Il fattore morale nella guerra russo-ucraina

10/08/22

Il 24 febbraio 2022 è accaduto l’imprevedibile. O meglio, è accaduto qualcosa che quasi tutti i cittadini del mondo occidentale avevano pervicacemente ritenuto impossibile, quasi ad esorcizzare il suo verificarsi. In sintesi, la seconda Potenza nucleare mondiale ha riscoperto uno dei modi classici di fare politica estera ossia la guerra. Non si è trattato in questo caso di un intervento militare volto a sanare una qualche presunta ingiustizia o per riportare ordine in un quadro internazionale compromesso dal comportamento aggressivo del dittatore di turno. No. Si è trattato di un intervento per far prevalere la volontà di un Paese sovrano, la Federazione Russa, su quella di un altro Paese sovrano, l’Ucraina. Insomma, un puro atto di forza.

Viste così le cose, l’esito poteva apparire scontato. Un grande e ben armato Golia avrebbe dovuto aver facile gioco di un Davide già scosso in passato da una pesante sconfitta che gli era costata la Crimea. Le cose hanno però quasi subito cominciato a prendere un’altra piega perché sicuramente di una cosa gli ucraini non erano a corto. Di una grande volontà di resistere. Di quello che Carl von Clausewitz chiama la “lama finemente levigata della spada”. Il morale.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Dopo un momento iniziale di sbandamento, gli ucraini hanno cominciato a difendersi ed a ribattere colpo su colpo. Ad accettare le distruzioni materiali imposte loro dai russi pur di non dichiararsi per sconfitti. A dare il tempo all’Occidente di coalizzarsi per sostenere gli sforzi di Kiev nella lotta contro la Federazione Russa.

Al contrario, i soldati russi non hanno dato prova di un grande desiderio di combattere. Anzi, hanno perduto sempre più mordente man mano che gli ucraini, ben riforniti dall’Occidente di sistema d’arma adatti alla difesa, alzavano la testa e reagivano in maniera sempre meglio coordinata.

Il conflitto si è quindi caratterizzato per l’alto numero di perdite di uomini, mezzi e materiali russi e, solo nelle ultime settimane, tale trend sembra essere rallentato, in particolare dopo che Mosca ha iniziato a fare largo uso di artiglieria, missili e razzi, spesso in modo indiscriminato. Tutte armi che colpiscono da lontano ed evitano di mettere a contatto diretto soldati demotivati con altri che invece sono disposti a rischiare la vita per la salvezza del loro Paese.

In definitiva, se nella conta delle armi e dei sistemi i russi sono sempre stati in vantaggio, nel campo del morale sono stati surclassati dagli ucraini.

Certo il morale non può costituire un fattore d’eterno vantaggio perché, con il tempo e le perdite, tende irrimediabilmente a diminuire, però il fenomeno merita di essere studiato.

Volontà e morale sono parole che nel moderno Occidente non hanno mai fatto veramente presa. Se andiamo ad analizzare le più cocenti sconfitte occidentali dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ossia il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, ci rendiamo immediatamente conto come queste debacle siano soprattutto il frutto di una nostra mancanza di tenuta morale ogni volta che ci siamo trovati di fronte avversari determinati, capaci d’affrontare sacrifici indicibili pur di prevalere. L’Occidente ha infatti sempre puntato sul vantaggio proveniente dai fattori materiali. Con il risultato nefasto di vedere le tattiche militari prevalentemente concentrate sulla distruzione fisica delle capacità dell’avversario. Tale distruzione produce sì risultati in campo tattico e, a volte, operativo ma il successo non è così scontato in campo strategico. In effetti il problema è che l’Occidente è schiavo della sua storia, o meglio, delle origini del nostro modo di fare la guerra.

Dobbiamo tornare indietro al tempo delle polis greche, quando falangi di opliti si affrontavano in una gara di spinta, a colpi di lancia e scudi, cercando di disarticolare il blocco nemico per poi iniziare la mattanza. Spinta contro spinta. A maggior resistenza maggior spinta. Risultato…il successo coincideva con la distruzione fisica dell’avversario, in un mondo ove il livello tattico, operativo e strategico erano la stessa cosa.

Con questi presupposti è facile comprendere come, ancora oggi, distruggere il nemico rappresenti per un capo militare l’obiettivo principale da conseguire.

Citando nuovamente von Clausewitz, nel Libro Primo del “Della Guerra” si afferma infatti che lo scopo del conflitto è quello della distruzione fisica delle forze dell’avversario, la conquista del territorio nemico (in modo che la forza militare avversaria non possa essere rigenerata) e, solo in terza battuta, il domare la volontà del nemico di continuare a resistere. Ma forse la conseguenza più grave di questo modo di pensare la guerra è l’incapacità di comprendere che, in altre culture, il successo in un conflitto non ha nulla o ben poco a che vedere con la distruzione fisica dell’avversario. Esistono altre strade molto più efficaci.

Tornando alla guerra in Ucraina, quello che sta emergendo è che la volontà, il morale, la capacità psicologica di ricostituirsi per combattere contano e contano tanto, mentre tutto ciò sembra non essere presente nel pensiero strategico occidentale o, al massimo, è ritenuto solo un fenomeno secondario derivante dall’andamento del conflitto.

La guerra antropocentrica

Ogni strategia è figlia del suo tempo. Il nostro tempo è un tempo di connessioni, di collegamenti tra entità lontane, di villaggio globale. Internet fa da padrone, come anche il modo di comunicare attraverso i social. Il conflitto in Ucraina è seguito in diretta da tutti attraverso smartphone che ci accompagnano in ogni momento della nostra vita. Non esiste più il mediatore giornalista che ci guida nel formarci un’opinione ed anche i singoli combattenti al fronte possono inserirsi, in prima persona, in diretta, in questo spazio virtuale dandoci tante informazioni che, in passato, non potevamo nemmeno sognare di possedere.

Le persone sono quindi al centro. Gli affari globali sembrano divenuti alla portata di tutti. Queste connessioni evidenziano ulteriormente l'importanza delle percezioni, delle emozioni, delle credenze e, in definitiva, della volontà di essere coinvolti nel conflitto o di accettarne i risultati.

Tale stato di cose produce diversi interessanti effetti. Il primo è che l’alterare a proprio favore il comportamento dei protagonisti di un conflitto e raggiungere quindi risultati strategici duraturi, passa sempre più per le persone. Le opinioni pubbliche sono infatti sempre più capaci di condizionare le scelte dei decisori. Non si può nascondere una situazione, o un episodio, quando basta aggirarsi su internet per sapere come effettivamente sono andate le cose.

Il secondo effetto è che le persone direttamente impegnate nel conflitto sono in grado di sentire e quasi toccare con mano il supporto o l’ostilità di altre persone che seguono gli avvenimenti ma che vivono anche a tantissimi chilometri di distanza. Questo supporto (o questa ostilità) aumenta (o diminuisce) la volontà di combattere e resistere. In fondo è una cosa molto umana. Se ci sentiamo sostenuti ed ammirati siamo portati a dare il meglio. Se ci sentiamo disprezzati e reietti la nostra volontà nel persistere in un comportamento condannato dall’opinione pubblica vacilla e ci rende riluttanti; è qualcosa che parla alla nostra coscienza.

Conscio di queste dinamiche, 2.500 anni fa Sun-tzu affermava che il soldato deve essere mantenuto nell’ignoranza. Ma come si fa a mantenere il soldato nell’ignoranza se con un click può conoscere cosa si pensa di lui in ogni angolo del mondo?

Se questa è la situazione, forse è giunto il momento di prenderne atto e di utilizzarla a nostro vantaggio.

Volontà e morale nella dottrina militare occidentale

La dottrina occidentale, ed in particolare quella statunitense, considera infatti il colpire la volontà nemica solo come una conseguenza del combattimento terrestre (U.S. Army ADP 3-0 e U.S. Army FM 3-0). In pratica, pur sostenendo la necessità di limitare, se possibile, i danni materiali e di attenersi alle norme del Diritto Internazionale dei Conflitti Armati, tale dottrina non dà alcuna indicazione in merito a come condurre le operazioni tenendo conto del morale, sia esso del nemico, delle forze amiche o dei civili. In definitiva non esistono linee guida su come condurre operazioni per influenzare la volontà ed il morale.

In Occidente, si cerca principalmente di minare la volontà dell’avversario attraverso la distruzione dei mezzi e materiali destinati al combattimento. Il conseguimento di tale effetto si considera però collaterale e incidentale alle operazioni di combattimento regolari, e non si entra nel merito di come influenzarlo direttamente e si omette di considerarlo esso stesso come un obiettivo reale da conseguire. Ad esempio, non si tiene conto del fatto che certi tipi di operazione, lungi dal minare la volontà di combattere del nemico, tendano invece a rafforzarla e che la distruzione del morale può rendere necessario un cambiamento di tempo, luogo o tipo di operazione stessa. Anche il preoccuparsi del morale delle nostre truppe non è che in fondo riceva molta attenzione. Ci sono certo i cappellani militari con il loro conforto ed i loro servizi, il sostegno alle famiglie a casa, le occasioni di svago che a volte sono organizzate al fronte.

Nel passato, ricordiamolo, esistevano case di tolleranza militari portate al seguito come supporti nelle retrovie delle armate impegnate nei combattimenti. E non esiste alcun manuale che dica ai comandanti occidentali quali operazioni condurre per elevare il morale delle loro truppe o come condurle.

In Occidente non si parla quindi né di come influenzare il morale amico durante le operazioni di combattimento effettive né di come contrastare eventuali tentativi nemici di influenzarlo. E ancora meno si parla dell'influenzare la volontà dei civili, amici o nemici che siano, coinvolti nelle operazioni militari. Questo approccio, in effetti, considera il morale alto delle truppe amiche in combattimento come qualcosa di scontato e il morale nemico degradato esclusivamente come conseguenza della distruzione materiale subita.

Solo recentemente con la dottrina sulle cosiddette MISO (Military Information Support Operations) si è cominciata a considerare la possibilità di influenzare deliberatamente il morale del nemico in combattimento limitandosi però all’utilizzo dei soli mezzi di informazione. Troppo poco e solo per unità altamente specializzate. In ogni caso le MISO sono utilizzate quasi esclusivamente a sostegno delle operazioni militari classiche che danno priorità alla distruzione fisica delle capacità nemiche. In definitiva, non esistono operazioni militari create esclusivamente per colpire il morale degli avversari o per migliorare quello delle nostre truppe.

La minaccia

Questa situazione di scarso interesse per gli aspetti legati al morale appare veramente singolare se si considera che da tempo l’Occidente ha identificato nelle minacce ibride e nella sovversione due modalità di guerra poste in essere da vari stati stranieri. La Cina, ad esempio, ha osservato da vicino le azioni militari statunitensi del recente passato e ha concluso che i fattori intangibili sono sempre più significativi per la guerra moderna.

La lettura di “Guerra senza Limiti” (Qiao Liang-Wang Xiangsui ed. La Goriziana) è un buon esercizio per comprendere come i cinesi abbiano ben chiaro che, al momento, affrontare l’Occidente con le armi dell’Occidente non porti nulla di buono per chi decidesse di percorrere questa strada. Alla luce di queste osservazioni i cinesi hanno sviluppato un approccio strategico che persegue la vittoria attraverso azioni, in primis, non cinetiche ma che possono divenire cinetiche alla bisogna. Esse fan sì che il nemico perda "la volontà e la capacità di resistere" e si "paralizzi", come parte di un concetto di guerra che miri alla distruzione dei sistemi. Distruzione non tanto intesa in termini fisici quanto piuttosto di destrutturazione degli stessi. Del resto in tutto ciò non c’è nulla di nuovo dato che gli stessi concetti li esprimeva Sun-tzu quando affermava che “la strategia migliore è quella che fa fallire i piani dell’avversario” ossia quella strategia che previene le azioni dell’avversario e le rende inutili nel momento stesso in cui queste sono concepite. Non a caso, i cinesi hanno anche introdotto un concetto di guerra psicologica strategica che propone di vincere le guerre attraverso mezzi indipendenti dal combattimento, sopraffacendo preventivamente un nemico dal punto di vista psicologico.

Considerazioni storiche per le due metà della guerra

La sostanziale assenza di considerazioni riguardanti il morale nell’attuale dottrina occidentale è, tutto sommato, una spiacevole novità e rappresenta un discostarsi, in parte, dalla tradizione. In fondo, fin dai tempi di Omero, le cui opere, non sono altro che la descrizione di come si conduce e si ritorna da una guerra, appare sempre la dualità fisico-psicologico. La furia di Achille contrapposta all’astuzia di Ulisse. Ma, avvicinandoci nel tempo, l’importanza del morale e della sorpresa per Sun-tsu. I discorsi di Pericle agli ateniesi per Tucidide. La già citata “lama finemente levigata” di von Clausewitz”. L’“Allons enfants de la patrie” della Francia repubblicana, divenuta imbattibile sui campi di battaglia perché i cittadini soldato sapevano di combattere per una patria dove non erano più sudditi ma protagonisti. La visione di J.F.C. Fuller che negli anni 20 vedeva la guerra psicologica come la guerra del futuro. La chiara identificazione, da parte di Paul M.A. Linebarger, della Guerra Fredda come di una guerra combattuta soprattutto da un punto di vista psicologico, dove entrambe i contendenti identificavano il male assoluto nell’avversario e, da questo assioma, traevano forza per condurre le operazioni in tutti i domini. Tutti questi esempi fanno capire come il fattore morale fosse nel passato preso seriamente in considerazione.

Cosa succede dunque oggi? Cosa accade ai valori ai quali questi strateghi del passato facevano riferimento? Come sono cambiate le nostre società? Quali capacità di resilienza conservano le società occidentali? Perché la domanda che si affaccia alla mente non è per niente rassicurante. Le nostre società possiedono ancora valori di riferimento sui quali far leva se dovessero trovarsi davanti all’eventualità di un conflitto? Perché chi non sa per cosa combattere semplicemente non combatte.

Dove siamo?

Da questa lunga chiacchierata credo si possa trarre qualche utile considerazione che possa servire anche da lesson learned per quanto riguarda il conflitto ucraino.

Abbiamo visto che in occidente il fattore morale sia ormai quasi dimenticato e che, nel migliore dei casi, lo si metta riduttivamente al servizio degli sforzi tesi alla distruzione fisica delle forze avversarie. Tale approccio appare in contraddizione sia con il nostro passato, sia con le conclusioni a cui siamo arrivati rispetto la possibile minaccia che, come è noto, riteniamo persegua un modo di fare la guerra di tipo ibrido.

In definitiva, appare un evidente squilibrio tra morale e fisico a favore di quest’ultimo. Sarebbe quindi necessario riportare su un piano di parità questi due modi di fare la guerra. Rendere quindi la guerra antropocentrica. Tale riequilibrio dovrebbe vedere il morale che precede il fisico. Agendo prima sul morale si possono infatti raggiungere risultati importanti nel campo del fisico. In Occidente noi tentiamo invece di agire sul fisico, attraverso la distruzione del potenziale nemico, per colpire, come conseguenza, il morale dell’avversario.

Perché dunque questa strana scelta? Come è noto, il modo di fare la guerra in realtà rispecchia sempre l’organizzazione e i valori della società di riferimento. Gli opliti della falange combattevano in questo modo perché i cittadini delle polis greche erano uguali tra di loro ed anche in guerra questa uguaglianza era fisicamente esemplificata da una formazione di combattimento dove tutti erano uguali. L’immortalità derivante dal gesto di valore non era più esclusivamente alla portata dell’eroe solitario figlio di una società oligarchica, ma era a disposizione della polis stessa in cui tutti i cittadini si identificavano. Se questo è vero, l’oblio in occidente del fattore morale in guerra, rappresenta un segnale estremamente allarmante riguardo la capacitò delle nostre società di affrontare un conflitto. Il fattore morale è infatti sempre intimamente legato ai valori di riferimento di una società. La volontà di resistere si appoggia infatti al senso di appartenenza dei cittadini allo Stato, alla Patria, alla comunità di origine, nei reparti militari, allo spirito di corpo che lega tra loro i soldati tramite la lealtà e l’impegno al supporto reciproco.

E se il fattore morale in Occidente fosse sparito perché spariti sono i valori di riferimento? In questo caso, credo, dovremmo seriamente preoccuparci. Nel conflitto ucraino la volontà di non arrendersi è invece l’elemento trainante della resistenza. È ciò che permette ai cittadini ed ai soldati ucraini di non disperare ed affrontare immani sacrifici. Il presidente ucraino, non ha caso, è un comunicatore professionista. Un comico è infatti colui che sa osservare la società di riferimento e, tramite la satira e il paradosso, è capace di metterne in luce le contradizioni e le debolezze ridendoci sopra. Ma per fare ciò bisogna conoscere l’animo umano. Le sue dinamiche, le sue speranze, i suoi sogni ed anche le sue turbe, in una parola, i suoi valori.

Siamo quindi pronti, in Occidente, ad affrontare una guerra dove la volontà di resistere sta alla base della possibilità di successo?

Giordano Ciccarelli

Il generale di brigata di cavalleria Giordano Ciccarelli è nato a Fano (PU) il 28 maggio 1961. Nel corso della sua carriera ha maturato molteplici esperienze a tutto campo, con profilo operativo, interforze ed internazionale, sviluppando capacità di comando ed autentico spirito interforze con un ruolo attivo negli ultimi 20 anni nei settori operazioni, logistica, addestramento e formazione.

Foto: Twitter (MoD Ucraina / MoD Russia)