Libia: sulla scacchiera russo-turca è pericoloso fare gli struzzi

(di Antonio Li Gobbi)
28/12/19

In Libia la cosiddetta “comunità internazionale” ha fallito (non è una novità). Soprattutto ha fallito e continua a fallire un’Italia che dall’attacco franco-britannico contro Gheddafi in poi non è mai stata capace di esprimere nei confronti della sua ex colonia alcuna visione politica autonoma e che si è accodata supinamente (per miopia o per vigliaccheria) di volta in volta a soluzioni decise altrove (e neanche questa è una novità!)

Nessuno nega che, in un mondo ideale, la soluzione della crisi avrebbe dovuto essere il frutto di uno sforzo multilaterale che coinvolgesse tutti i principali attori internazionali nell’ottica di un “approccio complessivo”1 a guida ONU (prioritariamente politico, economico, sociale e solo limitatamente militare). Approccio, peraltro, che viene sempre evocato (purtroppo solo in teoria) e regolarmente rifuggito (nella vita reale).

Così non è stato e, purtroppo, ormai non potrà essere. Il deserto libico è infatti diventato la scacchiera su cui si gioca una nuova partita per il controllo del Mediterraneo. I due giocatori di scacchi sono entrambi abili, spregiudicati e finemente calcolatori: lo Zar ed il Sultano.

Tutto ciò tra lo stupore di un’Europa sempre più inconsapevole e di USA sempre meno interessati.

Non si pensi che in gioco ci sia solo il non disprezzabile patrimonio energetico della Libia (che comunque rappresenta il 38% delle riserve petrolifere del continente africano e che copre una fetta non indifferente dei consumi europei)

Per entrambi i contendenti la partita libica rientra in un disegno geo-politico ben più vasto.

La Russia, che ha recentemente rinsaldato le proprie posizioni in Siria ed Egitto, mira ad espandere la propria area di influenza lungo la costa meridionale del Mediterraneo (un mare che storicamente sempre le è stato negato) e di acquisire una “base” da cui operare in buona parte del Nord Africa.

L’espansione russa nella regione risponde a chiare esigenze strategiche di una nazione che vuole tornare a essere una superpotenza. Grazie ad una politica estera incisiva e realistica e a una lungimirante “vision” strategica, Putin si sta confermando quale unico credibile garante di stabilità nella regione del Medio Oriente e Nord Africa. Un garante che, a differenza dei vari distratti ed incauti inquilini della Casa Bianca, non abbandona i suoi “protetti “ quando sono in difficoltà2 e che può apparire credibile, nonostante le limitate risorse finanziarie del paese, anche nella fase ricostruzione post-bellica.

Inoltre, pensando all’Europa, nei confronti della quale la Russia è notoriamente in grado di esercitare pressioni da Est, Putin tende a proporsi come la potenza di riferimento di molti dei paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo, acquisendo in tal modo anche una capacità potenziale di pressione da Sud, in una virtuale manovra avvolgente.

Dal canto suo, la Turchia sogna il ritorno alla grandezza ottomana, idealizzata in confronto con una certa “ghettizzazione” di cui si proclama strumentalmente vittima oggi. Il Sultano, d’altronde, aveva manifestato interesse per la Libia quando ancora Gheddafi era saldamente al potere. I rapporti tra gli islamisti turchi e il “Colonnello” risalgono alla fine del secolo scorso3. Dopo l’elezione di Erdogan a primo ministro turco nel 2003, Ankara ha avviato proficue collaborazioni con Tripoli in molteplici settori industriali e commerciali e, all’inizio delle rivolte contro Gheddafi, la Turchia era uno dei principali partner commerciali della Libia.

Inoltre, Ankara continua a manifestare un’attenzione decisamente strumentale verso una minoranza etnica turco-fona dislocata nell’area di Misurata4. Ciò le serve anche per giustificare la propria ingerenza come “protezione dei fratelli turchi”.

L’intendimento turco non è, però, solo commerciale ed energetico. Il progetto di Ankara (che in ciò si muove all’unisono con il Qatar) è anche di creare una base di espansione dell’”islam politico” in Libia (o in parte di essa in caso di partizione del paese), con tutto ciò che potrebbe conseguirne per i paesi limitrofi (Italia inclusa).

Nel considerare la situazione occorre prendere anche atto che Erdogan oggi rappresenta per l’Italia uno dei principali fattori di rischio nell’area mediterranea. Da lui abbiamo già ricevuto più di uno schiaffo (dal caso della piattaforma SAIPEM12000 alla recentissima ridefinizione delle ZEE, che danneggia anche noi) e abbiamo sempre “cristianamente” porto l’altra guancia. In politica estera un tale atteggiamento non ha mai pagato.

Non appena Al Sarraj, in costante difficoltà da anni, ha chiesto una chiara e concreta assistenza militare (l’aveva in effetti chiesta anche a noi) la Turchia ha subito fornito la propria disponibilità a inviare un consistente contingente militare per supportarlo. Non ci si faccia ingannare dal fatto che la decisione parlamentare è in programma il 7 gennaio: si tratta di un proforma. Il parlamento approverà entusiasticamente e tutti lo sanno.

L’intervento militare turco sarà verosimilmente concentrato nelle zone occidentali del paese, dove Al Sarraj sulla carta detiene il potere e dove ci sono le maggiori risorse petrolifere libiche: sì proprio quelle che sono (o, forse, potremmo già incominciare a dire “erano”) gestite dall’ENI. Ovviamente ciò sarebbe solo un primo passo nel contesto delle mire turche di acquisire le concessioni per l’esplorazione petrolifera in Libia. L’Italia sarà capace di imporsi per garantire i diritti dell’ENI? I precedenti non danno adito ad ottimismo.

È evidente che un intervento ancora più marcato di Erdogan a fianco di Al Sarraj, a fronte di una perdurante passività italiana, non solo sancirà la totale irrilevanza italiana nella soluzione della crisi libica, ma comporterà anche altri rischi più gravi. Infatti, in tale evenienza si realizzerebbero soluzioni a noi sfavorevoli in molteplici settori (dallo sfruttamento delle risorse naturali da parte dell’ENI al controllo delle migrazioni illegali), settori che probabilmente ci avevano a suo tempo indotto a “puntare”, nella contesa libica, sul “cavallo più scalcinato” (appunto Al Sarraj). Ciò sarebbe già drammatico, ma forse sarebbe il pericolo minore.

Una Libia eventualmente “pacificata” grazie al supporto politico, militare ed economico di Turchia e Qatar diventerebbe, volente o nolente, un laboratorio per i pericolosi esperimenti della fratellanza mussulmana e dell’islam politico più integralista. Il paese potrebbe diventare sia una base da cui l’integralismo sunnita tenterebbe di espandersi nel resto del Nord-Africa, rischiando di destabilizzare Egitto e Algeria (che già hanno avuto alcuni problemi non irrilevanti con l’integralismo sunnita), sia un potenziale “santuario” da cui rilanciare il progetto islamista nei confronti dell’Europa. Tutto ciò a poche ore di navigazione dall’Italia.

Ai margini di questa pericolosa “scacchiera”, non sembra che si muova nulla: Italia, Unione Europea e Stati Uniti appaiono disinteressati ed inerti.

Visto, però, che la Libia è alle porte di casa nostra e non di altri, considerato che né l’UE, né gli USA di Trump (che potrebbe dettare la politica estera USA per altri 5 anni), né – tantomeno – la Francia di Macron ci daranno mai una mano a questo riguardo, preoccupa la passività con cui le autorità politiche nazionali si confrontano con il problema, quasi che fossero convinte che continuando a non fare nulla (o limitandosi a telefonate di convenienza con i leader interessati) prima o poi il problema si risolva da solo. Così non è!

La politica dello struzzo non paga: qualcun altro potrà sicuramente intervenire e imporre la “sua” soluzione, che però non terrà conto di preoccupazioni e interessi italiani.

Analogamente, è troppo tardi e la situazione è troppo deteriorata per pensare che il raggiungimento di una qualsiasi soluzione duratura non debba passare anche (direi quasi soprattutto) attraverso una fase militare. Infatti, anche per mettersi seriamente intorno ad un tavolo di negoziato sarà stato necessario, preliminarmente, il riconoscimento delle rispettive capacità anche sotto l’aspetto militare. Capacità militari che dipenderanno sia per Haftar che per Al Sarraj soprattutto dagli aiuti militari esterni realmente impiegabili e spendibili nel confronto, ovvero da quelli messi in campo (in maniera evidente o meno) da parte dei rispettivi sponsor.

L’Italia, invece, sempre pavida e titubante, sembra continuare a negare l’evidenza e a nascondersi dietro dichiarazioni irrealistiche quali “la soluzione alla crisi libica può essere solo politica, non militare” e a vagheggiare di un improbabile “processo di stabilizzazione che sia inclusivo, intra-libico e che passi per le vie diplomatiche e il dialogo”. Dichiarazioni che, lette nell’ottica della situazione sul terreno, denotano esclusivamente la nostra incapacità di essere rilevanti ed il nostro terrore ad assumere una posizione chiara in merito ad una crisi di cui anche l’Italia (proprio per la sua colpevole passività dal 2011 in poi ) è corresponsabile.

Si è ora giunti al punto in cui (data la nostra posizione nel Mediterraneo) non è più possibile restare alla finestra ad aspettare l’evoluzione degli eventi e non ci possiamo più permettere posizioni di terzietà e di neutralità in relazione alla partita geo-politica che si sta giocando in Libia.

Non illudiamoci di essere in grado di proporci come mediatori super partes, perché non saremmo credibili. Non siamo stati capaci di mediare all’inizio del conflitto, quando forse avremmo potuto proporci in tale veste ai soli Al Sarraj e Haftar. Ora che si tratterebbe di mediare tra Russia e Turchia, saremmo ridicoli solo a pensarci in tale ruolo!

Anche tutto il discutere in merito ad un “inviato speciale “ per la Libia pare soltanto l’ennesima scusa per perdere tempo. Indipendentemente dalla caratura del designato, che potrà essere un mediatore di altissimo livello, quando si scontreranno gli interessi vitali delle due fazioni contrapposte e dei loro potenti e spregiudicati sponsor strategici, cosa potrà mai fare un mediatore espressione di un governo privo di idee, di consapevolezza degli interessi nazionali e, soprattutto, di carattere?

Non illudiamoci neanche di poterci ancora una volta esimere dall’assumere posizioni difficili in attesa di accodarci (come nostro solito) a qualche Organismo sovranazionale. Mi pare,infatti, che non s’intravveda all’orizzonte né la volontà né la capacità da parte dell’UE di prendere una posizione al riguardo (e, per favore, lasciamo perdere la NATO che in Libia ha già fatto abbastanza danni).

È ovvio che scegliendo chiaramente da che parte stare, in questo confronto geo-politico che ha trovato terreno fertile in una Libia a pezzi (a pezzi anche per colpa nostra) pagheremmo tutte le conseguenze della scelta e, sicuramente, le pagheremmo care. Tutte le possibili opzioni si presentano ricche di incognite, rischiose e onerose (politicamente, economicamente e, forse, anche militarmente).

Ove invece, come sembra, continueremo a scegliere di “non scegliere”, di aspettare che altri risolvano per noi la crisi libica continueremo a non aver alcuna voce in capitolo e perderemmo comunque, indipendentemente dallo sviluppo futuro della crisi (che vi sia un successo di Haftar o di Al Sarraj o di più un probabile accordo russo-turco sul tipo di quello siriano per una soluzione di compromesso e di spartizione delle aree di rispettiva influenza).

È vero che prendendo una posizione in merito al confronto geo-politico russo-turco, che potrebbe avere effetti tutt’altro che irrilevanti per l’intero Mediterraneo, qualunque sia la posizione che si assuma ci si esporrà rischi politici ed economici molto gravi. Peraltro, continuando a ignorare che quella che si ci si appresta a giocare in Libia è una partita per il controllo del Mediterraneo e subendo passivamente le conseguenze di ciò che altri decideranno per noi, non è detto che ci si esponga a rischi minori.

Continuando a fare gli struzzi, faremo la fine dei capponi.

1 Noto in ambito ONU e NATO come “Comprhensive Approach”.

2 Si veda da un lato il caso di Bashir Assad e dall’altro quello dei Curdi.

3 Al riguardo sembra certo che l’Islamic Call Society (controllata da Gheddafi) abbia aiutato il partito islamista turco (AKP) nella sua scalata al potere.

4 Tribù Karaghla, risalente all’inizio dell’occupazione ottomana, oggigiorno presente , oltreché a Misurata, a Tripoli, Zawiya e Zliten La tribù pur non superando il 5% della popolazione viene descritta come politicamente ed economicamente influente.

Foto: Cremlino / Türk Silahlı Kuvvetleri / presidenza del consiglio dei ministri / Twitter