Muore Karimov: Uzbekistan e Asia centrale al bivio

(di Giampiero Venturi)
03/09/16

L’Uzbekistan è un Paese particolare in tutto: insieme al Liechtnestein è l’unico al mondo doppiamente senza sbocchi al mare, che confina cioè con Paesi a loro volta circondati solo da terra. È il cuore del cuore dell’Asia centrale, placca immobile dell’ex URSS, incastrata fra modernità e Islam.

Già al Xalqaro Aeroporti di Tashkent si capisce l’andazzo: i moduli per la dogana sono quasi solo in cirillico.

Dietro all’alfabeto c’è una storia lunga, a cavallo tra colonialismo e indipendenza. L’Uzbekistan, il più popoloso fra le 5 repubbliche asiatiche dell’ex URSS, nel ‘91 ha seguito il corso degli altri pezzi in fuga dall’Impero rosso, dove l’opera di derussificazione è stata inizialmente implacabile: dal cirillico si è tornati all’alfabeto latino; i simboli legati all’ex colonizzatore, sono stati cancellati. I primi a farne le spese sono stati i resti del comunismo, sostituiti con gli eroi della nazione uzbeka, ripescati dai secoli. Su tutti svetta Timur, il Tamerlano sepolto nel mausoleo di Samarcanda, resa epica da Alessandro Magno e orecchiabile da Roberto Vecchioni.

E proprio a Samarcanda si capiscono molte cose dell’ O’Zbekiston, scritto così in enormi epigrafi patriottiche lungo la ferrovia tra la città e la capitale Tashkent.

Samarcanda è in realtà una città a maggioranza tagika, che grazie alle follie di Stalin fu regalata all’Uzbekistan. Tutti gli uomini col cappello tradizionale a forma di panettone lo dimostrano ancora oggi per le strade della città: una volta erano sovietici, oggi sono diventati uzbeki, ma in realtà sono tagiki, di stirpe iraniana come s’intuisce dai tratti somatici e dalla bandiera del Tagikistan, distante meno di 50 km.

E a Samarcanda è nato Karimov, il padre padrone del Paese, morto in queste ore o forse in questi giorni. Il suo nome, col suffisso russo e la radice islamica, ha rappresentato tutte le contraddizioni lasciate a galla dalla Storia negli ultimi 25 anni.

Ex uomo forte di Mosca per l’Uzbekistan ai tempi del comunismo, è rimasto presidente della nuova nazione indipendente per un quarto di secolo. Nel silenzio della steppa ha macinato potere, tenendo intorno a sé e alla sua famiglia un Paese bizzarro, soffocato dall’eredità delle monoculture sovietiche ma costretto a spostarsi dopo anni d’immobilismo.

In Occidente un sistema come quello uzbeko si chiama dittatura. Il Parlamento, in effetti, è come il quarto uomo nelle partite di calcio: anche se osserva, è sostanzialmente fuori dal gioco. Senza attraversare il Paese però si rischia di dire amenità e non capirlo abbastanza.

Le spinte indipendentiste di Tashkent inizialmente avevano guardato a Ovest. L’Uzbekistan si era perfino reso disponibile per la guerra in Afghanistan, cedendo basi alla NATO. Fino a qualche anno fa a Termez, lungo il confine sud, gli alberghi erano tutti occupati da personale della Lutwaffe in missione per l’ISAF.

Le lusinghe americane hanno fatto breccia per un po’, prima di scontrarsi con la realtà dei fatti. Allontanarsi completamente da Mosca per Karimov e i suoi è stato di fatto impossibile. La dipendenza economica, esasperata dal divide et impera sovietico imposto alle produzioni delle singole repubbliche, ha creato un vincolo insostituibile nel tempo. I segni sono ancora tutti sulle sponde del Lago Aral che non esiste più in nome del dio cotone…

Alla volontà di fuga si è sostituito un equilibrio de facto che ha sospeso l’Uzbekistan per due decenni: “non più schiavi della Russia; non ancora qualcos’altro”.

Cosa succederà ora che l’era Karimov è finita? Cambieranno gli equilibri nel cuore dell’Asia?

Facile attendersi un uomo vicino a Mosca. Facile immaginare che sia l’occasione per un politico giovane, vicino alle nuove velleità euroasiatiche del Cremlino.

Intanto gli uzbechi rimarranno a metà fra tradizione e futuro, fra passato e speranze.

In una poltrona di treno, un uomo biondo con gli occhi azzurri beve tè, offerto dalle efficientissime Uzbekistan Railways. Alla tv furoreggia Googoosha, la figlia di Karimov, mix fra Laura Pausini, un incantatore di serpenti e il turbo folk balcanico. L’uomo è abituato e non ci fa caso.

Il 1° settembre è stata la festa dell’Indipendenza nazionale ma lui, come altri milioni di cittadini non l’ha festeggiata. Tutti i figli di coloni russi (che oggi con la Russia non hanno nemmeno legami), si sentono fuori posto. Con le facce olivastre dagli occhi grigi a mandorla e con i colli da lottatore degli uzbeki di etnia mongolo-tartara, hanno poco a vedere. Per capire basta camminare sui tappeti del treno, che intanto si avvicina a Buqara. Oppure è sufficiente entrare in una delle 4 linee metro di Tashkent e farsi un giro, sotto l’occhio vigile dei poliziotti onnipresenti, con le loro uniformi verdi-blu.

L’Uzbekistan è tutto qui: una nazione sospesa tra le pubblicità scritte in cirillico (duro a morire) e quelle in alfabeto latino (duro a tornare).

Nel silenzio caldo e secco di Tashkent, nel vialone imperiale Shota Rustaveli, passa un filobus vecchiotto dalla forma cubica. Non c’è bisogno di scrivere: si capisce tutto mangiando uno shashlyk in compagnia di un taxista indolente o davanti alla frutta del bazar, tra venditrici con gli occhi a spicchio e la faccia bruciata dal sole. Basta bere una Baltika russa davanti a un minareto per rendersi conto che questo è il centro di un nodo inestricabile: il groviglio fatto di seta e canapa che tiene insieme l’Est e l’Ovest del mondo. 

(foto: autore)