Uno sguardo all’Africa sub-sahariana

(di Renato Scarfi)
07/12/20

L’Africa è un continente estremamente complesso nel quale, con il passare del tempo, ai problemi antichi si sono sovrapposti quelli lasciati dalla fine del colonialismo e dal processo d’indipendenza che, spesso, ha avuto andamenti innaturali, specie nella creazione di confini in molti casi artificiali. Molti problemi, infatti, sono stati originati dai criteri costitutivi delle nuove entità statali, con frontiere disegnate dalle potenze coloniali con regole assolutamente estranee alle realtà locali, portando etnie diverse e sovente rivali a convivere all’interno di uno Stato. Ciò ha provocato inizialmente una serie di conflitti armati inter-statali per poi assumere una connotazione quasi esclusivamente nazionale e inter-etnica o confessionale all’interno dei singoli Paesi, concretizzatisi spesso in interminabili conflitti tribali, nei quali ancora oggi vengono impiegati anche i cosiddetti bambini soldato, reclutati forzosamente dai signori della guerra locali per essere impiegati come combattenti. Conflitti interni limitati geograficamente, ma che hanno talvolta avuto conseguenze a livello regionale.

Più raramente altri conflitti armati, come l’avventato e incauto intervento libico, hanno causato significative ricadute geopolitiche che dal continente si sono estese in tutta l’area del Mediterraneo e del Medio Oriente.

Quando si parla di Africa, comunque, bisogna distinguere a quale Africa ci riferiamo. Si tratta infatti, di un continente troppo vasto, variegato e complesso, con una realtà estremamente diversificata per pensare di poterla strizzare in un’unica narrativa.

È un continente nel quale le situazioni estreme convivono con un'ampia gamma di gradazioni intermedie, diviso di fatto in due entità distinte. L’Africa settentrionale, che va dal Marocco all’Egitto, è infatti profondamente diversa dall’Africa sub–sahariana. La prima, per esempio, è intimamente legata all’Europa da oltre duemila anni di storia mentre la seconda lo è da soli due secoli, contrassegnati prima dalle grandi esplorazioni geografiche e poi dal colonialismo. La stessa area ha anche conosciuto un tremendo rapporto conflittuale con l’America, rappresentato dalla tratta degli schiavi. È probabilmente per queste profonde differenze che, mentre molto si dice e si scrive sull’Africa mediterranea, a noi geograficamente più vicina, poco si legge sulla parte di continente che si trova più a sud, oltre il deserto del Sahara.

Tuttavia, vale la pena di dare uno sguardo a questo continente quasi sconosciuto ai più, che rappresenta il 17,85% delle terre emerse abitate (2,5 volte l’Europa) e oggi ospita il 13,85% della popolazione mondiale1.

L’Africa sub-sahariana è infatti un continente difficile, alle prese con spaventosi problemi sociali, economici, politici e infrastrutturali. Le orribili violenze perpetrate da Boko Haram in Nigeria e nei Paesi limitrofi, l’emergenza rappresentata dai focolai di estremismo religioso che si richiama a una lettura intransigente del Corano, le guerre civili che hanno sanguinosamente coinvolto alcuni Paesi (Congo, Sud Sudan, Mali, Corno d’Africa, ecc…) dimostrano in maniera impietosa le enormi fragilità di questo continente.

Fra tutti i continenti del mondo, l’Africa sub-sahariana è quella che maggiormente è rimasta indietro in termini di generale progresso, crescita e sviluppo dell’economia, miglioramento della qualità della vita della popolazione ed evoluzione della società civile, sotto i vari aspetti della diffusione dell’istruzione, dell’avanzamento della condizione della donna, della lotta contro la povertà, la fame, le malattie.

Nonostante alcuni progressi, ancora oggi circa cinquanta milioni di bambini e di adolescenti non riescono a frequentare la scuola. Anche tra gli scolarizzati il livello d’istruzione è mediamente più basso che nelle altre aree del pianeta, soprattutto per quanto riguarda l’istruzione superiore. Il settore della sanità, infine, è spesso inadeguato e impotente di fronte alle ricorrenti, gravissime epidemie e la mortalità infantile, pur in calo, è ancora estremamente elevata. Per effetto delle sue realtà locali e delle sue contradizioni regionali ne deriva la sua caratteristica principale: la frammentazione.

Situazione economica

Quarantanove Paesi, di cui solo pochi hanno le condizioni per sviluppare una struttura e un’economia veramente solide. Nella maggior parte l’economia è ancora per circa il 60% dipendente dall’agricoltura, ma le rese sono mediamente più basse, pari a circa un terzo/un quarto di quelle che si registrano in Asia. Dalla fine della colonizzazione a oggi, esistono ancora zone di grave arretratezza economica e sociale. Un abitante su tre, per esempio, non ha libero accesso all’acqua e milioni di persone vivono ancora in condizioni di estrema indigenza. Il livello del reddito pro-capite è variegato ma generalmente basso, arrivando sotto il livello della povertà (meno di 2 dollari al giorno) nel Sahel.

La distribuzione delle risorse è estremamente problematica. Si calcola, infatti, che soli 100.000 africani, sull’attuale popolazione complessiva di circa un miliardo e centomila, detengano il 60% della ricchezza dell’intero continente.

Ulteriori limiti allo sviluppo sono rappresentati dalla scarsità di infrastrutture, con l’eccezione di quelle relative alla telefonia mobile, che è diffusissima.

Rispetto alle condizioni esistenti alla fine del periodo coloniale, si è mediamente verificato uno sviluppo del 5%, con punte superiori anche al 12%. Ciò in passato ha fatto gridare (in maniera affrettata) a un “rinascimento africano”, facendo coniare l’espressione “leoni d’Africa”, per raccontare le eccezionali prestazioni macroeconomiche di alcuni Paesi del continente nell’ultimo decennio, adattando il racconto delle “tigri asiatiche” degli Anni '90. L’economia dell’area, tuttavia, non è ancora al passo con quella globale e il PIL complessivo non incide in maniera significativa su quello mondiale (2,8%), tant’è che tutti i Paesi dell’Africa sub-sahariana nel 2019 hanno registrato un PIL (2.434 miliardi di USD) inferiore a quello della Francia (2.716 miliardi di USD)2. La crescita, inoltre, è stata soprattutto indotta dalle esportazioni di materie prime, ed è quindi molto esposta alle variazioni dei prezzi di queste ultime e alle vicissitudini dei mercati di sbocco.

Un ulteriore impedimento al progresso economico è rappresentato dal fatto che molti Paesi sono privi di accesso al mare. Tale situazione, visto lo stato delle vie di comunicazione e i rapporti spesso ostili che regnano fra uno Stato e l’altro, rappresenta spesso un ostacolo quasi insormontabile.

L’Unione Africana, organizzazione che unisce sotto il suo ombrello tutti i Paesi africani, ha fatto e fa quello che può per dirimere le controversie, ma risente di una fragilità strutturale che non le consente di contribuire in maniera decisiva allo sviluppo di tutte le potenzialità che il continente presenta.

Il problema demografico

Anche se la speranza di vita ruota in media intorno ai 40 anni, il problema che ha le maggiori implicazioni economiche e sociali, anche al di fuori del continente, è l'incontrollato aumento della popolazione. L'Africa sub-sahariana (la cui popolazione dovrebbe arrivare a oltre 1,5 miliardi entro il 2050) infatti registra, e continuerà a registrare nei prossimi anni, il più alto incremento demografico e il più alto tasso di natalità del mondo. È significativo che tra i nove Paesi dove si registrerà il 50% dell’aumento della popolazione mondiale, quattro fanno parte dell’Africa sub-sahariana (Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Etiopia e Tanzania)3. Significa che nel 2050 il 20% della popolazione mondiale sarà di origine africana.

Paradossalmente, il forte incremento del fattore demografico è anche in parte conseguenza del relativo miglioramento delle condizioni di vita registrato negli ultimi venti anni, ma esso sta avendo effetti devastanti riducendo, se non annullando gli effetti positivi della crescita economica, laddove si verifica. In questo modo aumentano le sacche di povertà e le già rilevanti differenziazioni sociali. Con l’aumento demografico, inoltre, aumentano vertiginosamente l’urbanizzazione, la disoccupazione (soprattutto giovanile) o l’occupazione precaria giornaliera senza contratto. Con la forte disoccupazione (o sotto-occupazione) aumentano in maniera significativa i flussi migratori verso i Paesi percepiti come una salvezza e aumentano l’instabilità e la vocazione giovanile verso violenza, criminalità e terrorismo.

I problemi della sicurezza

Il quadro si è ulteriormente complicato con l’emergere di fenomeni di radicamento identitario molto forti e con l’importazione di comportamenti e di ideologie dall’universo radicale mediorientale e del Golfo, che sono sfociati in sanguinose azioni violente e che stanno portando alla paralisi le strutture più fragili di alcuni Stati. In tale contesto, la situazione del Sahel è particolarmente grave e, al momento, non ci sono purtroppo elementi per far sperare nel breve termine in una riduzione del fenomeno. Emerge poi l’incombente minaccia di Boko Haram che, nel continente, ha ormai assunto una dimensione transnazionale.

Il terrorismo di matrice islamica rappresenta per certi versi l’aspetto più preoccupante. Intanto, essendo su base religiosa, invece che arruolare piccoli gruppi su base locale o etnica è potenzialmente in grado di mobilitare molti più fanatici sotto una comune identità “islamica”. In secondo luogo, il crollo della Libia di Gheddafi prima, e la fine dell’ISIS in Siraq poi, hanno contribuito ad espandere come una metastasi le cellule terroristiche nell’area del Sahel, dove ai preesistenti gruppi di Al Qaeda si sono aggiunti gruppi affiliati allo Stato Islamico, spesso generati da ex-combattenti dell’ISIS. Non va dimenticato che il terrorismo è un potente freno allo sviluppo, in quanto nessuno investe dove c’è un elevato rischio di attentati/rapimenti/omicidi. I gruppi principali sono il già citato Boko Haram (presente principalmente nel nord-est della Nigeria e nel Camerun settentrionale) e Al-Shabaab, che imperversa ormai da tempo in Somalia e nel Kenya settentrionale. Per quanto riguarda il solo Boko Haram, si é calcolato che questo gruppo terroristico avrebbe causato finora oltre 35.000 vittime e costretto circa 2.000.000 persone a spostarsi dalle aree originarie4. Nel più ampio quadro regionale, tuttavia, desta preoccupazione il fatto che il terrorismo di matrice islamica non è confinato ai Paesi sopra indicati ma, seppure con minore intensità, ha ramificazioni anche altrove (Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Repubblica Centroafricana, Etiopia, Mozambico, Camerun).

A ciò si aggiungono le controversie nel Corno d’Africa. Il rilievo strategico di quest’area, collegata al Medio Oriente e alla fascia saheliana di cui fa parzialmente parte, è evidente se si considera che controlla, sul lato che si affaccia al mare, tutto il traffico mercantile marittimo proveniente dall’Estremo Oriente e dal Golfo Persico. Alla fine dell'ottocento, il concetto geostrategico che ha condotto l’Italia a organizzare la penetrazione coloniale in Eritrea (unendosi alla generalizzata gara colonialista degli altri Paesi europei), era che le chiavi del Mediterraneo fossero nel Mar Rosso. Un concetto che riesce sinteticamente a esprimere l’importanza che ha contraddistinto quest’area, in particolare dopo l’apertura del Canale di Suez, il 17 novembre 1869. Non è un caso se ancora oggi le grandi potenze, in un modo o nell’altro, cercano una base o un porto di appoggio nel Corno d’Africa o nelle aree limitrofe (Gibuti).

L’instabilità dell’area è oggi evidenziata dal conflitto etiopico tra il Governo legittimo e i combattenti della regione del Tigrai, ribellatisi al Governo centrale perché emarginati dalla vita politica del Paese. Un conflitto che i ribelli stanno cercando di regionalizzare e al tempo stesso internazionalizzare. A peggiorare le cose si aggiunge una situazione umanitaria locale già molto delicata, perché in quella regione vivono circa 600mila persone che hanno bisogno di aiuti umanitari e un altro milione che dipende da altre fonti di sostegno internazionale.

A minacciare ulteriormente la già fragile area sub-sahariana, sta ultimamente riprendendo calore un confronto ai suoi confini nord-occidentali, tra il Marocco e il Fronte Polisario, braccio armato della RASD, l’autoproclamata Repubblica Araba Democratica Saharaoui. Un risveglio che non fa ben sperare. Una nuova area di crisi che si potrebbe riattivare dopo decenni di relativo sonno.

Una fragilità complessiva, quella dei Paesi sub-sahariani, in cui esiste il concreto pericolo che i conflitti armati locali facciano collassare le principali strutture statali (istruzione, giustizia, sicurezza). Ciò permetterebbe ai jihadisti di sostituire gli iniziali oppositori politici, aggravando la situazione e inasprendo il livello di violenza dei gruppi separatisti, che riuscirebbero così a condurre impunemente anche traffici di ogni genere. A fianco dei jihadisti militanti, infatti, sorgono spesso altre milizie combattenti, che fanno da catalizzatore per molti giovani disperati. Sotto questo punto di vista la storia recente del Mali è emblematica delle dinamiche spesso presenti in alcune aree sub-sahariane.

Le cause di conflitto armato sono, quindi, prevalentemente endogene e imputabili a frammentazioni etniche, a differenze confessionali e a confini non realistici. La violenza e l'insicurezza, pertanto, alimentano un fuoco che investe tutta la regione sahelica del continente, coinvolgendo altresì buona parte degli Stati del Golfo di Guinea. Tutto ciò non fa altro che contribuire ad accrescere la pressione migratoria verso quelle aree che appaiono offrire una vita migliore, Europa in primis. Altrove la situazione appare in via di miglioramento, fatta eccezione per il Kenia, ma considerate le passate improvvise esplosioni dell’instabilità congolese, per esempio, dobbiamo veramente interrogarci sulla possibile durata dell'attuale momento di relativa calma.

In tale quadro, lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) ci dice che le spese per il materiale d’armamento nel 2019 sono state di circa 17,7 miliardi di dollari per l’intera area sub-sahariana, e vedono ai primi quattro posti il Sud Africa (3,465), la Nigeria (1,860), l’Angola (1,471) e il Kenya (1,148). Seguono altri sette Paesi (Sudan, Tanzania, Uganda, Zimbabwe, Botswana, Costa d’Avorio e Etiopia) con un impegno che va dai 500 ai 700 milioni di dollari. Ma il mercato non riguarda solo denaro contro armi. Nel 2009, per esempio, la Cina importava platino e minerali di ferro dallo Zimbabwe in cambio di armi e dispositivi elettronici, di cui Mugabe si serviva per tenere a bada l’opposizione. Purtroppo il flusso delle armi nell’Africa sub-sahariana è ancora oggi poco chiaro o addirittura invisibile, tant’è che alcuni dati disponibili non sono certi e alcune cifre del citato rapporto del SIPRI sono riportate in rosso, ovvero sono cifre stimate.

Per meglio comprendere come esista un enorme flusso sotterraneo di denaro, che può essere “tranquillamente” utilizzato per l’acquisto anonimo di armi, basti pensare che la maggior parte della cocaina destinata in Europa e prodotta in Colombia, in Perù e in Bolivia passa attraverso l’Africa occidentale, dove viene stoccata a tonnellate prima del trasferimento nel Vecchio Continente.

La presenza straniera

Per tutto un complesso di motivi, gli Stati Uniti non hanno svolto in Africa una politica ad ampio respiro di tipo continentale, limitandosi a rapporti bilaterali più attenti ad affinità e interessi contingenti. La credibilità statunitense in Africa ha subìto, inoltre, un duro colpo dopo la pubblicazione di alcuni documenti che dimostravano come gli USA negli anni novanta avessero convinto il Belgio a ritirare le proprie truppe ONU dal Rwanda, per non venire coinvolti nella spirale di violenza che stava avendo luogo5. Ciò, secondo alcuni osservatori, avrebbe aggravato la crisi tra Hutu e Tutsi, che andò rapidamente fuori controllo e produsse più di un milione di morti e circa quattro milioni di sfollati.

La politica di sostanziale disimpegno, applicata anche su questo continente, non ha tuttavia impedito agli americani di contrastare con forza le azioni del citato gruppo Al-Shabaab.

Poi ci sono le potenze asiatiche: Cina, Corea del Sud, Giappone e India. Tutte alla famelica ricerca di energia, materie prime, prodotti alimentari e mercati di sbocco per le proprie merci. Tra tutti emerge la Cina con le sue enormi esigenze, per il soddisfacimento delle quali offre in cambio beni, lavoratori, tecnologia e capitali. Allo scopo di diversificare quanto più possibile le fonti di approvvigionamento e assicurarsi la continuità delle forniture, Pechino applica un approccio estremamente dinamico e variegato, con una presenza sempre più diffusa e capillare sotto le varie forme di cooperazione alla realizzazione di progetti, di scambi commerciali, di investimenti diretti e di joint venture. Anche se non sempre il rapporto con i cinesi è facile (solitamente essi non si integrano e la convivenza con le comunità locali ne risente), l’afflusso di capitali e tecnologia cinese dovrebbe costituire un potente stimolo alla crescita. Non a caso al Vertice Cina-Africa del 2006 hanno partecipato tutti i principali leader africani.

Gli investimenti cinesi nell’Africa sub-sahariana si concretizzano con la costruzione di infrastrutture (ferrovie, strade, scuole, ospedali, impianti per l’estrazione del petrolio), con il sostegno di programmi nel campo della sanità, della protezione civile, dello sviluppo agricolo, con l’appoggio a fondi per i programmi di assistenza alimentare, con il finanziamento di programmi di formazione professionale e con il contributo a borse di studio nei confronti di studenti africani (oggi gli studenti africani che studiano in Cina sono più di quelli che studiano in Gran Bretagna o negli USA). In cambio la Cina chiede terre per lo sfruttamento agricolo (la Cina ha il 20% della popolazione del mondo e solo il 7% delle terre coltivabili), materie prime e petrolio per la propria industria. In questo modo la Cina offre investimenti e possibilità di crescita ma, soprattutto, offre una partnership politica di lungo periodo alternativa agli Stati Uniti, alla Russia o all’Unione Europea, quest’ultima sempre più balbuziente in politica estera.

Tuttavia, c’è anche chi stigmatizza lo spregiudicato approccio cinese in tema di investimenti nella regione, osservando che vengono privilegiati i Paesi che hanno le peggiori pratiche imprenditoriali o che presentano elevata corruzione o che hanno problemi sul tema dei diritti civili. Tale approccio avrebbe “…portato a un esacerbarsi del debito e a ben poche opportunità di lavoro, se mai ne esistono, nella maggior parte dei Paesi…”6. Non solo, alcuni osservatori contestano anche un forte squilibrio nei rapporti fra le parti, nel senso che i vantaggi della cooperazione sembrano notevolmente sbilanciati a favore di Pechino. Ciò fa temere che, attraverso il rafforzamento della sua presenza nell’economia, la Cina miri a esercitare un futuro controllo anche sulle politiche interne ed estere dei singoli Stati.

E poi ci sono alcuni Stati arabi, che cercano opportunità di investimento e prodotti agricoli, come gli Emirati Arabi Uniti e alcuni altri Stati del Golfo.

Ci sono infine i paesi industrializzati, Europa compresa, che da un lato donano moltissimo e dall’altro tendono a utilizzare la regione come serbatoio di materie prime o la invadono di prodotti a basso costo, sostanzialmente impedendo la nascita di complessi industriali autoctoni. Va, inoltre, segnalata la permanente presenza di navi militari europee nelle acque prospicenti il continente. Una presenza essenziale per contrastare la pirateria, una piaga che rappresenta una continua minaccia sia per i mercantili diretti verso i porti africani che per le navi di passaggio. In particolare, le aree marittime più soggette agli attacchi dei pirati sono quelle attorno al Corno d’Africa e quelle litoranee del Golfo di Guinea. In ognuna sono presenti unità inserite in dispositivi multinazionali (l’Italia partecipa con due fregate), che hanno lo scopo di impedire gli attacchi ai mercantili, salvaguardando la libertà di navigazione e la continuità delle linee di comunicazione marittime.

Infine, in un quadro instabile come quello africano, la presenza e l’azione delle Nazioni Unite è stata preziosa in tanti piccoli conflitti, ma priva di un respiro e una visione realmente continentale. Tuttavia, pur con tutti i limiti (anche gravi) emersi nel corso della sua storia e anche se è evidente che sullo scacchiere africano potrebbe fare molto di più, l’ONU appare ancora essere lo strumento internazionale più idoneo a dare le risposte che il continente si attende.

Conclusioni

Al termine di questa rapida carrellata africana rimane una domanda. Qual è la migliore rappresentazione dell’Africa? Quella che disegna l'Africa come un continente di guerre, malattie, povertà, fame e calamità naturali o è quella di un continente in rapida evoluzione?

La risposta che ci possiamo dare è semplicemente che sono entrambe interpretazioni corrette, e rappresentano fedelmente il quadro complesso e variegato della realtà africana.

Da un lato permangono criticità come la fragilità istituzionale di molti Paesi, i problemi di governance, i cruenti conflitti interni, le carenze nelle infrastrutture e nei servizi sociali, i forti squilibri nella distribuzione del reddito, la diffusa povertà, l’eccessiva dipendenza dall'esportazione delle materie prime, la sanguinosa diffusione del terrorismo di matrice confessionale.

Dall’altro abbiamo la presenza di aree che invece presentano una relativa stabilità politica, un'assenza di conflitti interni, una quasi assenza di gruppi terroristi e una crescita economica che migliora in maniera significativa le condizioni di vita della popolazione.

Al momento, quindi, l’Africa sub-sahariana non sembra manifestare elementi che possano essere considerati come una minaccia diretta alla sicurezza e alla stabilità globale.

Appare invece necessario considerare con attenzione il crescente interesse e penetrazione economica della Cina nel continente, un fenomeno al quale l’Unione Europea non può restare indifferente. Si tratta, infatti, di un’area la cui vicinanza geografica ne accresce notevolmente l’importanza politica, militare e sociale. Il fenomeno migratorio è in grado, come ben sappiamo, di scatenare anche in Europa dinamiche gravemente destabilizzanti sotto il profilo sociale e di chiamare anche il settore militare navale a svolgere un ulteriore gravoso e delicato impegno, che si aggiunge al contrasto alla pirateria e alle altre missioni di tutela degli interessi nazionali sul mare, ovunque essi siano.

Sarebbe opportuno che su questo venisse effettuata una profonda riflessione.

1 Nazioni Unite, World Population Prospects 2019

2 Fonte: www.tradingeconomics.com

3 Gli altri paesi sono India, Pakistan, Indonesia, Egitto e Stati Uniti (fonte: Nazioni Unite)

4 Edward Kallon, coordinatore umanitario delle Nazioni Unite in Nigeria (Maiduguri, 7 novembre 2020)

5 Peter Frankopan, Le nuove vie della seta, Ed. Mondadori, 2019

6 Peter Frankopan, Le nuove vie della seta, Ed. Mondadori, 2019

Foto: U.S. DoD / web / U.S. Air Force / MoD People's Republic of China