Belgio: la quasi-nazione simbolo dei mali d’Europa

(di Giampiero Venturi)
13/10/16

Il Belgio ha un re, una capitale e una bandiera con cui ha sfilato agli Europei 2016 (girone dell’Italia…), ma di fatto è composto da due nazioni: le Fiandre fiamminghe a nord, per lo più cattoliche con qualche area protestante; la Vallonia francofona a sud, di cultura cattolica.

Il “di cultura” è d’uopo perché di questi tempi con la fede in Europa bisogna andarci cauti: delle piazze e dei campanili ferventi, oggi rimane l’impronta arida di un continente vecchio, così impegnato a fuggire da se stesso da non avere tempo nemmeno per ricordarsi.

Le prime differenze che si notano in Belgio, in effetti, sono linguistiche. Nelle Fiandre si usa il fiammingo, l’olandese parlato col raschio; nella Vallonia si parla francese. Le distinzioni fiscali ed economiche che al di là del folklore hanno minato seriamente l’unità del Paese negli ultimi anni, per ora sonnecchiano nel ventre della politica, oggi presa da altre emergenze. La riforma federale dello Stato è nata proprio su questa base: se molte cose ci sono ma non si vedono, il Belgio gira al contrario: si vede, ma ci si chiede se ci sia ancora.

Dall’aeroporto di Charleroi, sotto allarme bomba il 23 marzo, basta procedere verso nord per farsi un’idea. Sull’autostrada i cartelli indicano Gand finché è Vallonia; da un certo km in poi si legge Gent, mix di genio fiammingo e follia punkabbestia.

Lungo la costa di Ostenda, bunker tedeschi intatti e rievocazioni storiche parlano del passato, che da queste parti è di casa. Il Belgio è una tavola, un Paese senza gallerie ma che conosce il buio. Non c’è soluzione tra le pianure e il Mare del Nord, grigio e inquieto come l’anima spenta di una comunità che si trascina senza darsi un senso, senza aspettarsi un futuro.

Chi meglio di questa terra piatta rappresenta l’Europa? Il Belgio è una linea e una metafora; una pagina vecchia piena di strappi.

Scendendo dalla costa fiamminga, i cartelli indicano Doornik conosciuta meglio come Tournai, vecchia gloria del Paese.  Le scritte la dicono lunga sui muri esistenti tra belgi: nelle Fiandre i cartelli stradali per Parigi e Lille sono scritti in fiammingo ma anche in francese; quelli per la Vallonia invece solo in fiammingo… 

Deve essere il destino: questa terra è la culla delle contraddizioni di un’Europa capace di dividersi su tutto meno che sulla certezza della propria fine…

Prima di puntare a sud, da Veurne ci si perde per la campagna all’altezza di Ypres, la città che dà nome al gas mostarda. Essere devastato e attraversato è un po’ il destino del Belgio, incastrato tra due colossi: sulle pianure verdi tra la Mosa e la Schelda la guerra tornò anche nel ’40 quando la Fall Gelb tedesca umiliò gli eserciti alleati. Qui la Storia torna sempre. Sulla verticale tra Sedan e Verdun la campagna meravigliosa è una pagina aperta su secoli di cicatrici. Qui Belgio e Francia si fondono, si respingono, si distinguono e si somigliano: dipende dal villaggio, dipende dal chilometro. Questo Paese è così: si può anche discutere fra huitante e quatre-vingt… perché siamo nel cuore del continente più intelligente, siamo in Europa.

Non deve essere un caso che le sedi del Consiglio e della Commissione europea siano proprio a Bruxelles, la capitale bilingue di una nazione che si ricorda a tratti. Non deve essere un caso nemmeno che a Bruxelles, in boulevard Leopoldo III, ci sia la sede della NATO, che i valloni ci tengono a  chiamare OTAN, come i francesi. In fondo il Belgio è Paese fondatore di entrambi: Unione Europea e Alleanza Atlantica.

Guardandoli dal Belgio i numeri dicono tante cose: 28 membri la NATO, 28 membri la UE. Sono solo 6 i Paesi dell’Alleanza che non fanno parte dell’Unione: Canada e Stati Uniti per geografia; Norvegia e Islanda per scelta; Turchia e Albania in lista di attesa. E sempre 6 le nazioni dell’Unione che non stanno nella NATO: tolte le neutrali Svezia e Austria e la Finlandia già corteggiata (vedi articolo), Irlanda, Cipro e Malta non sembrano in grado di cambiare il pianeta…

C’è un legame tra il torpore di questo Paese, il nulla dell’Europa e le coincidenze numeriche?

Possiamo dire che qui si decidono molte cose che succederanno nel mondo, ma nessuno di quelli che incontriamo contribuisce a prenderle. La vocazione del Belgio in realtà è proprio questa: stare al centro di tutto, senza contare più di tanto. Sarà la dimensione, saranno i Paesi vicini, o forse saranno quelli lontani, chissà…

Basta guardare lo strumento militare per farsi un’idea. Il Belgio vanta una grande tradizione e uno standard qualitativo di eccellenza, ma ci si interroga sulla mission dei suoi apparati: fatta eccezione per il Partenariat Militaire con la Repubblica Democratica del Congo legato a ragioni storiche e una partecipazione in Mali, il Belgio ha agito e agisce in quadri assolutamente alieni dalla propria geopolitica naturale. Ci si chiede se ad esempio le missioni in Afghanistan, Iraq, Estonia e l’Operazione Desert Falcon contro lo Stato Islamico (dopo gli attentati a Bruxelles ne è stato annunciato il rilancio con l’invio di altri F-16) rientrino in una logica essenziale per i propri interessi. Dopo gli attentati di Bruxelles e la scoperta della ramificazione interna del terrorismo islamista la domanda ha ancora più senso.

La riflessione è necessaria. La politica estera degli europei deve prescindere dalla propria nazionalità? Il ritornello che da soli si conta poco vale fino a un certo punto, soprattutto se un’identità europea pronta a sostituire quella dei singoli Stati non è mai nata. C’è da scommettere che se ci fosse ancora una cultura della sovranità e non avessimo demonizzato l’idea di difesa e d’interesse nazionale, molti Paesi europei peserebbero ancora più di tante cosiddette potenze emergenti: per budget, per expertise, per capacità.

Ma un Paese dove anche la polizia mostra caratteri bilingui, costretto a mobilitare soldati per missioni lontane e a lasciare al tempo stesso intere aree del suo territorio fuori dalla legalità, può dirsi ancora sovrano?

Gli scenari geopolitici cambiano nei decenni così come il modo di gestirli, ma ci si chiede cosa rimanga di una nazione se non è in grado di sopravvivere secondo scelte autonome.

Andando via attraverso le colline verdi dell’Hainaut vorremmo dire “à bientôt Belgique”…. oppure “toet ziens wi!”…ma dipende dall’interlocutore.

Le riflessioni sul Belgio con toni e sfumature distinte valgono per noi e per tutti gli altri in Europa. Le colonne che ci hanno formati sono appese a un filo tenue, etero diretto e sempre meno visibile agli occhi di una coscienza ormai sul punto di estinguersi.

(Foto: Armée belge)