Conflitto in Tigray e Corno d’Africa. Dove l’area conta più dell’esito

(di Andrea Forte)
15/07/21

In Etiopia i tigrini, guidati dal Fronte di Liberazione del Popolo del Tigray (TPLF) riprendono la capitale Macallè, e incontrano la resa o la ritirata delle truppe governative. La dichiarazione unilaterale di cessate il fuoco proclamato dal primo ministro etiope Abiy Ahmed appare un tentativo di celare, se non una sconfitta totale, perlomeno un definitivo passaggio alla difensiva.

Stante la dinamica, tutta da verificare, la vittoria dei tigrini impone una riflessione su quale sia il progetto che li supporta. Soprattutto però, quale che esso sia, l’area in cui si inserisce, il Corno d’Africa, ha valore geopolitico assoluto non in sé, ma in quanto insiste sugli stretti di Suez e di Bab el-Mandeb, divenendo sponda di trasmissione per passare dal Mediterraneo all’Indo-Pacifico, ovvero alla partita geopolitica più grande del momento. Chi controlla gli stretti, scrive la globalizzazione (che è dominio dei mari) ed esercita l’egemonia.

I tigrini, solo il 6% della popolazione etiopica, hanno per decenni dominato il potere centrale attraverso il Fronte Democratico Rivoluzionario Popolare Etiope (EPRDF), che riuniva i partiti etnici (tra cui il TPLF) del mondo etiope.

Le proteste del 2015-2018 dell’etnia oromo, gruppo più grande con il 35% della popolazione, hanno portato al potere uno di loro, Abiy Ahmed, in coalizione con gli altri gruppi. Il tutto incanalato verso una centralizzazione del potere che, dal punto di vista tigrino, era solo un’esclusione dal medesimo del TPLF. I partiti dell’EPRDF si sono poi unificati nel Prosperity Party, con il rifiuto del TPLF di farne parte.

Emarginato dal potere, il TPLF ha cercato di non farsene schiacciare, ovvero di continuare l’amministrazione autonoma del proprio territorio, spingendo al limite l’articolo 39 sull’autonomia della costituzione etnico-regionalista del Paese. In questo senso, il Tigray legge il rinvio delle elezioni nazionali dell’agosto 2020, causa Covid, come illegittimo, perché parte di un accentramento autoritario e decide di ignorare il divieto del governo di celebrare quelle regionali, svolte dal Tigray a settembre 2020. Elezione e governo tigrino vengono dichiarati illegali, reciproca la reazione tigrina, per cui Ahmed ormai non rappresenta più il Paese.

Si scivola in guerra il 4 novembre 2020. Appare nullo il valore delle elezioni nazionali del 21 giugno di quest’anno, troppo condizionate dalla guerra e dal tentativo di blindare la vittoria di Ahmed, prestando il fianco alle accuse tigrine.

Tutto questo però conta meno del grande gioco geopolitico di cui quest’area è parte. L’internazionalizzazione è connaturata alla regione in sé, non ai motivi locali del conflitto. La prima a intervenire a sostegno del governo etiope è l’Eritrea, che conosce le ambizioni tigrine.

La storia ricorda che quando il potere centrale etiope è stato a cifra tigrina, l’idea è sempre stata l’espansione verso le regioni eritree abitate o da tigrini e da tigrè. La pace recente tra l’Etiopia e l’Eritrea è dunque parte del risentimento tigrino verso il primo ministro, quanto da parte eritrea garanzia sul soffocamento dei sogni del Tigray. Qualunque capacità del Tigray di svincolarsi dal potere centrale fa riemergere ad Asmara la paura per quei progetti. In questo senso il lancio di missili del TPLF contro l’Eritrea è, oltre che tentativo di allargare lo scontro, forse segnale di consapevolezza che, essendo difficile un ritorno dei tigrini in cima al potere centrale, tanto vale rispolverare antiche ambizioni. Anche non riuscisse ad ottenere questo risultato, il TPLF potrebbe ambire almeno ad affossare l’ipotesi di una federazione tra Etiopia ed Eritrea, con la Somalia a margine. Federazione che non potrebbe sorgere né consolidarsi, se all’interno esistesse un Tigray forte. Questa idea federativa renderebbe di nuovo l’Etiopia affacciata ai mari tramite i porti eritrei (Assab e Massaua) e somali (Berbera), ma per arrivare ad essi, il Tigray deve essere sia pacificato, sia allineato. L’escalation reciproca sarebbe parte di questa consapevolezza.

I porti parlano di mare, il mare di dominio, il dominio di egemone, gli Stati Uniti, e del suo sfidante, la Cina. Innanzitutto il più grande svantaggiato da una nuova dinamica del potere portuale nel Corno d’Africa è il principale attore locale escluso dell’idea federativa, Gibuti.

La portata della sfida in questo spazio da parte della Cina la si comprende se si constata che la prima base militare all’estero della medesima è proprio a Gibuti, che da qui passa una delle vie della seta e che la fame geopolitica cinese ha costruito la ferrovia Addis Abeba-Gibuti, che permette il 90 per cento del commercio etiopico. Il fiato cinese si estende anche oltre, per questo gli Usa hanno chiamato gli alleati europei a Gibuti, dove possiedono basi, perché da lì si partecipa al contenimento statunitense del suo rivale. È l’unico luogo a livello globale in cui Stati Uniti e Cina appoggiano a così breve distanza le loro forze (12 km!).

Mari e oceani non sono però le uniche acque importanti della zona. Il Nilo azzurro, affluente del Nilo, vede all’opera il progetto della grande diga etiope, la Grand Ethiopian Reinassance Dam (GERD), un progetto di energia idroelettrica che rischierebbe di compromettere i rifornimenti idrici di Egitto e Sudan, interessati quindi a sostenere qualunque potere controbilanci e financo balcanizzi l’Etiopia, per pregiudicare questo progetto. Proprio qui si inserisce la Turchia, per la quale sostenere l’Etiopia significa contrastare quell’Egitto, laicamente ostile ad ogni odore di fratellanza musulmana, già efficacemente arrestato dalla Turchia in Libia. Riuscire a strozzarlo nella partita dell’acqua e al tempo stesso impegnarlo in Libia assicura al governo etiope la scarsa probabilità di un impegno egiziano su un secondo fronte, tigrino. Lo status quo è inoltre utile alla Turchia per il fatto che, ancora poco potente sul mare, dalla Libia cerca di arrivare fino in Somalia via terra, e da lì all’Indo-Pacifico, verso la grande sfida.

Qualunque esito abbia la partita tigrina, apre diverse incognite. Posta la difficoltà che il 6% tigrino ritorni a dominare del tutto, ripiegare sul grande Tigray è altrettanto complesso (con probabile conseguente disintegrazione dello stato etiope). I tigrini non sono poi l’unica etnia a muoversi. Gli oromo lamentano contro Ahmed di non aver centralizzato sufficientemente il potere su di loro. Il rischio di guerra civile tra oromo e ahmara per la nuova spartizione della torta è sul tavolo.

Sarà la dinamica relativa alla diga, non a decidere, ma a rivelare quale potenza tra Usa e Cina stia prevalendo sul posto (gli altri indicatori non riguardano strettamente la dinamica tigrina). La GERD è la leva per l’Etiopia di farsi potenza regionale. Gli Usa infatti hanno cercato di intermediare tra Etiopia, Egitto e Sudan, ma hanno fallito. Cina e Russia cercano quindi di accreditarsi come più capaci di trovare una soluzione.

Se i tigrini continuassero a far parte dello stato etiope, da vincitori, potrebbero, poiché sostenuti, pur blandamente, finora dagli Stati Uniti, venire incontro, rispetto alla GERD, ai loro alleati regionali, soprattutto all'Egitto.

Se invece, molto improbabile, i tigrini fossero sconfitti e non implodesse l’Etiopia, si potrebbe avere un radicalizzarsi della posizione etiope, tramite proprio la carta della diga, rischiando un nuovo conflitto regionale o evitandolo grazie ad una mediazione strategicamente rivale agli Usa.

La ridefinizione del potere sarà dunque duratura solo se saprà intercettare i veri pesi delle grandi potenze, che qui insistono. Gli Stati Uniti sono interessati a mantenere il dominio di questi Stretti, perché tramite essi continuano a implementare il loro impero informale. Da Bab el-Mandeb passano le merci della globalizzazione americana, ma anche i rifornimenti per le truppe usa nel Golfo Persico. Se l’area ha valore per l’egemone, lo ha per lo sfidante.

Sfida imponente. Gibuti è l’appoggio di una delle vie della seta, ovvero della contro-globalizzazione a stampo cinese che ambisce all’Europa. Non solo, Gibuti si pone come rampa di lancio per tutta l’Africa. La “presa” di Gibuti è allora fondamentale per i cinesi. Lo dimostrano gli investimenti per costruire il Doraleh Multipurpose Port, un terminal commerciale logistico, che raddoppia la capacità portuale gibutina ed è totalmente nella disponibilità della base cinese locale. Mentre la base Usa non ha sbocco diretto al mare...

Tutte le ipotesi rimangono aperte, di fronte a poteri locali fragili, assetati dell’acqua del Nilo e a grandi potenze, assetate dell'acqua dei mari.

Bab el-Mandeb in arabo vuol dire "Porta del lamento". Più che altrove qui, l’urto delle potenze sembra far lacrimare chi vuole dominare.

Foto: web / Ministry of National Defense of the People's Republic of China / Al Jazeera