Che i velivoli senza pilota (A.P.R.: aeromobili a pilotaggio remoto) siano diventati un game changer nei conflitti moderni e, più in generale, nelle operazioni militari, è un dato ormai accertato, anche se, in realtà, il loro utilizzo non è così nuovo, se solo si pensi che i primi velivoli armati di tal genere risalgano all’inizio degli anni duemila, mentre quelli utilizzati per la sorveglianza siano stati utilizzati già nella guerra del Vietnam.
Oggi, accanto agli Stati Uniti e ad Israele (che ne hanno fatto un largo uso nella guerra al terrore), l’Europa è in prima fila nell’adozione di questa tecnologia, sebbene altre Potenze se ne stiano dotando, oltre che gli stessi gruppi terroristici.
Anche nella guerra russo-ucraina di questi mesi si sta assistendo ad un importante utilizzo, da parte di entrambi gli schieramenti, di tale strumento bellico e, non è un caso che, nelle forniture militari stanziate di volta in volta dal Pentagono per l'assistenza alla sicurezza proprio dell'Ucraina, vi siano anche tali apparecchi1.
Pure le nostre Forze Armate, naturalmente, ne sono dotate e, recentemente è tornata alla ribalta mediatica la notizia secondo cui, le suddette, avrebbero manifestato l'intenzione di armarli.
In realtà, tale possibilità si era paventata già lo scorso anno, all'indomani della pubblicazione del documento programmatico triennale 2021- 2023 del Ministero della Difesa (v.sotto), in cui si era indicato lo stanziamento di un budget da destinarsi proprio a tal finalità: tra i programmi lì riportati, infatti, è incluso quello riguardante l’“Aggiornamento del payload MQ-9”, dove MQ-9 è, per l’appunto, la sigla che indica i droni Reaper. Come si legge nello stesso documento, d’altronde, è chiara la finalità: “In particolare, il velivolo garantirà incrementati livelli sicurezza e protezione nell’ambito di missioni di scorta convogli, rendendo disponibile una flessibile capacità di difesa esprimibile dall’aria. Introdurrà, inoltre, una nuova opzione di protezione sia diretta alle forze sul terreno che a vantaggio di dispositivi aerei durante operazioni ad elevata intensità/valenza”.
Ma, ancor prima, della questione se ne era già interessato il governo Berlusconi il quale, nel 2010, in piena campagna contro i talebani, aveva chiesto a Washington l’autorizzazione ad armare i droni italiani ed acquistare gli apparati guida, salvo poi riceverne risposta negativa perché il sistema era considerato top secret; successivamente, nel 2015, l’Italia aveva rinnovato la richiesta, ottenendo, questa volta, il via libera del governo americano.
Una decisione, quella del ministero della Difesa italiano, che, quanto alla sua “ratio”, sembra in linea con il mutamento degli scenari globali e dall’emergere di un quadro sempre più complesso di minacce e del relativo modo di affrontarle, in un contesto caratterizzato da una rinnovata competizione militare tra gli Stati, molti dei quali hanno anch’essi “cambiato postura”, e che, oltre ai domini e alle modalità tradizionali, si esprime con caratteristiche tecnologicamente sempre più evolute anche in dimensioni c.d. emergenti, quali il dominio spaziale e quello cibernetico.
I vantaggi derivanti dal ricorso a questa (nuova) tecnologia
In linea generale, i droni (il riferimento, naturalmente, è alle categorie superiori), grazie alle loro caratteristiche (velocità, capacità di volo a media ed alta quota, grande autonomia di volo, bassi costi di esercizio) permettono di ottenere elevate prestazioni sia nella condotta di missioni ISTAR (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition and Reconnaissance), sia, in ambiente marittimo e terreste, nell’ambito di operazioni di Pattugliamento, Ricerca e Soccorso.
I Predator B, in particolare, ossia quelli di cui è dotata l’Aeronautica militare italiana, sono in grado di assolvere un’ampia gamma di compiti, grazie alle elevate doti di flessibilità, versatilità ed efficacia che li contraddistinguono2. Tra di essi, uno che è, e che è stato, particolarmente importante, ad esempio è stato quello di rilevare la presenza di minacce quali ordigni esplosivi improvvisati (IED) che rappresentano il pericolo più insidioso e diffuso nei teatri operativi odierni.
Ma i vantaggi sono anche altri, dal momento che, continuando, possono essere effettuate missioni in ambienti operativi ostili, in presenza di contaminazione nucleare, biologica, chimica o radiologica, oppure acquisire dati ed informazioni relativi ad obiettivi di piccole e grandi dimensioni in zone potenzialmente oggetto di operazioni.
Il tutto, si badi, senza alcun pericolo per i piloti, che agiscono da remoto (salvo quanto si dirà da qui a breve), e con una valutazione più approfondita della situazione sul terreno.
L’armamento dei Reaper
Quanto alle armi di cui i nostri APR saranno dotati (verranno anche integrati nuovi apparati per la guerra elettronica che consentiranno di operare in scenari “a più alto contrasto militare”), non è ancora nota la relativa tipologia: in linea generale, un Mq-9 Reaper può portare carichi bellici fino a 1400 kg. Normalmente si tratta di una combinazione di 4 missili aria-terra Agm-114 Hellfire cui si aggiungono alternativamente 2 bombe a guida laser da 230 kg GBU-12 Paveway II o 2 bombe a guida Gps GBU 38 JDAM (Joint Direct Attack Munition) dello stesso peso. Ma, sia nel caso dei missili che delle bombe, si tratta di armamento di estrema precisione idoneo a centrare obiettivi specifici, sia in movimento (carri armati, blindati, pick-up e veicoli in genere), sia statici (edifici, bunker, ricoveri di vario tipo)3.
L’utilizzo dei droni nelle operazioni militari alla luce del diritto internazionale
In linea generale, riguardo le operazioni militari, sono due gli aspetti di maggior interesse per quanto concerne il diritto internazionale e che, d’altronde, sono quelli che le cronache riportano alla luce più spesso:
1) il targeting classico contro forze nemiche (di cui abbiamo esempio, come detto, nell’attuale conflitto russo-ucraino);
2) le c.d. uccisioni mirate (“targeted killings”), che hanno avuto grande input a seguito della politica statunitense di guerra al terrorismo dopo l’attentato alle Twin Towers del 2001.
Il perché delle uccisioni mirate
Iniziando da queste ultime, esse rispondono alla seguente logica che, semplificando, si può spiegare così: se, dopo tanti sforzi, ad esempio, si riesce ad individuare un terrorista, che si nasconde in un determinato posto, e si ha il ragionevole sospetto che, il giorno dopo, egli già non possa stare più lì, ed andare chissà dove, magari a compiere un (altro) attentato, occorrerà agire in fretta, e mettere sul piatto della bilancia diversi aspetti, seguendo i criteri generali, ossia, in particolare, quelli della necessità militare (e della sua inderogabilità), il vantaggio derivante dall’azione in questione, la proporzionalità dei mezzi impiegati, proprio per evitare, o ridurre al minimo, le perdite di innocenti.
Gli effetti collaterali
Gli effetti collaterali principali riguardano, naturalmente, le vittime: da un lato, i presunti criminali/terroristi, uccisi in assenza, spesso, di una guerra formalmente dichiarata e “condannati” senza un regolare processo (vale la regola del “trust us”), colpiti, quasi sempre, non nell’immediatezza di uno o più fatti criminosi loro ascrivibili ma a distanza (anche notevole) di tempo4.
Dall’altra, i civili innocenti che, in effetti, rappresentano l’effetto collaterale per eccellenza, sia che ne sia ucciso uno, sia che ne siano uccisi dieci o venti o di più. Quando ciò accade, quel che si considera è, come già accennato, se il “sangue versato” sia proporzionale al vantaggio “militare” conseguito dall’azione compiuta attraverso il drone.
A tal riguardo, peraltro, ha destato scalpore l’inchiesta del New York Times dello scorso dicembre che, scaturita da un raid a Kabul dell’agosto di quello stesso anno, quando i droni di Biden uccisero una famiglia anziché un commando dell’Isis diretto contro i militari americani impegnati, in quei giorni, nell’evacuazione dell’aeroporto, avrebbe portato ad accertare la morte di migliaia di civili, molti dei quali bambini, causata da “informazioni d’intelligence imprecise, decisioni precipitose e scelte d’obiettivi inadeguati”5.
La normativa internazionale e di guerra.
Quanto, invece, al primo scenario (il targeting classico contro forze nemiche), qualora l’impiego di APR armati ricada all’interno di un formale conflitto tra Stati non sussisterebbe alcun problema dal punto di vista della conformità alle regole dello ius ad bellum.
Al contrario, qualora essi venissero utilizzati "in tempo di pace" e, dunque, in questo caso, chiaramente per le uccisioni mirate di individui appartenenti a gruppi terroristici o sospettati di aver compiuto e/o diretto azioni in loro favore (ed il riferimento, dunque, è allo scenario più sopra esaminato), sia pure in contesti di transizione o di forte instabilità politica, occorrerebbe, per sostenere la legittimità di tali missioni ai sensi del diritto internazionale, accertare preliminarmente se la "guerra al terrorismo" sia riconducibile a una delle due eccezioni al divieto generale dell’uso della forza, ovvero se il ricorso a tale nuova tecnologia militare a controllo remoto sia idoneo ex se a qualificare le missioni anzidette in modo differente rispetto a quelle eseguite mediante mezzi bellici "tradizionali" e a introdurre, per l’effetto, una nuova eccezione al divieto anzidetto.
Il primo orientamento è, naturalmente, quello sposato dagli Stati Uniti: all’indomani dell’attacco alle Twin Towers (ossia il 14 settembre del 2001), il Congresso americano rilasciò al Presidente degli Stati Uniti l’Authorization for the use of military force against terrorists (AUMF), per consentire l’impiego di ogni mezzo necessario a perseguire i responsabili degli attentati di tre giorni prima e ogni individuo o gruppo fiancheggiatore, interpretando in maniera estensiva quel concetto di diritto di autotutela in risposta ad un attacco altrui che, accanto all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nei casi in cui si renda necessario "mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale" (art. 42), è previsto come deroga (art. 51 della Carta ONU) al divieto di uso della forza colà sancito dall’art. 2, paragrafo 4, "contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato" o "in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite".
Queste ultime (Nazioni Unite), dal canto loro, hanno sempre visto con una certa diffidenza questa impostazione, sostenendo che, per quanto sia grave il fenomeno terroristico, esso non possa considerarsi, per la sua intensità, al pari di un conflitto armato, e che sarebbe una forzatura, se non, addirittura, una prassi contra ius quella di combattere una guerra senza luogo e senza tempo ed evidenziando (vedasi, ad esempio, il Report on extrajudicial, summary or arbitrary executions- U.N. doc. A/HRC/14/24/Add.62 del 28 maggio 2010 – del Relatore Speciale del Consiglio dei Diritti Umani Philip Alston, o quello “on Promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism” - U.N. doc. A/68/389 del 18 settembre 2013-, redatto dal Relatore Speciale Ben Emmerson), quindi, come, al di fuori di un conflitto armato formalmente accertato, la possibilità di un "intentional, premeditated and deliberate use of lethal force" realizzato mediante l'impiego di APR non possa ritenersi ammissibile "under international law".
Impiego che, viceversa, sarebbe da ritenersi lecito in caso di un formale conflitto tra Stati, ossia in presenza di una delle due deroghe all’uso della forza prima citate, previste dallo Statuto delle Nazioni Unite, sempre avuto riguardo, però, alle regole dello "ius in bello".
Orientamento, quest’ultimo, condiviso anche dal Comitato Internazione di Croce Rossa, attraverso una intervista rilasciata, nel 2013, dal suo presidente, Peter Maurer, secondo cui, una volta accertata la liceità di un conflitto secondo le norme dello "ius ad bellum"
Oltre a Enduring Freedom, peraltro, si sono sviluppate anche in altre situazioni (si guardi al conflitto Israele-Libano nel 2006 o agli interventi della Federazione Russia in Georgia) delle prassi che hanno ritenuto lecita, alla luce di quanto detto, la legittima difesa contro i gruppi non statali: certo, in quei casi non si parlava di droni, ma di altre armi, ma la strada è quella (d’altronde, come ha osservato lo Special Rapporteur delle Nazioni Unite Philip Alston, un missile sparato da un drone è come un missile sparato da un qualsiasi aviogetto)6.
In prospettiva, però, stante le caratteristiche della guerra al terrore, e la nuova tecnologia militare a disposizione, incentrata proprio sull’uso degli APR, e dei vantaggi da esso derivanti, c’è chi suggerisce di approfondire e sviluppare l’idea anzidetta, ossia di creare, accanto alla categoria dei conflitti formali tra Stati, e di quelli rientranti nelle deroghe previste dalla Carta ONU, un tertium genus, che preveda la possibilità di combattere un conflitto armato "diffuso" (in quanto potenzialmente esportabile in qualsiasi luogo geografico) e "permanente" (perché destinato a concludersi solo quando la minaccia terroristica sarà definitivamente sventata), sulla falsariga di quello ipotizzato dagli USA dal 2001, con l’AUMF prima richiamato.
La strada, però, è lunga ed in salita perché questo presupporrebbe ammettere, da una parte, la possibilità di rendere il mondo intero un campo di battaglia, magari a tempo indeterminato, dall’altra, la possibilità di condurre un conflitto, o, magari, eseguire singole missioni implicanti l’uso della forza letale, sul territorio di uno Stato straniero senza il consenso – anche implicito – di quest’ultimo. Non considerando che, anche qualora esso fosse concesso, ci si scontrerebbe comunque con il diritto alla vita (e quindi con il divieto di uccisioni arbitrarie) che, in quanto tale, è protetto, nel suo nucleo essenziale, da norme generali di natura imperativa e, quindi, insuscettibili di deroga convenzionale.
Per tornare al punto di partenza, le Forze Armate italiane hanno (ed hanno sempre avuto) una sensibilità elevata nel rispetto della normativa internazionale: quel che occorre, è un serio, qualificato ed approfondito dibattito politico (ed etico) al riguardo che, scevro da luoghi comuni, tenga conto della realtà delle cose che, anche la drammatica situazione russo-ucraina7, sta rappresentando in tutta la sua cinica crudezza.
3 Vedasi il rapporto del Centro Studi Internazionail - Cesi, rinvenibile al link
https://www.parlamento.it/application/xmanager/projects/parlamento/file/...
4 Tra le recenti uccisioni mirate, una tra le più discusse, in termini di liceità, è stata quella del generale iraniano Qassem Suleimani, avvenuta a Baghdad, in Iraq, il 3 gennaio 2020, di cui pure, su questa testata, si è trattato: https://www.difesaonline.it/evidenza/diritto-militare/luccisione-di-sole...
6 Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, Report of the Special Rapporteur on extrajudicial, summary or arbitrary executions, Philip Alston. Addendum-Study on targeted killings, 28 maggio 2010, UN Doc. A/HRC/14/24/Add.6, para. 79 (“[…] a missile fired from a drone is no different from any other commonly used weapon, including a gun fired by a soldier or a helicopter or gunship that fires missiles”)
7 Vedasi quanto riferito, ad esempio, dal Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, generale di Squadra Aerea Luca Goretti, alle commissioni difesa congiunte di Camera e Senato lo scorso 16 febbraio: https://it.insideover.com/difesa/la-svolta-dellaeronautica-italiana-poss...
Immagini: U.S. Air Force / ministero della Difesa / Aeronautica Militare / Defence of Ukraine