Afghanistan: vent’anni di impegno militare

(di Andrea Mucedola)
09/07/21

Il 29 giugno 2021 si è concluso, con il rientro all’aeroporto di Pisa degli ultimi italiani ancora schierati ad Herat, il nostro impegno militare in Afghanistan.

Il generale di brigata Beniamino Vergori, ultimo soldato a salire sull’aereo è tornato a casa concludendo un lungo capitolo della nostra storia recente, lasciando la base di Herat, insieme ai militari del suo glorioso reggimento appartenente alla brigata Folgore. A questi militari e a tutti quelli che li hanno preceduti va il nostro riconoscimento per ciò che silenziosamente hanno dato per quel Paese lontano ma anche come contributo alla sicurezza internazionale.

In questo breve articolo voglio raccontare una storia durata due decenni, una storia di sacrifici che uomini e donne hanno quotidianamente portato avanti per riportare una speranza a chi l’aveva persa.

Una storia di vent’anni

Tutto iniziò vent’anni fa, con l’operazione ISAF (International Security Assistance Force) istituita a seguito della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU n. 1386 del 20 dicembre 2001 per la stabilizzazione dell’Afghanistan.

Lo scopo iniziale della missione era la predisposizione di una forza di intervento internazionale per garantire un ambiente sicuro nell’area di Kabul dove il 22 dicembre 2001, a seguito delle operazioni militari condotte nell’ambito della missione Enduring Freedom, si era insediata l’autorità provvisoria afghana guidata da Hamid Karzai. In realtà militari italiani erano già presenti in Afghanistan dal 18 novembre 2001 con compiti di sorveglianza, interdizione marittima, nonché di monitoraggio dei traffici illeciti di droga e armi.

Incominciò così l’operazione ISAF, nel gennaio 2002, inizialmente condotta dai contingenti militari di 19 Paesi, sotto mandato ONU a guida britannica. Una missione che fu ampiamente discussa in ambito NATO durante lo storico summit di Praga (novembre 2002), in cui fu approvato un nuovo concetto militare, ovvero la lotta globale al terrorismo, che di fatto consentì alle forze della NATO di operare anche al di fuori dell’area dei Paesi membri.

Come conseguenza il 16 aprile 2003 il Consiglio del Nord Atlantico (NAC), il principale organo decisionale politico della NATO, decise di assumere il comando delle operazioni nella prima missione militare extraeuropea dell’Alleanza Atlantica.

Il 13 ottobre 2003, il mandato venne prolungato e fu autorizzato l’impiego delle forze NATO anche al di fuori dell’area di Kabul. L’Italia fu sempre presente con i suoi reparti e assunse anche il comando della missione dal 4 agosto 2005 al 4 maggio 2006.

Un cambio importante avvenne il 4 febbraio 2007 quando la gestione dell’ISAF Joint Command (IJC) fu assegnata al personale di staff proveniente dagli Standing HQ della NATO e delle Nazioni che partecipavano all’operazione, sotto il comando di un generale statunitense.

IJC ebbe alle sue dipendenze sei Comandi Regionali (RCs), il comando dell’aeroporto internazionale di Kabul (KAIA) e il comando responsabile dell'addestramento delle unità afghane (NTM A – NATO Training Mission Afghanistan).

I Comandi Regionali si servivano di Provincial Reconstruction Team (PRT), responsabili della ricostruzione socio-economica del malandato Paese, in supporto alle tante organizzazioni nazionali ed internazionali operanti nella regione. Questo comportò la costituzione dei FSB (Forward Support Base), ovvero installazioni militari aeroportuali avanzate, necessarie per fornire il supporto operativo e logistico ai PRT presenti nella stessa regione.

Nel 2008 avvenne un’insorgenza delle attività terroristiche dei talebani con un innalzamento delle vittime civili, che portò ad un cambio strategico. La NATO, non senza fatica, sviluppò il concetto del comprehensive approach (approvato al Summit di Strasburgo-Kehl del 3-4 aprile 2009), insistendo sulla necessità del sostegno alle istituzioni afghane ed inviando nuovo personale, questa volta non solo militare ma anche civile.

Nel dicembre 2010, gli Stati Uniti inviarono 30.000 ulteriori soldati indicando però il luglio 2011 come inizio di un graduale ritiro delle truppe USA. Contestualmente la NATO annunciò un incremento di circa 7.000 unità.

Alla Conferenza internazionale di Londra del 28 gennaio 2010, si sottolineò la necessità di “recuperare alla vita civile i combattenti dell’insorgenza non riconducibili al nucleo più ideologicamente talebano e ad Al Qaeda”, ovviamente questo valeva solo per coloro che avrebbero rinunciato alla violenza.

Al Summit NATO di Lisbona (novembre 2010) fu deciso il passaggio della responsabilità della sicurezza in Afghanistan da ISAF alle Forze di sicurezza nazionali afghane. Un programma tutt’altro che semplice che evidenziò una differenza tra i programmi prioritari governativi afghani con quelli della NATO e la necessaria riconfigurazione di una parte delle truppe di ISAF negli ambiti della sicurezza e di formazione.

Il 31 dicembre 2012 il presidente afghano Hamid Karzai annunciò che l’87% della popolazione nazionale viveva in aree la cui sicurezza è sotto la responsabilità delle forze governative e che 23 province, su un totale di 34, erano totalmente sotto controllo afghano. Inoltre, sempre al summit di Lisbona, fu ipotizzato il completamento di tali azioni entro il 2014, un programma che fu confermato al successivo summit NATO di Chicago (20- 21 maggio 2012) quando fu fissata la data del ritiro delle forze operative al dicembre 2014.

In realtà, nel summit di Bruxelles del febbraio 2013, non si arrivò a nulla di preciso. Gli Stati Uniti proposero un piano per il mantenimento di 13.600 soldati americani in Afghanistan dopo la fine della missione Nato, ed il presidente Barak Obama fece trapelare che stava valutando un possibile prolungamento della presenza del contingente americano in Afghanistan dopo il 2014.

Di fatto, nel 2013-2015, erano ancora presenti circa 112.579 militari appartenenti a contingenti di 50 Paesi (NATO e non NATO).

Nel 2013, il contributo italiano era di circa 3.100 militari e di 95 militari di supporto dislocati a Tampa, negli Emirati Arabi Uniti, ed in Barhain, senza contare i militari italiani appartenenti ai Comandi NATO inviati in missioni presso i Comandi multinazionali.

Il 1 gennaio 2015, la missione ISAF fu sostituita dall’operazione Resolute Support Mission, sempre guidata dalla NATO.

Nel 2018 il numero dei militari era sceso a 16.910, provenienti da 41 Paesi contributori. Gli Stati Uniti d’America fornivano ancora il maggior numero di militari 8.475, e l’Italia, a cui era stato assegnato il comando della provincia di Herat, 895.

Ed arriviamo ora alla fine di giugno 2021 quando, dopo 20 anni di impiego l’ultimo contingente preceduto dalla bandiera di guerra, è rientrato in Patria. Un rientro in silenzio, forse dimenticando che, dall’inizio delle operazioni, ben 50.000 italiani, uomini e donne in divisa, si sono avvicendati in quel territorio, pagando purtroppo un triste tributo di sangue. 53 militari che persero la vita al servizio della Repubblica italiana per portare stabilizzazione e pace in quel lontano Paese e, che credo avrebbero meritato, un ricordo.

Ed ora?

Il futuro per quel Paese non è certo roseo. Il Washington Post ha rivelato, basandosi sul nuovo report dell’Intelligence Usa, che, dopo il ritiro delle forze NATO, l’Afghanistan con grande probabilità tornerà in mano ai talebani. La presenza di militari stranieri, annunciata a livello politico dai vari Paesi della ex coalizione, come consiglieri del Governo afghano, non avrà quindi un valore significativo.

In altre parole questi vent’anni di sforzi, con tante vittime da ambo le parti, potrebbero essere stati vani.

Una sconfitta per la NATO… che si dovrà porre tanti interrogativi su concetti operativi ambiziosi come il comprehensive approach, un concetto globale spesso associato alla cooperazione civile-militare. Quel combined approach, un miscuglio di militari, contractor e civili, che si è spesso rivelato poco funzionale nell’ambito della cooperazione.

Il disimpegno dall’Afghanistan sa molto di exit strategy, una sconfitta amara, addolcita con dichiarazioni politiche che sottolineano che comunque l’impegno della comunità internazionale in Afghanistan, Italia in primis, continuerà in altre forme.

Lo stesso presidente degli Stati Uniti Biden, che ha sposato il piano del suo predecessore, ha sottolineato che il lavoro diplomatico ed umanitario degli USA continuerà anche una volta conclusa la presenza militare.

In Italia, il ministro Di Maio ha parlato di “progetti di cooperazione allo sviluppo, con il sostegno alle imprese, con il sostegno alla società civile, con la tutela dei diritti umani” ma, dal dire al al fare, c’è un mare di situazioni irrisolte. Quello che mi colpisce da militare, anche se in congedo, è però l’aspetto morale ed etico della missione che sembra aver turbato ben pochi.

Riflessione

Nel silenzio più assordante il 30 giugno si è conclusa la missione in Afghanistan con il rientro degli ultimi uomini e donne del 186° rgt. Un rientro annunciato dai media principali ma in sordina, quasi a voler nascondere una colpa che non è certo militare. Eppure si tratta di militari italiani, donne ed uomini che negli ultimi venti anni hanno affrontato una missione difficile in un contesto internazionale non facile, per poter dare un futuro a quella tormentata terra.

Ci saremmo aspettati una sobria cerimonia pubblica, un ricordo dei caduti, dei tanti feriti, e di coloro che si alzavano nel mezzo della notte per raggiungere con i convogli villaggi sperduti per portare viveri e medicinali, per organizzare scuole, per aiutare con il loro impegno bambine e giovani donne a crescere, in particolare in quelle aree dove tradizioni secolari, se non medioevali, ne impedivano la crescita.

In un Paese, stordito tra COVID e gli europei di calcio, in cui si discute se inchinarsi o no (quando basterebbe semplicemente applicare le nostre leggi senza se ne ma) nessuno ha avuto un pensiero per i nostri 53 caduti e per le loro famiglie.

C’era solo il ministro della Difesa ad aspettarli sulla pista di Pisa. Poche parole in qualche telegiornale, niente più.

Sono stato in missione a Kabul (KAIA) nel marzo del 2011, per poco tempo ma sufficiente ad andare oltre gli stereotipi dei film, …dormivo come tutti in una tenda, sotto il cielo stellato, in un sacco a pelo che mi separava da un materasso vecchio e logoro, impregnato dal sudore di tanti, con le armi e il giubbotto anti proiettili sempre a portata, e la minaccia continua dei colpi di mortaio, protetti solo da alti muri di cemento che includevano le tende in modo da limitare, nel caso, il numero delle casualties.

Ho ancora vivi ricordi di uomini e donne di tante nazioni… di elicotteri che continuamente atterravano all’ospedale da campo, di soldati, marinai ed avieri di tutte le 50 nazioni che, tra una missione e l’altra, si mettevano in fila, indipendentemente dal grado, con una gamella… volti stanchi che ogni tanto strappavano un sorriso quasi a voler dare una normalità a quella vita… riunioni interminabili sotto le tende, interrotte dai rumori dei diesel dei camion dei convogli, ma anche desiderio, tanto e sempre presente, di voler dare un futuro a quel Paese.

Non c’erano rambo, ma professionisti che affrontavano ogni giorno i tanti problemi. Al campo di Kabul c’era un piccolo negozietto afghano, poco più di una capanna che vendeva ricordi, pashmine stese come bandierine al vento freddo che scendeva dalle montagne… gli Afghani ci ringraziavano, ci parlavano in quel linguaggio misto di inglese e tante altre lingue, della guerra contro i Russi, di una terra che aveva provato a crescere ma era poi stata soffocata dall’odio che non si è mai sopito.

Noi Italiani ci siamo stati ed abbiamo dato il nostro contributo per il loro futuro… e lo abbiamo fatto come sempre senza aspettarci nulla, esattamente con lo stesso immutato impegno che quotidianamente i nostri militari professano sul territorio, al servizio del nostro Paese.

Da Italiano mi duole questo silenzio, quest’ipocrisia che preferisce non dire piuttosto che riconoscere il sacrificio dei suoi figli.

Nel mio piccolo voglio ricordarli così, questi figli di un dio minore che tanto hanno dato a quel Paese ed al nostro, 53 stelle che brillano nei cieli dimenticati di una terra lontana.

   

Vedi anche video: "8 giugno 2021: ammainabandiera in Afghanistan"

Andrea Mucedola contrammiraglio in congedo della Marina Militare Italiana (riserva). Ha frequentato l’Accademia Navale di Livorno dal 1977 al 1981. Nei suoi 40 anni di servizio ha servito 15 anni a bordo delle unità di superficie, in numerosi Comandi nazionali e all’estero e in zone di guerra. È laureato in scienze marittime delle difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. È un analista indipendente di maritime security in diversi Think Tank geopolitici e collabora con riviste on line del settore italiane ed internazionali. Istruttore subacqueo, con immersioni effettuate in quasi tutti gli oceani, si è brevettato Scientific Diver nel 1993 presso l’International School Scientific Diving di cui, l’anno successivo, è diventato docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare. Nel 2015 ha ideato OCEAN4FUTURE con lo scopo di condividere la cultura del mare. Nel 2019 ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione scientifica.

Foto: U.S. DoD / U.S. Army / autore / ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale