Il vaso di Pandora americano

(di Gino Lanzara)
15/06/20

Abbiamo seguito, come tanti, gli ultimi avvenimenti statunitensi e la loro vasta eco nel mondo, ed abbiamo preferito farli sedimentare analizzando gli aspetti meno scenografici. Non si può non rilevare come gli ultimi anni siano stati caratterizzati a livello internazionale da proteste, inaugurate nel 2011 dalle primavere arabe, che hanno contrassegnato l’affermazione di un diffuso scetticismo verso le forme istituzionali in vigore.

Sud America, Iran, Libano, Hong Kong, Francia, USA, testimoniano un latente e rabbioso malessere che il Covid ha fatto deflagrare, e che difficilmente potrà trovare soluzione nei movimenti di massa che pur opponendosi alle politiche correnti, non riescono trasformisticamente a sostenere valide alternative, visto che comunque rappresentano solo una parte della cittadinanza; tentare di infrangere l’equilibrio politico interno, come avvenuto in Turchia per gli eventi di Gezi Park, può portare a controreazioni autoritarie peraltro approvate da una platea vasta e desiderosa di ristabilire le regole di un’ordinata convivenza maggioritaria.

Gli eventi americani, connotati dalla crisi verso la fedeltà generale a un ethos democratico da parte di tutti i soggetti coinvolti1, e stigmatizzati dall’UE con uno stile che richiama alla memoria le dichiarazioni rivolte a governi dittatoriali, riportano in scena la violenza innescata dallo schema drammatico e già visto del “si, però..” che vede protagonista la Polizia contro una vittima non completamente innocente, e che apre a possibilità interpretative secondo diverse chiavi di lettura.

Il quadro generale, che ha esposto gli USA alla damnatio da parte di Paesi che, aspramente criticati come Cina ed Iran, hanno trovato sponde insperate, evidenzia la persistenza di tensioni razziali mai sopite e frutto di una mancata integrazione, di povertà, di facilità di acquisto di armi da fuoco che incentiva spirali incontrollabili, con un’Amministrazione che alimenta le contrapposizioni; del resto, è storicamente impossibile trovare un egemone che sia democratico nell’accezione più ampia del termine.

In sintesi, appare troppo semplicistico ridurre il problema all’aspetto razziale, che pure conserva la sua importanza polarizzatrice potenziata da un elettorato non sempre adeguatamente acculturato, specie se poi si esamina il lungo excursus storico delle contestazioni2.

Le radici del disagio si estendono lontano e profondamente; non va dimenticato che la diseguaglianza razziale già ardeva sotto Obama, durante il cui mandato nacque il movimento Black Lives Matter, e che l’aggressività delle forze dell’ordine, che dipendono dalle autorità locali e non federali, era ormai ben delineata anche in città a guida democratica; pandemia e lockdown hanno eroso un capitale sociale già depauperato dalle difficoltà economiche incrementate dai costi delle assicurazioni sanitarie a causa dell’Obamacare. Le pratiche adottate dalle Polizie dei vari Stati, quanto mai militarizzate ed oggetto di una sindacalizzazione capace di operare forti pressioni politiche, evidenziano la debolezza del sistema federale, ed acuiscono contrasti e contraddizioni non solo tra i Repubblicani, che identificano il vandalismo con le manifestazioni, ma anche tra i Dem, determinati a condannare i violenti ma senza disconoscere una protesta che, a New York, si è personificata con elementi appartenenti a gruppi radicali individuati dalla Polizia durante i sopralluoghi precedentemente effettuati in zone dove poi sarebbe esplosa una contestazione caratterizzata da coordinamento ed organizzazione tipici di conflitti asimmetrici in teatri urbani. In termini elettorali la protesta, temuta quale possibile nuova rivoluzione colorata, potrebbe essere politicamente rilevante sotto diversi punti di vista; mentre alcuni Repubblicani tendono ad allontanarsi da Trump come testimoniato dalle dichiarazioni rilasciate dall’ex Presidente Bush, incline ad un liberalismo capace di minare la classica visione di law and order, per i Dem la presenza di esponenti particolarmente intransigenti come Kamala Harris e Amy Clabouchar potrebbe rivelarsi come un’arma a doppio taglio.

Aggiungiamo un pizzico di caos; Williams Sydney Porter, all'inizio del XIX secolo introdusse nei suoi racconti l’espressione di "repubblica delle banane", poi ripresa da Woody Allen, e successivamente utilizzata per stigmatizzare paesi instabili e dittatoriali; questa terminologia ha rifatto capolino nel momento in cui, dopo gli eventi della Roosevelt che hanno rimarcato una condotta politica quanto mai sfuggente, James Mattis (ex Segretario alla Difesa) e John Allen, generali a 4 stelle in pensione ma ancora ben presenti nella vita politica americana, hanno aspramente criticato sia l’intento presidenziale di schierare truppe combattenti invocando l’Insurrection Act del 1807, sia la definizione delle città americane quale spazio di battaglia fornita da Mark Esper, responsabile del Pentagono, ovvero quanto di più lontano dallo spirito di riconciliazione post secessionista incarnato dal Lincoln Memorial, per l’occasione presidiato dalle truppe della Guardia Nazionale; uno spirito ecumenico che peraltro non trova nemmeno riscontro nell’intenzione di cassare le intitolazioni dedicate ai maggiori leader confederati. Mark Milley, attuale presidente del Joint Chiefs of Staff, con l’occasione, ha rammentato alle FA il giuramento prestato di sostenere una Costituzione che dà il diritto alla "libertà di parola e riunione pacifica". Gli USA, bifrontalmente, continuano ad avere due volti: quello della Nazione indispensabile di Madeleine Albright, e che ritorna alla conquista dello spazio con SpaceX e Crew Dragon, e quello dipinto dal Washington Post per cui “Nella morsa della malattia, della disoccupazione, e dell’indignazione verso la polizia, l’America sprofonda nella crisi”; l’America risale in borsa ma non nell’economia reale; può contare su potenza militare e politica ed è supportata dalla facoltà di inondare i mercati con valuta fresca di stampa che nessun Paese può rifiutare; si appoggia ad una politica estera reattiva comune ad ogni Presidente.

Arriviamo alle considerazioni impolitiche. Ciascuno schieramento, senza alcuna distinzione, sta tentando di cavalcare la tigre rappresentata da una situazione instabile, dove gli attacchi portati alla simbologia sono svincolati dal razzismo; in fondo niente di nuovo negli USA dove, finora, la capacità politica di controllare gli eventi si era sempre mostrata resiliente e capace di conservare le peculiarità sociali, cosa inimmaginabile in Paesi come Russia e Cina, timorosi di pericolose e disgreganti particolarità.

Negli USA, articolati e complessi, la narrativa politica è stata sempre volta ad accomunare, proponendo un modello federalista supportato localmente, ed ora messo concettualmente a rischio dall’esaltazione di specificità finora controllate, ma adesso pronte ad assecondare spinte centripete. Nell’esacerbare le dinamiche sociali finora sopite, Trump soddisfa la maggioranza silenziosa ma scopre un incontrollabile vaso di pandora; malgrado la situazione sia oggi forse meno critica rispetto a quella vissuta al tempo di Martin Luther King, le fratture sociali rimangono: Obama assottiglia problemi che comunque rimangono, Trump polarizza all’estremo la società.

Ritorniamo ora ai Dem, ed al 77enne Biden; l’antagonismo politico se da un lato spinge a rimarcare l’inadeguatezza dell’attuale Amministrazione, dall’altro sembra del tutto cieco nel considerare le conseguenze future delle attuali prese di posizione. Depotenziare le Polizie, a meno che non si intenda giungere ad un’operazione di marketing che sottende l’intento di pulire e riorganizzare, porterebbe i maggiori centri urbani nazionali a vivere le attuali criticità di Seattle, in cui di fatto una grossa porzione cittadina è stata sottratta al controllo della pubblica sicurezza; glorificare eccessi iconoclasti che hanno più dell’assurdo che del razionale, sta già ora conducendo gli USA ad una pericolosa e mortificante comparazione con le distruzioni talebane dei Buddha di Bamiyan. Se la strategia di Trump è politicamente primordiale, non cura il multilateralismo e rischia farsi recapitare un rifiuto di obbedienza da parte di FA da sempre strumento di politica estera, i Dem stanno percorrendo una strada forse anche più pericolosa, perché in grado di scatenare reazioni ancora più violente, a fronte di un programma politico che si sostanzia di fatto solo in un attacco personale; se i Dem vinceranno sarà perché Trump avrà voluto perdere, e perché sui grandi problemi interni non hanno saputo spendersi fattivamente, per esempio non difendendo i lavoratori dal dumping cinese, e non riuscendo ad esprimere una classe dirigente più giovane e soprattutto alternativa.

Come affermano analisti di forte spessore, il rischio americano è quello di cedere di fronte all’unica vera minaccia esiziale per la sopravvivenza: non tanto la fame, quanto un’incontrollabile e selvaggia violenza, perché “..gli americani, qualunque sia il colore della loro pelle, hanno l'anima chiara, molto più chiara della nostra.. perché credono che Cristo sia sempre dalla parte di coloro che hanno ragione. Perché credono che è una colpa grave aver torto, una cosa immorale..3.

1 Robert Kagan

2 Harlem 1935, Philadelphia 1964, Detroit 1967, Miami 1982, Los Angeles 1992, San Petersburg 1997, Cincinnati 2001, Ferguson 2015; 1972, Vietnam, Operazione Linebacker, sulla portaerei Uss Kitty Hawk, si sfiorò l’ammutinamento da parte di circa 200 marinai afroamericani.

3 Curzio Malaparte, La Pelle

Immagini: CBS