potente U.S. Navy, più che mai determinata a sostenere i principi della libertà di uso del mare come presupposto indispensabile per lo sviluppo delle economie nazionali.

Tanto è vero che la Cina ha da tempo avviato iniziative unilaterali per “proteggere” le acque di suo interesse strategico cercando di impedire, al contempo, l’accesso delle navi avversarie ai tratti di mare contesi. Parallelamente alla propria crescita qualitativa e quantitativa la Marina cinese ha quindi mostrato un atteggiamento sempre più determinato nelle controversie per le numerose isole del Mar Cinese, importanti sia per le enormi riserve di risorse energetiche ma, soprattutto, per il loro valore strategico, essendo situate in posizione tale da permettere il controllo delle principali rotte dell’area. Tali sono le disabitate isole Senkaku (o Diaoyu, come le chiamano i cinesi) contese con il Giappone, e le isole dell’arcipelago delle Spratly, contese da Vietnam, Filippine, Cina, Malaysia, Taiwan e Brunei, ma trasformate dalla Cina in una base militare con piste aeree e missili antinave. Aerei e navi cinesi, inoltre, hanno aumentato esponenzialmente la loro attività in quelle acque, che pattugliano in maniera sempre più aggressiva, proprio per sconsigliarne la navigazione da parte di unità “non gradite”.

A tale approccio si oppone la U.S. Navy, forte della sua tradizione navale di superficie e subacquea a cui va aggiunta una potentissima componente aerea della Marina. La possente flotta statunitense ormai da tempo assicura una robusta presenza nel Pacifico, impegno che è frutto del concetto di uso del potere marittimo a sostegno di una politica che potremmo chiamare delle “ali di farfalla”, dove la parte continentale degli Stati Uniti rappresenta il corpo, mentre le ali si estendono verso Est (Atlantico) e verso Ovest (Pacifico). Il già forte impegno navale americano nell’area, proprio a causa dell’atteggiamento cinese, è stato ultimamente aumentato, e ciò ha richiesto un riassestamento globale della presenza statunitense sui mari del mondo.

Anche se al momento la Cina non sembra avere l’obiettivo di proiettare la sua forza politico-militare dall’altra parte del globo, non si può escludere che, una volta ottenuto il risultato nelle acque del Mar cinese, Pechino non desideri allargare i propri orizzonti strategici, intervenendo con la propria flotta militare in aree sensibili a lei completamente nuove. Un assaggio, in fondo, c’è già stato con la recente esercitazione navale avente lo scopo di approfondire le capacità navali congiunte, anche per operazioni antipirateria, che si è svolta nelle acque dell’Oceano Indiano (dove le navi militari cinesi sono presenti continuativamente dal 2009) e del Golfo di Oman lo scorso dicembre 2019, con la partecipazione di unità militari iraniane, russe e, appunto, cinesi. Una crescita qualitativa, quantitativa e operativa di una Marina che, diventata rapidamente la Forza Armata più importante della Cina, appare come l’efficace strumento di pressione scelto da Xi Jinping per far aumentare, in un’ottica di lungo periodo, la capacità cinese di ottenere dei vantaggi diplomatici o di volgere le controversie internazionali a suo favore.

Ma sul teatro del Pacifico recita la propria parte anche il Giappone, altro attore marittimo regionale dotato di una flotta moderna e competitiva, che non schiera ancora una portaerei ma, essendo ormai indispensabile un’adeguata e pronta copertura aereonavale per ogni operazione in mare, potrebbe presto arrivare, anche alla luce delle continue irritanti provocazioni cinesi. Lo scorso mese di marzo, per esempio, la Cina ha effettuato alcune manovre aeronavali che hanno comportato, a quanto si apprende dalle agenzie, anche delle penetrazioni nella Air Defence Identification Zone giapponese, suscitando comprensibili allarmi. In tale ambito va sottolineato che la Japan Maritime Self-Defense Force (JMSDF) ha un’impostazione prevalentemente indirizzata alla protezione del proprio traffico commerciale e al mantenimento della libertà di uso delle vie marittime e una consistenza che, al momento, sostanzialmente bilancia quella cinese. Ciò nonostante, non si prevede che la sua capacità complessiva possa crescere significativamente nei prossimi anni, mentre quella cinese entro il 2030 potrebbe diventare non meno del 40% circa superiore all’attuale.

La postura della flotta cinese, inoltre, appare, indirizzata alla proiezione di potenza e alla possibilità di acquisizione e controllo delle aree marittime di interesse strategico, come dimostrano le recenti esercitazioni navali cinesi, caratterizzate da attività di assalto anfibio, svoltesi dal 1 al 5 luglio scorsi nelle acque comprese tra l’isola di Hainan e l’arcipelago delle isole Paracelso (sottratto al Vietnam nel 1974 e ancora oggetto di contenzioso). Un chiaro segnale che fa comprendere come Pechino non abbia alcuna intenzione di ammorbidire il suo approccio in quelle acque. L’evento, che non ha fatto altro che accrescere le tensioni regionali, ha immediatamente sollevato forti reazioni e critiche da parte dei paesi rivieraschi con i quali la Cina ha contenziosi in corso da molti anni, in particolare Vietnam (ovviamente) e Filippine, che hanno inoltrato formale protesta per via diplomatica. Anche gli Stati Uniti hanno fatto sentire la propria voce, attraverso una dura nota del Dipartimento della Difesa statunitense, con la quale si è dichiarato “…concerned about the People’s Republic of China (PRC) decision to conduct military exercises around the Paracel Islands in the South China Sea on July 1-5. The designated area where the exercises are due to take place encompass contested waters and territory. Conducting military exercises over disputed territory in the South China Sea is counterproductive to efforts at easing tensions and maintaining stability. The PRC’s actions will further destabilize the situation in the South China Sea. Such exercises also violate PRC commitments under the 2002 Declaration on the Conduct of Parties in the South China Sea to avoid activities that would complicate or escalate disputes and affect peace and stability. The military exercises are the latest in a long string of PRC actions to assert unlawful maritime claims and disadvantage its Southeast Asian neighbors in the South China Sea. The PRC’s actions stand in contrast to its pledge to not militarize the South China Sea and the United States' vision of a free and open Indo-Pacific region, in which all nations, large and small, are secure in their sovereignty, free from coercion, and able to pursue economic growth consistent with accepted international rules and norms. The Department of Defense will continue to monitor the situation with the expectation that the PRC will reduce its militarization and coercion of its neighbors in the South China Sea. We urge all parties to exercise restraint and not undertake military activities that might aggravate disputes in the South China Sea…”1. Alla nota ufficiale sono seguiti i fatti: le portaerei Nimitz (CVN-68) e Ronald Reagan (CVN-76) sono state inviate nell’area, insieme alle rispettive navi di scorta.

La Marina statunitense continuerà quindi a giocare un ruolo fondamentale nel contrastare una ancora giovane (e per molti versi inesperta) Marina cinese, in virtù della possibilità di schierare una flotta potentissima, che può vantare undici portaerei a propulsione nucleare (le più grandi e potenti navi militari oggi esistenti), contro le due convenzionali della Cina (di cui una varata lo scorso anno). Le unità statunitensi più recenti, classe Gerald Ford (ne sono previste 10 complessivamente e la prima è stata varata nel 2013), hanno un dislocamento pari a oltre 100.000 tonnellate a pieno carico, vantano un’autonomia limitata solamente dalle forniture di viveri, armi e dal carburante per gli aerei e imbarcano 75 F-35 in versione navale, oltre ad altri velivoli ed elicotteri. Una potenza impressionante se confrontata con l’attuale consistenza cinese. Pechino, comunque, prevede che entro il 2030 potrà schierare quattro portaerei e che, per il 2049, potrà vantare una forza attiva di dieci portaerei.

Nel frattempo la Russia, declassata da interprete globale a potenza regionale, ma la cui Marina è ultimamente in forte crescita qualitativa, osserva i contendenti e intesse la sua tela di alleanze nell’area dell’Indo-Pacifico, in attesa di poter tornare a essere attore di primissimo piano in quel teatro. Dopo i problemi degli ultimi decenni, che avevano portato a una riduzione di un terzo della flotta nel Pacifico e alla distruzione di tutti i missili ICBM a est degli Urali, infatti, la flotta russa si è riorganizzata con nuove navi, tant’è che la Voenno-morskoj Flot, nonostante recentemente sia stata numericamente surclassata dalla Marina cinese, rappresenta ancora una delle più potenti e numerose marine da guerra del mondo.

I drammatici fatti di Hong Kong e le esercitazioni navali nel Mar Cinese meridionale, quindi, sembrano essere solo gli ultimi due, in ordine di tempo, importanti tasselli chiarificatori della direzione che sta seguendo Pechino nelle questioni regionali. Un’area che da decenni è teatro di un complesso puzzle di dispute territoriali che vedono i paesi rivieraschi (Cina, Giappone, Vietnam. Corea del Sud, Filippine, Malesia, Taiwan e Brunei) rivendicare confini invisibili e il diritto a fruire dei tesori (quel tratto di mare è ricchissimo di petrolio, gas e naturalmente pesce) che vi si trovano e vedono la U.S. Navy impegnata a far rispettare i principi di libera navigazione, a tutela del diritto internazionale e dei propri interessi nazionali. Su quelle acque, infatti, transita un terzo del traffico merci marittimo globale, per un valore di circa 5mila miliardi di dollari annuo. E un quarto di quelle merci sono americane.

A poco è servita la decisione, nel 2016, del Tribunale di Arbitrato dell’Aja, secondo cui le pretese cinesi rappresentavano una violazione del diritto internazionale. Pechino ha sempre fatto finta di nulla. Così, in quella zona geopoliticamente sempre più cruciale, la tensione continua a salire, creando il pericolo di un conflitto armato regionale, dal quale la U.S. Navy difficilmente potrebbe sottrarsi.

È indubbio che le recenti esercitazioni militari cinesi, effettuate in questo particolare momento di tensione aumentato dai fatti di Hong Kong, abbiano un carattere altamente provocatorio e che possano costituire la miccia che potrebbe innescare azioni e controreazioni potenzialmente devastanti per la sicurezza dell’area, come è indubbio che le manovre di assalto anfibio alimentino il timore che gli appetiti territoriali cinesi non siano stati ancora soddisfatti.

Si comprende, quindi, come questa delicata area oggi rappresenti uno dei punti caldi del mondo, con nuovi contrasti che si sommano ai vecchi e mai sopiti rancori, accrescendo i rischi dell’attuale nuovo contesto geopolitico. In prospettiva futura essa rappresenta il nodo di grandi interessi economici e strategici che potrebbero aver conseguenze su altre aree a noi più prossime, o su questioni di nostro diretto interesse.

c.v. pil (ris) Renato Scarfi