L’uccisione di Soleimani: crimine o azione legittima?

(di Avv. Marco Valerio Verni)
07/01/20

Sta ancora facendo discutere l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, ad opera degli Stati Uniti d’America, avvenuta nella notte tra il 2 ed il 3 gennaio scorso, quando l’autovettura del comandante della divisione al-Quds (una unità leggendaria che ha avuto un ruolo decisivo nei conflitti di quella regione), che era appena giunto all’aeroporto di Baghdad, in Iraq, è stata colpita da un missile lanciato da un MQ-9 Reaper (un c.d. drone).

Al netto delle conseguenze geo-politiche, tutt’ora difficili da prevedere, e che stanno tenendo il mondo col fiato sospeso, la domanda che qui ci si pone è: si è trattato di un crimine o di una uccisione “lecita”?

Da una parte, è nota la posizione americana che, da dopo l’attentato alle Torri Gemelle, ha intrapreso una vera e propria guerra contro il terrorismo, condotta, per sua stessa natura, "worldwide and permanent".

Come si ricorderà, infatti, il 14 settembre del 2001, il Congresso americano rilasciò al presidente degli Stati Uniti (all’epoca, George W. Bush), l’Authorization for the use of military force against terrorists (AUMF), per consentire l’impiego di ogni mezzo necessario a perseguire i responsabili degli attentati di tre giorni prima e ogni individuo o gruppo fiancheggiatore, interpretando in maniera estensiva quel concetto di diritto di autotutela in risposta ad un attacco altrui che, accanto all’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nei casi in cui si renda necessario "mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale" (art. 42), è previsto come deroga (art. 51 della Carta ONU) al divieto di uso della forza colà sancito dall’art. 2, paragrafo 4, "contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato" o "in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite".

Dall’altra, vi è la posizione delle stesse (Nazioni Unite) che hanno sempre considerato con una certa diffidenza questa impostazione, sostenendo che, per quanto sia grave il fenomeno terroristico, esso non possa considerarsi, per la sua intensità, al pari di un conflitto armato, e che sarebbe una forzatura, se non, addirittura, una prassi contra ius quella di combattere una guerra senza luogo e senza tempo ed evidenziando1, quindi, come, al di fuori di un conflitto armato formalmente accertato, la possibilità di un "intentional, premeditated and deliberate use of lethal force" realizzato mediante l'impiego di APR non possa ritenersi ammissibile "under international law".

Impiego che, viceversa, sarebbe da ritenersi lecito in caso di un formale conflitto tra Stati, ossia in presenza di una delle due deroghe all’uso della forza prima citate, previste dallo Statuto delle Nazioni Unite, sempre avuto riguardo, però, alle regole dello "ius in bello".

Dello stesso avviso, anche il Comitato Internazione di Croce Rossa, secondo cui, solo una volta accertata la liceità di un conflitto secondo le norme dello "ius ad bellum", l’uso degli APR non è certamente vietato dalla normativa di diritto internazionale umanitario (che, naturalmente, non prevede un richiamo esplicito ad essi, ma ne rende implicita l’equiparazione alle armi convenzionali), anche se poi, chiaramente, il loro impiego, si debba ad essa conformare. Quindi: rispetto della distinzione tra obiettivi militari e beni civili, rispetto della popolazione civile, operazioni militari svolte secondo determinati criteri (necessità, proporzionalità, idoneità dei mezzi e dei metodi impiegati, in primis).

Nel caso di specie, un elemento di peso avrà certamente avuto - ci si augura - il lavoro compiuto dall’intelligence degli Stati Uniti, che avrà fornito al proprio presidente un dossier di importanza tale da giustificare una simile azione (peraltro avvenuta in uno Stato terzo - l’Iraq -, in violazione della relativa sovranità nazionale), che, come detto, potrebbe ritenersi forse giustificata solo se compiuta per prevenire pericoli gravissimi per la sicurezza americana o della comunità internazionale. Ma, se da una parte il “forse” è d’obbligo, perché, anche considerando il generale Soleimani alla stregua di un terrorista - come sostenuto da Donald Trump -, la sua uccisione, per le modalità in cui è avvenuta, potrebbe comunque incontrare i limiti spiegati, dall’altra, non si avrà mai probabilmente prova della consistenza del dossier di cui sopra.

1 Vedasi, ad esempio, il Report on extrajudicial, summary or arbitrary executions- U.N. doc. A/HRC/14/24/Add.62 del 28 maggio 2010– del Relatore Speciale del Consiglio dei Diritti Umani Philip Alston, o quello “on Promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism”- U.N. doc. A/68/389 del 18 settembre 2013-, redatto dal Relatore Speciale Ben Emmerson.

Foto: IRNA / The White House