Gaza: conflitto “glocale”

(di Filippo Del Monte)
09/10/23

Le IDF hanno riconquistato nel corso di queste ore i territori persi da Israele nelle prime ore dell'operazione Al-Aqsa Flood lanciata da Hamas la sera di sabato 7 ottobre.
Mentre le forze di Tel Aviv combattevano a Re’im, Kfar Aza ed Ofakim, colpi di artiglieria venivano scambiati alla frontiera settentrionale con i miliziani libanesi di Hezbollah. Contestualmente sono iniziate le prime incursioni aeree di Israele su Gaza.

Il generale Yoav Galant, già ministro della Difesa e attualmente a capo del comando meridionale dello Tsahal (le forze armate dello Stato di Israele, ndr), ha ordinato il blocco totale di Gaza: "Niente energia, niente cibo, niente acqua, niente gas; tutto chiuso". Questo per portare avanti una guerra totale contro le "bestie umane" di Hamas.

L'attacco condotto dalle milizie palestinesi oltre confine ha mostrato non solo l'accresciuta capacità convenzionale di Hamas, ma anche quanto fosse errata l'idea consolidata nell'intelligence israeliana che il "problema Gaza" potesse essere gestito adottando una linea securitario-segregazionista fatta di barriere, permessi per il lavoro, soccorso umanitario e, quando necessario, ad azioni militari simili a quelle anticamente definite di "polizia coloniale" oltre la Striscia.

Le cifre impressionanti delle vittime, più di 700 morti e oltre 2.500 feriti e 100 ostaggi, tra civili e militari, mostrano non solo l'enorme falla negli apparati di sicurezza con la Stella di David ma anche l'accurata preparazione - con la complicità non confermata ma abbastanza prevedibile dell'Iran - dell'azione da parte di Hamas.

Un'operazione del genere, che ha visto il territorio israeliano violato, con l'occupazione dei kibbutz di frontiera e della cittadina di Sderot, ha riportato le lancette del tempo indietro alla guerra dello Yom Kippur (6-25 ottobre 1973).

Le richieste di una reazione particolarmente dura da parte di Tel Aviv si fanno sempre più diffuse. Ecco perché la risposta dello Tsahal non si limiterà a respingere i miliziani di Hamas oltre la Striscia di Gaza ma dovrà spingersi oltre, fino a scardinare il sistema di potere dei terroristi in un agglomerato urbano confusionario, con una densità abitativa di 6.000 persone per chilometro quadrato, potenzialmente ostili in maggioranza.

Condurre una estenuante battaglia urbana non è un "rischio calcolabile" ma una certezza. Tuttavia le colonne di fanteria e corazzati con la Stella di David sarebbero sostenute da massicci bombardamenti aerei e d'artiglieria "a tappeto", tali da ridurre in macerie la città. Una operazione, questa, di cui andrebbero valutati i contraccolpi politici. C'è una possibilità, neanche troppo remota, che Hamas abbia voluto spingere scientemente gli israeliani ad una reazione "non dosata" per favorire il compattamento del fronte ostile a Tel Aviv, che va da Hezbollah all'Iran, ma che ha la possibilità di sabotare dalle fondamenta gli Accordi di Abramo voluti dagli Stati Uniti per la pace in Medio Oriente.

Le alternative per Israele sono una azione convenzionale, basata sull'efficacia dirompente di una manovra ad armi combinate, o una incursione di forze speciali, con il supporto diretto dell'intelligence, che equivarrebbe a dare una risposta "asimmetrica" ad Hamas, ma fin troppo simile a quelle degli anni precedenti.

La tentazione di farla finita - o, comunque di provarci - una volta per tutte con Hamas e l'estremismo palestinese nella Striscia di Gaza è forte, anche perché stavolta, come già detto, l'operazione Al-Aqsa Flood ha presentato elementi di novità non indifferenti, compresa la riuscita saturazione del sistema Iron Dome attraverso il lancio di più di 2.000 razzi (le statistiche che davano la capacità d'intercettazione pari a 8 missili su 10 si sono abbassate a 6 su 10).

L'operazione Al-Aqsa Flood non ha solo conseguenze e reazioni militari, ma anche politiche degne di nota, capaci di influenzare l'assetto geostrategico regionale.

Gli Stati Uniti hanno mostrato la loro ineguagliabile capacità di proiezione navale rapida schierando davanti alle coste libanesi la portaerei USS Gerald Ford ed il suo gruppo da battaglia, con una mossa che conferma la volontà di sostenere Israele ma anche di evitare che il conflitto si allarghi e che possa coinvolgere attori diversi da Tel Aviv e Gaza, come ad esempio il Libano o la Siria.

Parimenti è interessante la posizione dichiaratamente filo-israeliana dell'India, Stato con il quale Tel Aviv non ha avuto rapporti diplomatici fino al 1992. Il 2017 è stato l'anno della svolta per i rapporti bilaterali indo-israeliani, ed oggi le due nazioni collaborano, tra gli altri, sul fronte delle tecnologie per la difesa e l'India è diventata un partner fondamentale per Washington in funzione anti-cinese, oltre ad essere l'azionista di maggioranza della "Via del Cotone", che coinvolge anche le potenze del Golfo, alternativa alla Belt and Road Initiative di Pechino.
Il legame tra il sostegno a Tel Aviv, arrivato tra i primi, ed il rafforzamento dell'alleanza con gli Stati Uniti sono rigorosamente collegati per l'India di Narendra Modi.

La potenza rivale di Israele, l'Iran, ha mostrato fin da subito sostegno ad Hamas ed esiste il sospetto fondato che dietro la preparazione dell'attacco palestinese vi siano consiglieri, armi e fondi provenienti da Teheran. Del resto, alimentare una "proxy war" contro lo Stato ebraico, utilizzando sia Hamas che Hezbollah, è una delle alternative seriamente prese in considerazione dagli iraniani ed in particolare dal milieu della Forza Quds del generale Esmail Qaani.

Che l'Iran guardi con apprensione alla politica proattiva di Israele, volta a costruire attorno alla Repubblica islamica un "cordone sanitario" che possa frustrarne le ambizioni e, contemporaneamente, esporla al pericolo di un attacco proveniente da tutte le direzioni, è cosa nota. 
In questo contesto, l'avvicinamento storico ed altrettanto pericoloso di Tel Aviv alle potenze sunnite, su tutte l'Arabia Saudita, sull'onda degli Accordi di Abramo di trumpiana memoria e che l'amministrazione Biden ha continuato a sponsorizzare, rappresentano per la sicurezza nazionale dell'Iran una dinamica da tenere d'occhio e, possibilmente, da scongiurare, solleticando l'unità dei musulmani di fronte al "piccolo Satana" ebraico.

Il sostegno - seppur velato - espresso per la causa palestinese da parte di Arabia Saudita e Qatar lascia pensare che, almeno sotto il profilo tattico, l'Iran abbia intuito quale sia il punto debole di un accordo percepito come antistorico ed "imposto". Tuttavia, occorre evidenziare come, al contrario, la normalizzazione dei rapporti tra israeliani e potenze del Golfo sia considerata strategica da ambo le parti, tale che l'appoggio alle istanze della Palestina appaia più come figlia di un "sostrato" ideologico che di una reale volontà politica.

Non da ultimo, il coinvolgimento di Israele nella guerra del Nagorno Karabakh a sostegno dell'Azerbaijan, con la conseguente apertura del "corridoio di Zangezur" alla frontiera settentrionale dell'Iran, ha scosso Teheran.

L'appoggio delle nazioni dell'Europa occidentale ad Israele era scontato, mentre un capitolo a parte lo merita la Russia. Già nelle prime ore dell'operazione lanciata da Hamas, Mosca aveva invitato le parti a trovare un accordo, cercando di evitare una escalation, ponendosi, però, in una posizione ambigua.
I legami della Russia con l'Iran, già forti, si sono consolidati al momento della crisi russa dei rifornimenti militari, con la trasformazione del conflitto ucraino in una guerra d'attrito, tale per cui Mosca non può permettersi di entrare in rotta di collisione con Teheran, ma neanche assecondarne troppo le pulsioni anti-israeliane. Se la Russia, come tutte le grandi potenze interessate alle dinamiche mediorientali, ha condotto nel corso di questi anni una politica destabilizzante, oggi, con la guerra d'Ucraina in corso, non può puntare ancora su questa carta.

I pezzi sulla scacchiera sono in movimento e tanto dipenderà da come Israele sceglierà di reagire all'operazione Al-Aqsa Flood.

Foto: U.S. Navy