La sindrome cinese delle 3 T

(di Gino Lanzara)
13/06/22

Il focus dell’attenzione geopolitica non può essere fisso; dramma ucraino a parte, l’Asia continua a suscitare più di un interesse, malgrado la Cina adotti la postura da convitato di pietra. C’è un principio da chiarire a platee disabituate all’assenza di progettualità proiettate nel futuro: ogni Stato persegue i propri obiettivi con strategie conformate a proprie culture e storie da rammentare nell’analisi delle relazioni politiche.

Il silenzio di Pechino non impedisce alla questione tibetana di assumere per il Dragone un contemporaneo doppio ruolo politico, interno ed esterno, da collegare alla rivendicazione di Taiwan, visto che le concessioni elargite a Lhasa costituirebbero un ulteriore leverage nel rapporto con Taipei; tutto ciò considerando lo Xinjiang1 uiguro e secessionista legato alle dinamiche dell’Asia centrale, ed il caso politico d’alta quota nepalese. In questo contesto va considerato che l’altopiano tibetano, che consente alla Cina di accedere via terra alle risorse dell’Oceano Pacifico e a quelle dell’Oceano Indiano, si trova al confine tra le due nazioni più popolose del mondo, quindi tutto quello che avviene in Tibet, regione in espansione economica, non ha un’eco solo locale.

Una nuova crisi tibetana avrebbe impatti devastanti su tutta la Comunità Internazionale. Non a caso Pechino, oggetto della sindrome delle 3 T (Tienanmen, Tibet, Taiwan), ha stipulato gli Accordi del Gruppo di Shangai2, vincolando gli aderenti al contrasto ai movimenti terroristi e separatisti, mentre Obama lanciava una politica di (tentati) contenimento e isolamento con il Pivot to Asia. Di fatto, la Cina non si è discostata dalla sua tradizione: non solo punta a mantenere la profondità strategica, ma intende ricostruire lo spazio geopolitico imperiale: la sovranità non può essere messa in discussione e non esclude il ricorso alla repressione.

Secondo Freedom House, la Cina conduce la più sofisticata, globale e completa campagna di repressione transnazionale al mondo. La Cina sta potenziando, anche con un'unità di telecomunicazioni 5G, le infrastrutture lungo la Line of Actual Control3 tra il Tibet, l’Arunachal Pradesh ed il Sikkim indiani, in modo da costituire nodi logistici avanzati e permettere mobilitazioni rapide.

Dopo la Primavera di sangue di Tienanmen, la Cina ha posto la contestazione su tre direttrici interconnesse: terrorismo, separatismo, estremismo religioso, aspetto quest’ultimo che come un’onda è già da tempo arrivata a lambire il soglio petrino. Se la legittimità del Partito è connaturata al principio di stabilità, e se il partito è unico, è la stessa stabilità dello Stato che rischia di essere posta in pericolo.

Secondo il sistema partito-stato stalinista/maoista, il partito afferma la legittimità del potere dominante, dunque la sicurezza nazionale garantisce il perdurare della guida del Partito contro qualsiasi vulnerabilità interna o esterna, grazie anche alle risorse di bilancio in cui le spese necessarie a mantenere la stabilità superano quelle per la difesa nazionale.

L’ossessione cinese per qualsiasi dissonanza in Tibet, come ovunque, tradisce la fiducia che la versione del Partito Comunista possa continuare a reggere. Lo Stato è tutto, i diritti individuali no, anche perché con Tienanmen la minaccia si è affacciata dall’interno per aggiornarsi poi nel tempo con altre sfide; solo ora, all’esterno dei suoi confini, il Dragone ha riscoperto sia il confronto marittimo e terrestre, sia quello asimmetrico offerto dalle leve economiche dei prestiti.

Se le Olimpiadi del 2008 avevano ingenerato l’irragionevole speranza di una liberalizzazione politica, quelle del 2022 hanno proclamato la forza di Xi, fondata sulla centralità del Partito, secondo un modello autoritario e nazionalista che vede qualsiasi richiesta come un tentativo di rivoluzione colorata.

Le rivendicazioni politiche che hanno colpito Pechino a partire dal 1996 sono legate a tre regioni con un’alta densità di minoranze: Tibet4, Xinjiang, Mongolia Interna, cui aggiungere il jolly di Hong Kong5, cui è stato sottratto il potere politico contrattuale, e dove il Dragone potrebbe esercitare un’azione strategica preventiva guardando a Taiwan.

La paura cinese più grande è la frammentazione, una minaccia esistenziale; il rimedio è la modellazione di una coscienza nazionale cinese, il consolidamento del potere interno e la proiezione di potenza esterna. Il sogno americano ante Ucraina auspicava proprio la disgregazione cinese con la fine del regime, con Tibet e Xinjiang indipendenti, con Shangai, Macao e Hong Kong connesse alla rete commerciale mondiale, con Taiwan indipendente e le due Coree unite.

L’iconografia ufficiale insiste nell’asserire che la Cina attuale è il riflesso di una condizione storica preesistente da secoli, ma trascura il fatto che la geografia corrente è stata decisa solo dopo l’ascesa al potere di Mao Zedong nel 1949. Ma c’è chi dice no, e malgrado il divieto di qualsiasi celebrazione del massacro di piazza Tienanmen, a Hong Kong la polizia non è riuscita a dissuadere dal commemorare il 4 giugno, data che segna la fine dell’utopico ed impossibile principio un paese due sistemi.

Sia nel ‘59 in Tibet che a Hong Kong nel 2019, il dissenso ha costituito il punto di non ritorno per un’autonomia che ha dovuto cedere al pugno di ferro. Come nel Tibet del ‘59, ad Hong Kong si sta assistendo a una nuova ondata migratoria, con i leader pro-democrazia in fuga.

Le principali leve di Pechino sono economiche, e sostengono azioni a lungo termine in aree tradizionalmente considerate quali cortili strategici di altri soggetti geopolitici come l'India, insidiata nei suoi progetti in Nepal con strumenti che, nel tempo ed anche in altri Paesi d’area, si vanno diversificando ricorrendo all’alternanza di soft power, minacce coercitive e con l’uso della trappola del debito, verso cui diversi Stati hanno tuttavia opposto resistenza6, rifiutando progetti ritenuti insostenibili.

Dal punto di vista talassocratico7, la Cina al momento non ricerca il conflitto con gli USA, dato che sopravvivenza politica, ordine sociale e crescita economica, sono assicurati da un contesto pacifico e stabile, ma l’espansione degli interessi sovrani verso aree come il Mar Cinese Meridionale ed Orientale creerà nuove faglie: l’atteggiamento assertivo di Pechino, con la tenuta del sistema economico, guiderà il futuro dell’Asia-Pacifico a fronte della condivisione degli interessi globali8.

Quel che Washington è obbligata a considerare sono le tre asimmetrie che favoriscono Pechino: distanza dalle proprie basi, tempo disponibile e soprattutto posta in gioco, tutti fattori che renderanno rischiosa la strategia americana in Asia. Analisi a parte va fatta per Taiwan, isola che gli USA non possono abbandonare per motivi reputazionali e che la Cina deve conservare tra gli obiettivi da raggiungere quale motivo d’essere del proprio risorgimento politico e territoriale indispensabile alla tenuta del Partito, alla sopravvivenza politica di Xi, ed alla sua presa nel e sul Paese.

Il problema cinese è che la prevista unificazione con Taiwan entro il 2049 evidenzia una percezione strategica errata, priva della preparazione tattica necessaria a correggerla, dato che l’equilibrio di potere in Cina trova dimensione prevalente solo in versione interna. Insomma Taiwan, nel quadro asiatico, non è e non sarà il confine geografico ultimo dello scontro sino americano.

All’interno della massa continentale asiatica vanno considerati altri elementi di interesse, a cominciare dal Nepal9, paese caratterizzato dall’ideologia maoista, oggetto di revisione perfino in Cina, e tuttavia agevolata dalla lentezza dell’evoluzione storica dell’Asia meridionale, che ha favorito lo scontro tra feudalesimo nepalese, vetero comunismo cinese ed il tentativo indiano di non perdere né controllo né terreno.

Come sempre le grandi potenze guardano alle risorse dei vicini: il Nepal non fa eccezione vista la sua posizione geostrategica tra India e Cina, considerata la sua politica estera di non allineamento, e tenuto conto sia della mancanza di sbocchi sul mare sia dello scottante confine tibetano.

Malgrado il passaggio da monarchia a repubblica, le istituzioni nepalesi sono state incapaci di redigere una carta costituzionale nel 2015, momento in cui il Paese da hindu è divenuto laico, e non in grado di garantire una transizione indolore, tanto da dare corpo ad una frammentazione politica che ha consentito a Cina e India frequenti interferenze. La regione nepalese del Madhesh ha costituito un laboratorio politico in cui l’India10 ha inteso garantire l’eleggibilità dei detentori della sua nazionalità, riaffermando la propria influenza, ma ingenerando tuttavia diffusi sentimenti ostili utilissimi per i fini di Pechino.

Mentre New Dehli ha la terra, Katmandu ha l’acqua, con la demografia indiana destinata a breve a garantire una massa d’urto superiore a quella cinese, ma comunque bisognosa di costanti e certi approvvigionamenti idrici ora controllati dalle dighe di Pechino.

La sindrome nepalese da parte indiana prenderà movenze se Katmandu continuerà a prestarsi a sollevare problematiche in conto cinese, accendendo così la competizione sino indiana coinvolgendo i domini economico, tecnologico e militare. Non è un mistero che Pechino stia tentando di erodere l’influenza indiana nella regione con investimenti e presenza militare tra Katmandu, Dhaka e Colombo; il Nepal è tra i firmatari della Belt and Road Initiative con progetti legati ad infrastrutture connettive ed idroelettriche; rimangono tuttavia da definire modalità di finanziamento e fattibilità di lungo periodo: promesse illusorie tra ire indiane, finanziamenti americani e previste difficili restituzioni nepalesi?

Inevitabile per Modi11 dover prendere decisioni e posizione al netto di non allineamenti cerchiobottisti difficili da mantenere, ed alla luce degli ingressi politico economici occidentali nell’arena nepalese12; se per l’India il Nepal è un indicatore di rischio, l’Indo Pacifico segna rosso, visto che in Bangladesh, Sri Lanka e Maldive possono esserci interessi permanenti ma non amici, e dove l’aspetto religioso islamico comincia a pesare. Intendiamoci, di mistico c’è poco, di realpoliticamente concreto moltissimo, come testimoniano rapporti ed accordi diplomatici paralleli e segreti, intercorrenti tra Santa Sede e Cina per la nomina dei vescovi alla luce dello scisma tra Chiesa Cattolica Clandestina e Chiesa Patriottica di obbedienza partitica fedele all’assunto maoista per cui la sovranità nazionale si estende fino al regno dei cieli; di fatto si tratta di una querelle che riporta alla memoria gli attriti tra Chiesa e Sacro Romano Impero.

L’accordo dovrebbe garantire un accreditamento vaticano indipendente presso la Città Proibita con effetti geopolitici a cascata sull’equilibrio di potenza occidentale. Per Pechino il rispetto del trattato è funzionale sia a motivi interni sia ad interessi geopolitici, in considerazione del fatto che la Santa Sede è vista come ulteriore mezzo diplomatico per la soluzione taiwanese, con bruschi ritorni all’effettiva realtà politica determinata dagli arresti13 di ecclesiastici; la visione globale vaticana nell’accostarsi alla Cina si è opposta a quella di J. Mearsheimer che, sull’ascesa pacifica del Dragone, ha sempre nutrito più di un dubbio, sostenuto dall’atteggiamento persecutorio verso musulmani uiguri e buddisti tibetani.

Il rischio di creare un precedente cui altri stati possano ispirarsi esiste; nel frattempo, mentre il nunzio apostolico a Taiwan è stato destinato in Rwanda (segnale preoccupante e controverso) la Cina, in merito all’arresto del novantenne cardinale Zen, ha tenuto a ribadire che nessuno può ritenersi al di sopra della legge, cosa che sa bene un’altra Santità, il buddista Dalai Lama, da sempre considerato un capo politico oltre che spirituale (ah, la realtà..).

Dal 195914, a seguito della fuga in India a Dharamsala conseguente alla rivolta di Lhasa15 con i suoi 65.000 caduti, la politica del Dalai Lama si è rivolta alla riconquista dell’indipendenza del Tibet, terra ricchissima di acqua e risorse naturali16, opzione tuttavia ormai non più perseguibile. Attuare una politica affine a quella proposta per Hong Kong – un paese due sistemi – visti i risultati ottenuti, non sembra attrarre più di tanto visto che, peraltro, l’interlocutore cinese non intende riconoscere alcun ruolo politico al Dalai Lama.

Pechino, in Tibet, ha rafforzato la sua presenza militare avviando un programma di ammodernamento delle infrastrutture, ed insediando un largo numero di cinesi han e musulmani hui utili a rendere i tibetani minoranza in casa propria.

L’intransigenza cinese e la colonizzazione del Tibet, per cui i nazionalisti hindu hanno chiesto il disconoscimento quale parte integrante della Cina, hanno indotto sia ad una radicalizzazione delle generazioni tibetane più giovani, convinte della necessità di intraprendere una nuova lotta armata per l’indipendenza sia, da parte del Dalai Lama, di sottrarre a Pechino la nomina del suo successore, individuandolo comunque extra limites cinesi17.

Per questo New Delhi ha intrapreso due iter politici: da un lato ha impedito ai profughi tibetani di muovere violenza ai cinesi su territorio indiano, dall’altro, ha auspicato un dialogo che prevenga l’esplosione di scontri.

Per quanto abbiamo accennato, il Dalai Lama, comunque seguito dai fedeli tibetani, riveste un significato geopolitico, visto che insidia la legittimità del Partito Comunista fino alla Mongolia, alla Siberia, alla Corea.

Chiudendo con il Bhutan, regno himalayano alleato dell’India attratto dai possibili investimenti cinesi, che vuole sfruttare la sua posizione geostrategica tra le due potenze asiatiche, non si può non stigmatizzare il modello di occupazione adottato in Tibet, un modello che obbliga gli USA a non distogliere l’attenzione dall’area per non incorrere in altre debacle afghane.

La valenza religiosa di alcuni degli attori interessati non deve distrarre dalla dimensione politica che risente della dimensione temporale: il perpetuarsi delle situazioni non può che portare o all’accettazione dello status quo o alla valutazione degli avvenimenti senza soggiacere a particolari scadenze ma tralasciando gli aspetti contingenti del momento; aspetti difficili da rammentare sui lunghi periodi ma capaci comunque di segnarli, come nel caso del disorientamento prodotto dagli accordi sino vaticani sui fedeli al tradizionale dettato romano, o come nell’interpretazione del pacifismo tibetano, per cui il 13° Dalai Lama ebbe a dire di usare metodi pacifici, quando appropriati, ma di non esitare a ricorrere alla forza se dimostratisi non sufficienti.

1 La risoluzione della Dieta giapponese sulla situazione dei diritti umani nello Xinjiang e in altre aree è stata approvata quasi all'unanimità. La reazione del ministero degli Esteri cinese è stata rapida e ha attaccato il Giappone sostenendo che Tokyo non ha l’autorità per muovere osservazioni sui diritti umani di altri paesi.

2 Cina-Russia-Kazakhistan-Kirgizistan-Uzbekistan-Tagikistan

3 LAC

4 Pechino ha investito oltre 50 miliardi di dollari in più di 400 progetti di sviluppo nel Tibet nel corso di diversi decenni. Se è vero che Pechino si lamenta del dissenso, è altrettanto vero che i cinesi di etnia Han, incoraggiati a trasferirsi in Tibet, ne sono i principali beneficiari dello sviluppo. Anche se il tenore di vita tibetano si è innalzato, la discriminazione a favore degli Han è evidente.

5 Recentemente in Nepal l'ambasciata cinese ha chiesto ai media di contenere i rapporti indipendenti sul Tibet o Hong Kong.

6 Quando nel 2015 la Cina ha offerto al Bangladesh il finanziamento di diversi grandi progetti infrastrutturali, il governo ha deciso di comparare l'offerta rispetto a quelle di altri partner come Giappone e India. Il Nepal si è rivolto più volte alla Banca Mondiale per l'assistenza COVID. 

7 Potere marittimo

8 Commercio, stabilità, sicurezza energetica, controllo nucleare

9 Il defunto re Prithvi Narayan Shah osservò che il Nepal era un igname (pianta rampicante) tra due massi.

10 L'India ha realizzato una strada di collegamento strategica attraverso Lipolekh per il commercio con il Tibet e per il pellegrinaggio al Kailash Mansarovar. Quale risposta il Nepal ha pubblicato una nuova mappa politica che comprende le aree di Limpiyadhura, Kalapani e Lipolekh, territori storicamente rivendicati dal Nepal, ma rimasti sotto il controllo indiano dopo la guerra sino-indiana del 1962.  

11 Narendra Modi, premier indiano

12 Vd. il contrasto cinese al Millennium Challenge Corporation (MCC) sponsorizzato dagli USA, accusati dalla Cina di diplomazia coercitiva, per il Nepal ed approvato in febbraio da Katmandu

13 Il cardinale Joseph Zen a 90 anni, è stato arrestato dalle autorità di Hong Kong in quanto accusato di collusione con potenze straniere; ha condannato la rimozione delle croci dall’esterno delle chiese e ha sempre celebrato messe in ricordo dei caduti di Tiananmen. Zen è contrario all'accordo tra il Vaticano e la Cina sulla nomina dei vescovi e ha preso le difese degli uiguri.

14 Il 7 ottobre 1950 Mao Zedong ordinò di prendere controllo del Tibet. I pretesti furono l’unificazione del popolo cinese (sebbene i tibetani siano di etnia diversa) e la liberazione dal giogo dell’imperialismo inglese, quando l’influenza britannica in realtà era già finita con l’indipendenza indiana del 1947. Ai piedi del Palazzo del Potala, residenza dei Dalai Lama, si trova una grande piazza alla Tienanmen con bandiere cinesi e un monumento intitolato alla pacifica liberazione del Tibet

15 Sono seguite le insurrezioni del 1989 e quelle olimpiche del 2008

16 Solo Artide e Antartide hanno più acqua dei ghiacciai tibetani vd. idrostrategia e la definizione della Cina quale water super power che condiziona le politiche dei paesi limitrofi; si annoverano poi enormi giacimenti di rame, litio, oro, argento, uranio, quarzo

17 Al momento il luogo in cui si trova Gedhun Choekyi Nyima, riconosciuto come l'11° Panchen Lama è sconosciuto dalla sua scomparsa forzata nel 1995 da parte delle autorità cinesi.

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China