Reportage Siria: Damasco, la guerra e il grande assente

(di Giorgio Bianchi)
06/11/16

Damasco è considerata la città abitata più antica del pianeta; i primi insediamenti risalgono a circa 11000 anni fa.
È magnifica e caotica allo stesso tempo, brulica di vita, odora di incenso e spezie e di ogni singolo edificio della città vecchia sarebbe possibile scrivere un trattato.

Damasco oggi è anche la capitale di uno stato in guerra: check point capillari lungo le principali vie di accesso, soldati armati per le strade intenti a perquisire borse e pacchi ingombranti, gli echi delle detonazioni come temporali lontani.

Ciononostante la vita continua come se nulla fosse, a dispetto dei disagi alla circolazione ed alla paura: i bambini tutti i giorni si recano a scuola, gli impiegati si affrettano al lavoro, i negozianti aprono le loro botteghe, i muezzin chiamano alla preghiera così come le campane delle tante chiese cristiane; si perché Damasco è da sempre una capitale multiculturale ed ecumenica, nella quale tutte le religioni hanno sempre avuto cittadinanza, tanto da essere riprovevole anche solo intavolare la questione.

Qui cristiani, sunniti, sciiti ed ebrei convivono armoniosamente da sempre senza porsi il problema gli uni degli altri: per strada si incontrano donne con il hijab, con il chador, con le chiome mechate al vento, gruppi di ragazzi e ragazze appartenenti alle più svariate confessioni che trascorrono del tempo assieme divertendosi e senza curarsi della spiritualità gli uni degli altri.
Tutto come prima insomma, o quasi.

In questo quadro così controverso, ma tutto sommato in equilibrio, tuttavia vi è un grande assente, una presenza che si manifesta in ogni angolo per la sua assenza.
Si tratta di uno di quei fattori talmente macroscopici che quando riesci ad individuarlo ti viene da battere il palmo della mano sulla fronte.
In questa città mancano ovviamente i turisti; quelle folle ciondolanti, spesso orribilmente vestite, che armate di macchina fotografica e telefonino usavano aggirarsi per la città come cacciatori durante un safari, ma che a loro volta erano facili prede del più temibile dei predatori ovvero il mercante arabo.

I primi come abbiamo detto si sono “estinti” dopo lo scoppio della guerra, lasciando i secondi senza la principale fonte di sostentamento, accompagnati in questa lenta ed inesorabile agonia dai ristoratori, dagli albergatori ed in generale da tutto quell’indotto che dal turismo di massa traeva linfa vitale.

Ogni giorno bottegai, artigiani, venditori di tappeti, ristoratori, albergatori alzano la saracinesca della loro attività pur sapendo che durante tutta la giornata difficilmente incroceranno i propri occhi scuri e profondi con quelli chiari o a mandorla dei turisti provenienti dagli angoli più svariati del pianeta.
E così se ne stanno lì, padre e figlio, tutto il giorno ad incidere a martelletto meravigliosi oggetti intarsiati; oppure ci sono quei due fratelli intenti a lucidare con la gommalacca meravigliose scatole fatte di legno e madreperla; e poi ci sono tutti gli altri ovvero quelli che infilano collanine, srotolano tappeti, puliscono dalle foglie i meravigliosi giardini arabi degli Hotel, apparecchiano le tavole o dispongono in fila i narghilè; col fare della sera tutte queste attività, figlie della consuetudine più che della necessità, lasciano spazio a partite a backgammon o a scacchi tra negozianti vicini o alle più consuete bevute di tè o fumate in compagnia.

Gli incassi sono quasi sempre scarsi se non addirittura assenti e le famiglie giorno dopo giorno stringono sempre di più la cinghia.

Noi italiani, che abbiamo fatto del turismo di massa una delle principali industrie del Paese, dovremmo capire più di altri il danno che questa assurda guerra civile sta recando ad uno dei paesi più belli del Medio Oriente e del mondo intero, che vanta perle uniche come Damasco, Palmyra o Aleppo.

Noi che con la nostra ignavia abbiamo permesso che tutto ciò avvenisse, salvo poi lamentarci delle ondate di profughi che ogni giorno si abbattono lungo i nostri confini.

Fino a sei anni fa nessuno pensava di abbandonare la Siria e molti ancora oggi, nonostante la crisi e la devastazione, desiderano rimanere per ricostruire quella pace e quell’armonia che durava da lunghi anni.

Certo i problemi c’erano, come del resto in tutti quei paesi dalla lunga storia, posizionati strategicamente sul mappamondo e dai confini creati con un tratto di penna; ma la risposta più comune alla domanda “che cosa faresti se avessi una bacchetta magica” è per tutti la stessa: “vorrei tornare indietro a sei anni fa”.

(foto dell'autore)