Il fallimento (teorico) della controffensiva ucraina

(di Filippo Del Monte)
29/11/23

La controffensiva estivo-autunnale ucraina è fallita per una serie molteplice di fattori, sia d’ordine militare tattico e di “grande tattica”, sia d’ordine politico-economico-industriale. In particolare, per quanto concerne questo secondo insieme di elementi, a pesare sono state prima di tutto le difficoltà d’approvvigionamento di armi e munizioni per le Forze armate ucraine, considerato che Kyiv ha ancora una industria della difesa allo stadio “nascente” – eccezion fatta per la particolare branca della progettazione ed industrializzazione dei droni e della guerra elettronica – e che quella europea non riesce a rifornire le AFU con la rapidità e con la quantità che servirebbe e che, specie nella fase cinetica della controffensiva sarebbero servite.

Dal punto di vista strettamente militare, occorre constatare come la controffensiva ucraina sia stata pianificata come una gigantesca operazione manovrata che avrebbe dovuto condurre, attraverso una concentrazione dello sforzo maggiore nel settore della Linea Surovikin compreso tra Vasilivka e Robotyne, allo sfondamento delle difese russe, conducendo le forze corazzate e la fanteria ucraine a Tokmak e, da lì, a Melitopol e, quindi, all’obiettivo strategico di “forzare” il corridoio di Crimea.

Già nei primi giorni di combattimento, anche a causa della resistenza non prevista (con una certa miopia) del campo trincerato russo, questo piano originario era stato rivisto, con i comandi ucraini costretti ad abbandonare la manovra in favore della conduzione di una battaglia d’attrito lungo tutta la linea del fronte. La tattica di “fuoco e manovra”, come l’aveva sintetizzata il generale dello stato maggiore ucraino, Oleksandr Tarnavsky, è stata abbandonata quasi immediatamente. Scelta che, nata come “provvisoria”, in vista di un ritorno rapido alle azioni manovrate, ha finito, invece, per connotare la postura dell’esercito attaccante. Almeno in quella fase, successiva alle azioni preliminari che avevano visto le truppe ucraine avanzare di poche centinaia di metri oltre la prima linea, si era puntato a danneggiare la catena logistica russa per minare la compattezza del sistema difensivo. Obiettivo mai pienamente centrato.

Il fulcro del problema è che gli ucraini hanno provato a combattere una Bewegungskrieg (guerra di manovra) ove si andava configurando, anche in considerazione delle caratteristiche della Linea Surovikin approntata dai russi (e che erano ben note agli alti comandi di Kyiv), una battaglia di profondità a tutti gli effetti. Teorici sovietici come Vladimir Kiriakovič Triandafillov, Georgij Samojlovič Isserson e Nikolaj Efimovič Varfolomeev (che sono ben conosciuti tanto a Mosca quanto negli eserciti delle ex province dell’impero sovietico) avevano già individuato i concetti di glubokij boj (battaglia in profondità) e glubokaja operacija (operazione in profondità), con la conseguente predominanza dei “fronti continui” e l’impossibilità di individuare un solo “punto di massimo sforzo”, il clausewitziano Schwerpunkt.

Su un ampio fronte, anziché cercare di creare svariate brecce nel sistema difensivo nemico, gli ucraini hanno prima individuato uno specifico punto del fronte dove tentare lo sfondamento e, poi, vi hanno concentrato i loro sforzi, favorendo anche un utilizzo intelligente delle riserve da parte russa. Anziché sovraccaricare la rete logistica russa, imponendo ai comandanti moscoviti di dirigere le riserve su molteplici punti del fronte, le AFU hanno insistito nei combattimenti attorno a Robotyne, rimanendovi, di fatto, insaccate.

Per la teoria della glubokij boj, il momento della Entscheidung (decisione) non può essere più raggiunto attraverso l’individuazione di un unico punto di massimo sforzo che, su una linea di fronte continua, a maggior ragione se costituita da trincee, ove risulta essere impossibile l’aggiramento anche per la capacità d’assorbimento degli urti offensivi da parte di una difensiva elastica in profondità, necessariamente va a montiplicarsi in numerose “punte offensive” o, per utilizzare un termine improprio, “Schwerpunkt tattici” la cui conquista o difesa non garantisce comunque la buona riuscita di un ciclo operativo. Del resto, lo stesso Clausewitz aveva già messo in guardia sul fatto che l’eccessiva estensione delle linee del fronte “è in contrasto […] con tutte le esigenze di una battaglia decisiva”.

Nel piano ucraino il “punto di rottura” del sistema difensivo russo è stato aprioristicamente individuato, senza aspettare che esso si materializzasse dinanzi all’eventuale collasso di uno specifico settore della Linea Surovikin. Fronti oggettivamente secondari per lo specifico piano di guerra della controffensiva, come quello del Donbass – dove, paradossalmente, le forze ucraine hanno ottenuto i successi maggiori – o quello Stepove-Novomaiorske, al confine tra gli oblast di Donetsk e Zaporizhzhia, che da qualche analista erano stati, invece, individuati come i veri fulcri dello sforzo controffensivo, hanno effettivamente svolto un ruolo esclusivamente “ancillare” alle operazioni principali, ma si è trattato di un elemento facilmente intuibile per i russi e svariate volte palesato dagli ucraini.

Nella fase di stagnazione successiva alla ripresa delle operazioni, dopo la “pausa operativa” delle prime settimane di controffensiva, anche le azioni militari “di movimento” ucraine, vittoriose sui fronti secondari, hanno avuto come funzione quella di alimentare la “battaglia d’attrito” sul fronte principale.

Questo potrà sembrare un ragionamento “di scuola”, puramente teorico, scollato dalla realtà cruda del campo di battaglia ucraino. Ma esso è base teorica del fallimento concreto della controffensiva ucraina, delle cui ragioni stanno dibattendo anche a Kyiv e che hanno spinto anche il comandante in capo delle Forze armate ucraine, il generale Valerij Zalužnyj, a scrivere un documento a tal proposito.

Del resto, come scrisse nel 1880 in “Primi elementi della guerra marittima” Domenico Bonamico, le funzioni tattiche – e le loro caratteristiche – e di “grande tattica” restano invariate anche di fronte a fattori rinnovati (come possono essere l’utilizzo dei droni o la guerra elettronica nel caso del conflitto russo-ucraino) che potrebbero indurre ad immaginare chissà quali trasformazioni dell’arte della guerra.

La coniugazione tra droni ed armi di precisione è un utile supporto alle operazioni condotte con armi ed equipaggiamenti classici. La transizione tecnologica della guerra convenzionale aumenta (e neanche sempre) la letalità degli armamenti, ma l’approccio tattico e strategico non è cambiato. Questa constatazione, sostenuta da corposa letteratura su exempla storici e contemporanei, è sembrata tanto complessa a parte ingente degli analisti militari e geopolitici internazionali, che, esattamente come alcuni politici occidentali, sono stati colpiti dalla sindrome del “miracolo” che avrebbe determinato la sconfitta russa a fronte di un piano ucraino riconosciuto giustappunto come errato nelle sue premesse.

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