Sudan o "la tempesta perfetta"

(di Enrico Magnani)
24/04/23

La crisi dei due signori della guerra sudanesi, il comandante in capo (e capo di stato di fatto) delle SAF (Sudanese Armed Forces) generale Abdel Fattah Al-Burhan e il comandante delle RSF (Rapid Support Forces, gli eredi organizzati e uniformati delle feroci milizie Janjaweed, che per anni hanno martirizzato le popolazioni del Darfur, colpevoli di solo difendere i loro pascoli dalla penetrazione degli agricoltori arabi) Mohamed Hamdan Dagalo detto ‘Hemeti’ ha riportato l’attenzione della comunità internazionale, distratta dalle crisi dell’Ucraina e quella potenziale con Taiwan.

La violenza degli scontri, iniziati nella capitale Karthoum e poi ampliati ad altre regioni, oltre a causare danni estesissimi, diverse centinaia di morti e migliaia di profughi, ha bloccato diverse migliaia di stranieri, a cominciare da quasi 20.000 statunitensi (in realtà moltissimi sudanesi con doppia cittadinanza) e diverse centinaia tra britannici, francesi, italiani, giapponesi e di decine altre nazionalità (questo senza contare il migliaio di dipendenti internazionali del sistema delle Nazioni Unite, e il personale locale [e le loro famiglie dirette si arriva solo per questa ultima categoria a oltre 15.000 persone]).

La dimensione numerica delle persone che dovranno essere interessate all’evacuazione, che dovrà avere luogo anche nel caso di una tregua, visto che i servizi essenziali sono collassati, è una sfida ulteriore a una situazione complessa, con delle ragioni antiche e più recenti e con prospettive inquietanti.

Le prime evacuazioni sono iniziate, precedute e accompagnate da una frenetica serie di contatti tra cancellerie e forze armate di decine di nazioni e UE, NATO, Unione Africana. Queste proseguiranno appoggiandosi in gran parte a Gibuti, vero snodo operativo e logistico della regione, che ospita diverse basi militari straniere, tra esse anche l’Italia.

Le ragioni che hanno portato il Sudan (o quel che ne resta) alla crisi attuale

Il Sudan, dopo un fittizio condominio angloegiziano (in realtà solo dominio britannico, mentre l’attuale Sud Sudan dipendeva dall'amministrazione coloniale inglese dell’Uganda) in essere dal 1899 al 1957, diventa indipendente.

Dopo una breve transizione inizia una serie infinita di colpi di stato, guerre civili e crisi economiche (aggravate spesso dalla siccità) riproponendo in varie forme il tragico dualismo che divide quella nazione: settentrione e meridione, arabi e neri, musulmani e non, chi vive intorno al Nilo e chi nelle zone aride, agricoltori e pastori.

La nascita del Sud Sudan, apparentemente ha tolto una ragione importante della instabilità ma altre ne sono emerse (o riemerse, come il Darfur, con una inenarrabile eredità di violenze) a cui ovviamente non potevano mancare intromissioni straniere.

Per anni il Sudan, oltre a essere governato da regimi deprecabili, è stato il rifugio di importanti delle reti del terrorismo islamico globale, ispirati e protetti da Hassan Al Turabi, un sinistro intellettuale di grande influenza per il presidente Al Bashir, al potere dal 1989. La vicinanza all’Arabia Saudita, protégé degli USA, ha permesso a Karthoum di uscire relativamente indenne dalla guerra mondiale al terrorismo lanciata da Washington e Al Bashir si è sdebitato con Riyadh inviando migliaia di soldati regolari e militi delle RSF nella fallimentare campagna contro gli Houti yemeniti nel 2015 (appoggiati dall’Iran), pomposamente chiamata ‘Decisive Storm’.

Anche il Sudan ha visto una ‘primavera araba’ di ritorno nel 2018 e l’anno successivo Al Bashir viene deposto da un colpo di stato e un governo di transizione si installa e promette la democratizzazione del paese e l’installazione di una guida civile. In realtà dopo pochi mesi, il potere reale finisce (in realtà non se ne era mai allontanato) a una diarchia, dove il generale Al-Burhan era di fatto il capo di stato e Hemeti il numero due. Questa strana coppia ha gestito il Sudan facendo anche importanti concessioni sia a Washington, aderendo agli Accordi di Abramo e riconoscendo Israele nel 2022 (il Sudan per anni ha fatto parte del cosiddetto ‘fronte del rifiuto’ e ospitando molti leader palestinesi) ma allo stesso tempo strizzando l’occhio a Mosca e Pechino.

Port Sudan o un coltello alla giugulare delle rotte del Mar Rosso

I timori sul Sudan si ampliano, a prescindere dal vincitore della tenzone in essere, in merito alle conseguenze che potrebbe avere sulla stabilità regionale e intromissioni di influenze straniere.

Dopo la visita di Sergey Lavrov in Sudan agli inizi di febbraio nel quadro di un tour che ha portato il ministro degli esteri russo anche in Sud Africa e questa è stata la sua seconda visita in Africa (nel 2022 Lavrov aveva visitato Egitto, Congo-Brazzaville, Etiopia e Uganda), Mosca e Khartoum hanno finalizzato i termini di un accordo sulla creazione di un centro logistico per la Marina russa in Sudan. La notizia è stata confermata durante una conferenza stampa congiunta tra Lavrov e il suo omologo sudanese Ali al-Sadiq Ali.

Lavrov aveva precedentemente incontrato Al-Burhan e Dagalo e promesso di sostenere gli sforzi del Sudan per revocare l'embargo sulle armi da parte delle Nazioni Unite, ancora in essere dal 2004, per il Darfur. Inoltre Mosca avrebbe fornito armi al Sudan in cambio dell’uso di una base per la Marina russa nel Mar Rosso, riaprendo un negoziato in essere dal 2019, quando i due paesi avevano firmato un accordo che avrebbe garantito di istituire una base navale, ospitando fino a un massimo di 300 militari russi e fino a quattro navi della marina, comprese quelle a propulsione nucleare, nello strategico sito di Port Sudan.

L’accordo è stato reso pubblico nel 2021, dall’allora capo di stato maggiore sudanese, il generale Mohammed Othman al-Hussein, che tuttavia indicò che Khartoum avrebbe rivisto l'accordo in quanto firmato sotto l'ex governo di salvezza nazionale e ne avrebbe negoziato una revisione (forse per prendere tempo e alzare il prezzo e vedere le offerte alternative).

Il Sudan è senza parlamento dal 2019 ed era prevista l'approvazione parlamentare per ratificare l'accordo sulla base navale e l’ostilità verso un parlamento libero e indipendente sembra essere l’unica cosa che unisce i due contendenti attuali.

Appare chiaro che questa base rappresenterebbe una seria minaccia al traffico commerciale del Mar Rosso e tra l’altro la base garantirebbe una presenza permanente della marina russa nel Mar Rosso, e prossima all'Oceano Indiano, e la nuova base farebbe il paio con quella di Tartus in Siria e espanderebbe la proiezione di potenza russa in quelle due sub regioni (quelle che la Russia cerca in Egitto, Libia e Algeria sembra siano in stallo).

È interessante notare che Dagalo ha visitato la Russia il giorno prima dell'invasione dell'Ucraina del 24 febbraio 2022 e ha espresso disponibilità a ospitare una base russa. Tuttavia, non si può escludere che anche nel caso di una vittoria di Al-Burhan, l’accordo con Mosca diventi una realtà (e tutte le conseguenze del caso).

Ampliando lo sguardo all’azione russa in Africa si deve ricordare che personale regolare russo (e della Wagner) è presente in Libia, Mali, Centrafrica, e vi sono forti sospetti che lo siano anche in Burkina Faso, Guinea e (persino) Chad, l’ultimo vero bastione francese in Africa. Ma che Port Sudan fosse il valore strategico aggiunto per Karthoum, oltre a osservare la sua posizione geografica, basta ricordare che tra il 2012 e il 2015 l’Iran fosse arrivato vicinissimo ad ottenere quello che i russi stanno chiedendo oggi, cioè una base navale. L’iniziativa non venne finalizzata per la durissima posizione dell’Egitto che minacciò un’azione militare.

Lavrov nel corso dei suoi incontri aveva inoltre promesso un'ulteriore cooperazione economica tra Russia e Sudan, probabilmente attraverso il gruppo Wagner, legato al Cremlino, con un accesso privilegiato alla redditizia industria mineraria dell'oro del Sudan. Gli altri grossi operatori minerari auriferi in Sudan sono la compagnia marocchina Managem (accreditata essere di proprietà della famiglia reale) e quella cinese Wanbao. Dopo la separazione del Sud Sudan e in attesa della aggiudicazione della strategica zona di Abiey, al Sudan, praticamente persi gli idrocarburi, resta solo l’oro come fonte di materie prime di valore per i mercati internazionali e la Wagner conferma essere un conglomerato economico-militare, un potere parallelo, a volte critico verso Mosca, visto che si occupa anche largamente di sfruttamento di risorse minerarie, come già in Mali e Centrafrica.

Il primo cerchio

Il Sudan è al centro di crisi di lunga durata. È caratterizzato da frequenti conflitti armati e Egitto, Libia, Chad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea o — guardando oltre il Mar Rosso — l'Arabia Saudita, UAE (senza contare il secondo cerchio, EU, NATO, USA, Israele, Turchia e Cina) ne risentono. Il Sud Sudan, il Chad e l'Egitto dipendono tutti dalla stabilità del vicino Sudan, che sia per motivi economici, umanitari o di sicurezza.

Tutti questi paesi dipendono dalle buone relazioni con il Sudan, ma tra questi, spicca il Sud Sudan, che ha dichiarato l'indipendenza dal Sudan nel 2011, dopo una ferocissima guerra civile (in due fasi, 1955-1972 e 1983-2005). Da allora, diversi gruppi etnici si sono dati battaglia per il potere, scatenando una guerra civile nel giovane stato nel 2013. che ha provocato centinaia di migliaia di morti. Dei circa 11 milioni di sud sudanesi, diversi milioni sono stati sfollati interni o sono fuggiti nei paesi vicini.

La guerra è ufficialmente finita dal 2020, ma la pace è fragile e scontri tribali, anche violentissimi, sono assai frequenti e la missione di stabilizzazione dell’ONU, l’UNMISS è un testimone impotente (nel 2016 l'Unione Africana - UA - ha annunciato che la forza di mantenimento della pace con truppe provenienti da Etiopia, Kenya, Uganda, Ruanda e... Sudan! Tutti questi paesi, ad eccezione del Ruanda, sono membri dell'Autorità intergovernativa per lo sviluppo - IGAD -, una organizzazione regionale dell'Africa Orientale; come molte iniziative dell’UA questa è rimasta sulla carta).

Il Sud Sudan fa affidamento sulla valuta estera delle vendite di petrolio greggio, che rappresenta circa il 95% delle entrate pubbliche; quindi Karthoum è fondamentale per Giuba, che non ha sbocchi al mare per queste esportazioni, poiché l'oleodotto attraversa il Sudan fino al Mar Rosso. Il governo del Sud Sudan ha quindi un forte interesse a garantire che questa connessione rimanga in vigore, e questo fa comprendere le ragioni retrostanti, oltre il ‘buon vicinato’, dell’offerta di mediazione del presidente Salva Kiir. Ma lo stesso governo di Giuba, già diviso tra fazioni tribali, è in disaccordo, e lo stesso comandante degli ex Janjaweed ha precedentemente agito da mediatore nelle ripetute crisi sud sudanesi e in qualche modo anche le parti sud sudanesi stanno cercando di prendere posizione rispetto al conflitto nel nord, con il rischio di riaccendere crisi maggiori anche in Sud Sudan e riaccendere la disputa sulla sovranità della contesa area di Abiey, neutralizzata e presidiata da una altra forza di pace dell’ONU, l’UNISFA1.

Abiey è ricca di idrocarburi e l’aggiudicazione di essa a Giuba ne aumenterebbe la ricchezza, mentre toglierebbe al Sudan le ultime possibili occasioni di diventare un produttore, ma allo stesso tempo obbligherebbe il Sud Sudan a una maggiore dipendenza dalla situazione (e mutevoli leadership) di Karthoum, a meno che voglia dotarsi di una rete di oleodotti che lo colleghino con i porti del Kenya.

L’Est difficile

Dopo lo scoppio delle ostilità, l'esercito del Chad ha riferito che lunedì ha disarmato 320 combattenti delle RSF che hanno attraversato il confine. Ma sono soprattutto i civili che ora fuggono. I rifugiati provenienti da aree contese tra le forze regolari e le RSF nel Darfur sono già arrivati in Chad. E questo nonostante sia stato chiuso il confine di 1.500 chilometri con il Sudan. Il Paese sta già ospitando più di 500.000 rifugiati sudanesi (in gran parte provenienti dal Darfur), ma è forte il timore il conflitto in corso possa avere un impatto anche sul Chad, alle prese con una ostinata insurrezione islamista (e che è costata la vita al presidente Deby Itno caduto in combattimento nell’aprile 2021).

Ora Mahamat Idriss Déby Itno, figlio del defunto generale-presidente, e militare lui stesso, installato al potere dai vertici delle forze armate, oltre ai combattenti islamisti deve fare fronte a una forte domanda di democratizzazione interna a cui lui e la giunta (come sempre) ‘provvisoria’ cerca di resistere quanto più possibile, rimandando di continuo le elezioni per una assemblea costituente.

Tradizionalmente, vi sono forti legami economici tra Sudan e Chad, come il flusso di pastori che pascolavano le loro greggi su entrambi i lati del confine. Mentre le relazioni bilaterali che si sono deteriorate durante il conflitto del Darfur, anche per ragioni etniche, visto che i darfuriani sono etnicamente simili a chadiani del nord e ai libici del Fezzan, hanno registrato un miglioramento a seguito delle riforme autonomiche concesse a quella regione.

L’ingombrante vicino settentrionale

L'Egitto ha una lunga storia con il Sudan, e non solo come partner commerciale. In epoca faraonica, il Sudan faceva parte dell'Egitto e si chiamava Nubia. Per un breve periodo, i nubiani governarono anche l'Egitto, e in seguito entrambi i paesi furono sotto il dominio coloniale britannico. L'Egitto e il Sudan hanno culture simili e il rapporto di alcune élite sudanesi, specialmente per quelle militari (come nel caso di Al-Burhan), con l’Egitto è assai stretto. Un altro fattore è la disputa sulle acque del Nilo, che è diventata più acuta da quando l'Etiopia iniziato a costruito una diga a monte per alimentare la sua gigantesca centrale idroelettrica GERD.

L'Egitto vuole portare il Sudan nel proprio campo, vi sono stati negoziati interrotti per anni tra le tre nazioni, ma un trattato non si è concretizzato. Il paese confinante osserva quindi con attenzione (e trepidazione) l’evoluzione della situazione in quanto teme che il conflitto si prolunghi con conseguenze nefaste da molti punti di vista. Un regime debole a Khartoum, o l'emergere di un ordine politico alternativo ostile al Cairo, potrebbe avere gravi ripercussioni più a nord.

Come detto l’Egitto è prossimo ad Al-Burhan e ostile a Hemeti, invece sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti, il principale finanziatore del Cairo, riproponendo in chiave arabo-musulmana lo schema attuale di alleanze distoniche e schemi contrapposti, secondo gli interessi e necessità locali.

L'Egitto ospita già circa cinque milioni di sudanesi, che fuggono dalla povertà o dai combattimenti e ha un accordo di libera circolazione con Karthoum.

Nonostante l'enorme importanza del Sudan per i suoi interessi strategici, l'Egitto fatica a trovare una risposta e una posizione credibile al caos di Khartoum. Fonti mediatiche riferiscono di una amicizia personale tra i due presidenti-generali Al Sissi e Al-Burhan (nata quando l’ufficiale sudanese era in servizio presso la scuola di stato maggiore del Cairo).

Le opzioni dell'Egitto sono ulteriormente limitate dal fatto che il paese si trova in una crisi economica senza precedenti e deve valutare con prudenza dichiarazioni e (soprattutto) azioni. La sua valuta ha perso quasi la metà del suo valore rispetto al dollaro USA nell'ultimo anno. C'è un'inflazione galoppante, una povertà diffusa e il forte timore che possa andare in default per il suo enorme debito estero entro la fine dell'anno. Solo dopo che è emerso che personale dell’aeronautica egiziana, sul luogo per una esercitazione congiunta con le forze regolari di Karthoum, era stato arrestato nel corso dei combattimenti per il controllo della strategica base aerea di Meroe, le forze armate del Cairo hanno rilasciato una concisa dichiarazione. Due giorni dopo l'Egitto affermava che non si sarebbe schierato nel conflitto e che si era offerto di mediare. Si può quindi capire perché per l'Egitto sia difficile annunciare pubblicamente le proprie preferenze. Ciò è in parte dovuto alla complessità del panorama politico in Sudan e a una certa somiglianza dei recenti sviluppi nei due paesi.

Sia l'Egitto che il Sudan hanno avuto le loro rivoluzioni. In Egitto, i militari hanno ostacolato la transizione verso la democrazia, anche se in mano a estremisti islamici (che avrebbero mostrato il loro volto feroce appena possibile). Invece i due contendenti sudanesi hanno vasti appoggi nelle comunità islamiche (in particolare Al-Burhan è considerato prossimo alla comunità dei fratelli musulmani, duramente osteggiata proprio da Al Sissi) che hanno mal digerito l’adesione di Karthoum agli Accordi di Abramo e potrebbero chiedere al vincitore di ritirarvisi, dandogli un colpo, certo non mortale, ma indebolendone il valore politico e simbolico. Ecco perché c'è il timore tra l'élite politica sudanese che l'esercito si senta incoraggiato a fare lo stesso contro i gruppi islamisti, quelli prossimi a Hemeti in primo luogo e usare la necessità della stabilità e l’impego strumentale della religione come supporto politico.

Pubblicamente, l'esercito sudanese continua a dire che non fermerà la transizione e che il previsto assorbimento delle RSF nelle forze regolari (scintilla di una crisi latente), è parte del processo di normalizzazione, ma il movimento di protesta che ha guidato la rivoluzione nel 2019, le Forze per la libertà e il cambiamento, non ci crede e teme la riproposizione, in salsa sudanese dell’esperienza egiziana.

Un frontiera geograficamente ridotta, ma rischi enormi con la Libia

Le incertezze egiziane in merito al Sudan, sono dovute anche alla difficile esperienza maturata in Libia dove il Cairo ha appoggiato il generale Khalifa Haftar, che non è riuscito a prevalere nella guerra civile post Gheddafi. Haftar, ancora prossimo a Mosca, ha permesso il passaggio dei Janjaweed, da milizia feroce (e incontrollabile) a un vero esercito parallelo, anche se non equipaggiato come le forze regolari, ma che è riuscito ad imporsi sulla scena politica e ritagliarsi un peso importante in Sudan. Il possibile coinvolgimento del generale, che gestisce gran parte della della Libia orientale, solleva timori per ulteriori metastasi del conflitto sudanese.

Il legame di Haftar con Hemeti si è rafforzato quando unità delle RSF hanno combattuto a fianco dei loro addestratori, l’Esercito nazionale libico (LNA) e come prassi locale, Haftar e Hemeti gestiscono operazioni di contrabbando altamente redditizie, visto che Sudan e la Libia si trovano a cavallo delle principali rotte del traffico di esseri umani, narcotici e molto altro.

Secondo fonti riservate, nelle ultime settimane, mentre incombeva il conflitto tra la RSF e esercito regolare, Haftar avrebbe accresciuto il sostegno verso Hemeti, in accordo con UAE e Russia, anche se il leader dell’est libico deve agire con prudenza per non inimicarsi il Cairo, che potrebbe dimenticare di averlo sostenuto e rovesciarlo con una azione rapida partendo dalle sue enormi basi militari costruite al confine con la Libia.

Comunque, solo pochi giorni prima dello scoppio del conflitto, Haftar ha ordinato l'arresto di un vice di Musa Hilal, comandante di una milizia sudanese (del Darfur), acerrimo nemico di Hemeti, responsabile di aver inflitto pesanti perdite a un distaccamento della Wagner – un altro alleato di Haftar – in Centrafrica, uno degli snodi della penetrazione russa nel continente, nei pressi del confine sudanese.

In un'ulteriore dimostrazione di sostegno, uno dei figli di Haftar è volato a Khartoum per donare 2 milioni di dollari all'Al-Merrikh Club, una delle due grandi squadre di calcio del Sudan ed elemento di sostegno politico e popolare alle RSF (questo ricorda le vicende delle fazioni dei tifosi ‘azzurri’ e ‘verdi’ nell’ippodromo della Constantinopoli bizantina). Durante la visita, Hemeti è stato informato che Al-Burhan preparava un colpo di forza e le RSF hanno agito d’anticipo prendendo il controllo dell’aeroporto di Meroe, con l’obiettivo di far arrivare via area i rifornimenti dall’estero con il possibile aiuto di Haftar e della Wagner.

Vista la situazione fluida in Sudan, sono stati segnalati arrivi di aerei da carico all’aeroporto di Cufra, nel sud della Libia e l’avvio di convogli di armi, munizioni e carburante verso il Darfur e Karthoum.

Conclusioni

Mentre i combattimenti proseguono e le evacuazioni di stranieri si susseguono, il Sudan una volta ancora non sembra in grado di uscire dal tunnel da cui non è mai uscito dal 1964, l’anno della prima "rivoluzione" (o più propriamente "colpo di stato").

Il conflitto accade in un contesto internazionale fragilizzato e reso instabile dalla criminale e politicamente folle aggressione russa all’Ucraina e l’ubiquo espansionismo cinese. Quello regionale non è migliore dove molti stati potrebbero essere tranquillamente definiti ‘stati falliti’ e anche l’Occidente ha poche opzioni e quelle messe in opera sono fallite (si pensi al nulla politico della conferenza internazionale per il debito sudanese, organizzata in Francia nel 2020 per alleviare a fior di nuovi prestiti e cancellazione di quelli vecchi).

Il futuro è incerto in quanto, chiunque sia il vincitore della tenzone in corso: restano aperti molti interrogativi legati sia alle vere intenzioni dei leaders e i loro futuri progetti (e/o di coloro che li sostengono), oltre alla affidabilità di taluni partners locali.

1 L’UNISFA era un unicum nel panorama delle operazioni di peacekeeping. Infatti era sino al 2021 una operazione a quasi esclusiva presenza etiope e un piccolo staff multinazionale. Questa unicità era il risultato di un complesso negoziato e, sebbene mal visto dal Palazzo di Vetro, che predilige le operazioni multinazionali, messo in opera. Le truppe etiopiche (circa una brigata) incaricate di pattugliare l’area ricca di petrolio e in attesa di essere aggiudicata o a Karthoum o a Juba, o essere spartita, come appare più probabile, ha visto la progressiva partenza delle truppe di Addis Abeba, richiamate per fare fronte alla crisi nel Tigrai (e quella che si annuncia nell’Amhara) e sono state sostituite da truppe di paesi che usualmente forniscono ‘caschi blu’: ghanesi, indiani, bengalesi, pakistani, con la interessante novità di vietnamiti e quella, sempre più consolidata nelle operazioni di pace dell’ONU, di militari cinesi.

Fotogramma: RAI