Leggi militari e beni culturali nei conflitti armati per difendere le nostre radici

(di Nicolò Giordana)
23/03/16

L'importanza della tutela giuridica del patrimonio culturale non si è affermata unicamente a livello nazionale bensì è un dato cardine del diritto internazionale che si è mosso in direzione della tutela dei beni culturali specie nei conflitti armati, ovvero in quelle situazioni che più di altre possono mettere in serio pericolo la vita del bene stesso. La stessa disciplina nazionale italiana, cui sono assoggettati tutti i militari operanti nei teatri esteri, si ispira ai principi ultranazionali che entrano in massa a far parte del diritto applicato alle nostre Forze Armate in maniera impregnante. È significativa poi la recente via percorsa dai vertici politici della Difesa che muovono proprio alla specializzazione delle nostre Forze nel campo del cultural heritage.

Brevi cenni in materia di diritto internazionale dei conflitti armati

Prima di addentrarci nell'esamine della normativa internazionale in materia di tutela del patrimonio artistico occorre possedere alcune nozioni fondamentali del diritto internazionale dei conflitti armati, oggi più noto come diritto umanitario. Con il termine D.I.U. oggi si comprende sia il c.d. diritto dell'Aja, sia il c.d. diritto di Ginevra: il primo, relativo alla disciplina dell'uso della violenza bellica tra i belligeranti ed ai rapporti tra i belligeranti ed i soggetti neutrali, trova la propria fonte all'interno delle Convenzioni dell'Aja del 1899 e 1907; il secondo, relativo alla protezione delle vittime nei conflitti armati ed alla tutela della popolazione civile, è rappresentato dalla Convenzione di Ginevra del 1864 novellata dai successivi apporti avuti con le nuove Convenzioni di Ginevra del 1906, 1929 e 1949. L’originario dualismo di questi singoli diritti (quello dell’Aja e quello ginevrino) è stato superato grazie ai Protocolli addizionali del 1977 alle quattro Convenzioni di Ginevra nonché grazie al parere rilasciato, nel 1996, dalla Corte Internazionale di Giustizia circa la liceità dell'uso delle armi nucleari. In quest'ultimo è stato rilevato come le due branche originarie del diritto internazionale dei conflitti armati si siano fuse in un unico sistema di diritto. Il diritto internazionale dei conflitti armati non ha un’origine ben definibile: non possiamo dirlo né eurocentrico né attribuire la sua origine ad altri continenti. In tutte le culture, infatti, si sono sviluppate delle regole che tendevano a regolamentare i conflitti, unica negatività era rappresentata dal contesto giuridico disomogeneo che produceva una serie di norme frammentarie.

Il primo Trattato di diritto dei conflitti armati in senso moderno è la Convenzione sul miglioramento dei feriti in campagna del 1864. Dall'inizio del novecento si sono poi susseguiti numerosi corpi normativi in a questo ambito, soprattutto con la fine del primo e del secondo conflitto mondiale, quando si è sviluppata una forte volontà da parte di tutti gli Stati di regolamentare l'uso della forza: con la Carta di San Francisco si è venuta a formare l’Organizzazione delle Nazioni Unite e si è dato origine all'elaborazione di numerose norme aventi tutte, come dato comune, quello di voler ridurre al minimo l'effetto negativo della guerra.

In primis occorre dunque esaminare la disciplina dell'uso della forza nelle relazioni internazionali. Prima della Società delle Nazioni la guerra era un mezzo ammesso dall'ordinamento internazionale e le sue modalità di esecuzione erano normate dallo ius in bello. Non era necessario dimostrare l'esistenza di un titolo giuridico per ricorrere alla guerra ma questa poteva dichiararsi a tutela di semplici interessi essendo concepita quale mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Si conoscevano ciononostante alcuni strumenti di autotutela differenti da essa, quali la rappresaglia armata piuttosto che l'intervento, o il blocco pacifico, ma per poter ricorrere a questi occorreva dimostrare l'esistenza di un titolo giuridico. In altri termini prima della Società delle Nazioni vi era da un lato la possibilità illimitata di fare ricorso allo strumento della guerra e dall'altro una forte limitazione, quantomeno sul piano probatorio, per poter ricorrere a strumenti alternativi. Il primo impulso verso la tendenza di limitare l'uso della forza armata è riscontrabile nell'art. 1 delle Convenzioni dell'Aja del 1899 e 1907 dove gli Stati contraenti convenivano di impiegare tutti gli sforzi necessari a regolare pacificamente le controversie allo scopo di prevenire, nella misura del possibile, il ricorso alla forza armata nel rapporto tra gli Stati.

Come già è stato detto la prima fonte normativa che limitava in senso proprio l'utilizzo della forza per la risoluzione delle controversie tra gli Stati fu il Patto della Società delle Nazioni, concluso nel 1919 ed entrato in vigore l'anno successivo, il quale non escludeva totalmente la guerra ritenendola sempre possibile dal momento in cui fosse utilizzata in ragione di una condotta assolutamente ostativa tenuta da un determinato Stato. Successivamente, il 27 agosto 1928, è intervenuto il Patto Kellogg-Briand, altresì noto come Patto di Parigi che, pur breve – consta infatti di unicamente tre articoli – ha sancito la rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale condannandone il suo ricorso per la risoluzione delle controversie internazionali. Al termine del secondo conflitto mondiale, il 24 ottobre 1945 entrava in vigore la Carta delle Nazioni Unite che aboliva definitivamente la possibilità di muovere guerra ponendo l'accento non tanto sul fenomeno bellico quanto più sul termine "forza". Il divieto generale è infatti quello di utilizzare la forza nelle relazioni internazionali, divieto stabilito dall'art. 2, pur ponendo, all'art. 51, delle eccezioni secondo la chiave della difesa legittima. Facendo un enorme salto prescindendo dunque dal trattare come sia possibile utilizzare la forza – e quindi tralasciando la trattazione sulle autorizzazioni del Consiglio di Sicurezza – arriviamo al nocciolo di questo incontro.

È solo con il I Protocollo Addizionale alle Convenzioni di Ginevra che viene fermamente stabilito come alcuni beni non possano essere attaccati neppure a titolo di rappresaglia, e qui ritroviamo quelli aventi valore culturale. L'art. 53 ribadisce infatti una proibizione già propria della Convenzione dell'Aja del 14 maggio 1954 stabilendo che i monumenti ed i luoghi di culto non possano essere attaccati in quanto costituiscono l'eredità culturale e spirituale dei popoli. In sede di ratifica, poi, il nostro Paese ha effettuato una dichiarazione interpretativa affermando che tali beni perderanno la protezione accordata nel caso in cui vengano utilizzati in maniera illegittima per scopi militari dal nemico.

La tutela storica dei beni culturali nei conflitti armati

La ragionevolezza che ha spinto il legislatore internazionale a regolare la tutela del bene culturale nel tempo di eventi bellici è stata determinata dal fatto che proprio in occasione dei conflitti armati – siano essi internazionali piuttosto che interni – i rischi per la loro conservazione aumentano sensibilmente. Generalmente i pericoli sono quelli del loro danneggiamento a seguito delle operazioni militari nonché del loro saccheggio o trafugamento. 

La disciplina si è dunque storicamente sviluppata proprio in tal contesto. Le prime norme relative alla protezione dei beni culturali furono contenute all'interno di trattati di diritto bellico aventi ad oggetto conflitti internazionali per poi essere adattati anche ai tempi di pace.

Le origini di questa normativa possono riscontrarsi nella seconda metà del XIX secolo, nel momento in cui viene a formarsi una coscienza internazionale che muove sempre più verso una maggiore considerazione dei beni culturali e della loro importanza per i popoli. Venne quindi tenuta, dietro iniziativa dello zar Nicola II di Russia, una prima Conferenza di Pace convocata all'Aja tra il 18 maggio ed il 29 luglio 1899 che adottò tre convenzioni e tre dichiarazioni, tutti accordi internazionali vincolanti per gli Stati firmatari, e, dal 15 giugno al 18 ottobre 1907, sempre all'Aja si tenne una seconda Conferenza di Pace che, con l'intento di novellare la precedente normativa, adottò tredici convenzioni ed una dichiarazione. Questa, delle Convenzioni dell'Aja, rappresenta una vera e propria codificazione del diritto internazionale di guerra. In queste convenzioni, ed in particolar modo nei Regolamenti relativi alle leggi ed agli usi della guerra terrestre – ossia la seconda Convenzione del 1899 e la quarta Convenzione del 1907 – venivano espressamente previste alcune regole relative alla tutela dei beni culturali. 

Con particolare riferimento ai beni immobili l'art. 27, comma 1, Reg. 1907, stabiliva l'obbligo, per gli Stati in guerra, di adottare ogni misura necessaria ad evitare il più possibile la distruzione degli edifici dedicati alle Arti ed alle Scienze nonché dei monumenti storici in occasione degli assedi o dei bombardamenti sempre che questi edifici non fossero utilizzati per scopi militari. Queste strutture venivano accomunate agli edifici per il Culto o di Opere benefiche, agli ospedali ed a qualsiasi luogo idoneo alla raccolta di malati e feriti. Ma riprendiamo il dato dell'utilizzo per scopo militare: si poneva un corollario per quanto attiene al divieto di usare il bene culturale per fini militari. Lo stesso articolo, al capoverso, prevedeva poi il vincolo dell'individuazione dei beni culturali, degli edifici e dei monumenti attraverso un segno distintivo con lo scopo di facilitare la parte belligerante avversaria nel compito di astensione dal condurre attacchi a questi beni.

Con riferimento ai beni mobili, invece, le norme delle Convenzioni dell'Aja – art. 23, comma 1, lett. G); artt. 46, comma 2, e 47 Reg. 1907 – vietavano in modo generale il saccheggio delle località assaltate ovvero occupate. Tenuto conto di come il periodo in cui vennero sviluppati questi corpi normativi era fortemente caratterizzato da un'ideologia assolutamente liberale dunque con un forte riguardo alla tutela della proprietà privata, appare oltremodo significativa l'equiparazione attuata dall'art. 56, Reg. 1907, dei beni delle istituzioni delle Arti e delle Scienze, di proprietà dello Stato, ai beni degli Enti di Culto e benefici, di proprietà privata. Ciò significava da un lato il divieto di distruzione, di impossessamento, di confisca (salvo per immediata necessità militare), e di saccheggio, e dall'altro lato l'obbligo, per gli Stati, di perseguire le condotte violanti tali disposizioni internazionali. Queste Convenzioni riconoscevano quindi per la prima volta in strumenti giuridicamente vincolanti che anche i monumenti e le opere dell'Arte e della Scienza, al pari di altri beni culturali, dovevano essere destinatari di particolari tutele durante i conflitti armati e tale riconoscimento venne attuato con quello che è certamente il più importante strumento internazionale di garanzia dell'adempimento delle obbligazioni assunte: la responsabilità per la violazione delle norme stabilite. Prima delle Conferenze dell'Aja c'erano stati sì indirizzamenti in questo senso, come la Dichiarazione di Bruxelles del 27 agosto 1874 dell'Institut de Droit International – mai adottata – ed il Manuale di Oxford sulla guerra terrestre adottato dal medesimo Istituto nel 1880, ma pur sempre rimanevano delle opere scientifiche parto di un'istituzione privata e prive di vincolo giuridico per gli Stati. Ora, per la prima volta, veniva ipotizzato, seppur non in maniera espressa, il principio della responsabilità individuale dell'autore della violazione, poi adottato successivamente dal diritto internazionale e che oggi tende a qualificare come crimini di guerra certe violazioni di norme poste a tutela dei beni culturali con la conseguente repressione penale della condotta del singolo. 

Il forte limite di queste Convenzioni era riferibile alla loro applicabilità unicamente alle guerre, ovvero ai conflitti armati internazionali tra due o più Stati in cui o vi era stata una formale dichiarazione di guerra o un comportamento concludente di almeno una delle parti in conflitto. Con lo stato di guerra vi era la sospensione dell'applicazione delle norme del diritto internazionale di pace in favore del diritto internazionale bellico: gli eventi bellici che non erano formalmente guerre erano dunque destinatari delle norme del diritto internazionale di pace. Le limitazioni di queste Convenzioni erano quindi due: in primis il fatto che trovavano applicazione unicamente in situazioni di guerra, e in secondo luogo contenevano la clausola c.d. si omnes ossia la loro applicazione veniva subordinata al fatto che tutti gli Stati belligeranti fossero parte della Convenzione (Art. 2, IV Conv. 1907). Era dunque sufficiente che uno solo degli Stati belligeranti non avesse ratificato le Convenzioni perché queste non fossero applicabili neppure nei rapporti tra gli Stati firmatari parte del conflitto.

Le Convenzioni dell'Aja del 1899 e del 1907, pur rappresentando il primo passo della vincolatività giuridica delle norme poste a tutela dei beni culturali, non possono ottenere un mio giudizio di alta positività perché il bene culturale era tutelato non in quanto tale ma perché paragonato ad altre categorie di beni, non veniva dunque ancora riconosciuto come autonomamente fondamentale. Non venivano poi impedite le rappresaglie belliche ossia non veniva fatto divieto al belligerante di attaccare un bene culturale in risposta ad un inadempimento, di qualsiasi tipo, delle norme del diritto bellico da parte dell'avversario. 

La Convenzione dell'Aja del 1954

Oggi il più importante strumento di diritto internazionale per la protezione dei beni culturali è rappresentato dalla Convenzione dell'Aja del 1954 ratificata dall'Italia in seguito alla L. 7 febbraio 1958, n. 279. Tale Trattato ha un'applicazione tendenzialmente universale in quanto aperto a tutti gli Stati e venne ad essere adottato da una conferenza diplomatica convocata su impulso dell'U.N.E.S.C.O., la United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization. Questo assett normativo rappresenta un importante elemento dell'evoluzione del diritto internazionale dei conflitti armati sviluppatasi a seguito del secondo conflitto mondiale – le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 – ed amplia le tutele dei beni culturali colmando le lacune delle Convenzioni del 1899 e del 1907. Questa Convenzione, ex art. 18, §1 e 2, trova infatti applicazione non solo nel caso di guerra, come propriamente definita, ma in occasione di un qualunque conflitto armato anche in assenza di un formale stato di guerra dichiarato e nel caso di occupazione, totale o parziale, di un territorio anche in assenza di resistenza armata (per esempio trova riscontro anche nelle Peace Support Operations).

La citata clausola si omnes viene qui abbandonata in modo formale – sulla scia di quanto già fatto dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 – fermo restando che sul piano consuetudinario veniva già disapplicata. La Convenzione trova sprigiona dunque i suoi effetti nei confronti degli Stati contraenti anche nel caso in cui uno o più Paesi coinvolti nel conflitto non ne hanno preso parte.

L'innovazione più importante è comunque rappresentata dall'art. 19 che prevede come applicabili alcune disposizioni relative alla protezione dei beni culturali anche in caso di conflitto armato non internazionale, in quelle situazioni dunque di conflitto interno o conflitto armato non internazionale. La novella è di fondamentale importanza in quanto i rischi rappresentati per i beni culturali non si verificano unicamente nei conflitti internazionali ma soprattutto la tutela nei loro confronti è dovuta nei conflitti interni o misti, pensiamo oggi alla situazione rappresentata dall’Islamic State. In questo senso la Convenzione del 1954 appare più ampia rispetto al successivo Protocollo Addizionale del 1977 che prevede sì un divieto di commettere atti di ostilità contro monumenti storici, opere d’arte e luoghi di culto ma tale norma si prospetta applicabile unicamente a conflitti armati non internazionali che abbiano raggiunto un grado di intensità molto elevato (es. Gli insorti hanno acquisito il controllo su una parte del territorio dello Stato). L’art. 16 della Convenzione dell’Aja del 1954, invece, trova una sua applicazione anche all’interno di conflitti armati interni e per tale ragione si manifesta maggiormente garantista rispetto al successivo Protocollo.

La Convenzione del 1954 rappresenta il primo strumento internazionale a valenza universale che predispone uno specifico sistema di tutela dei beni culturali tralasciando la tendenza affermata dalle Convenzioni del 1899 e 1907 di accomunamento dei beni culturali ad altri beni meritevoli di tutela come i luoghi di culto e gli ospedali. A tal riguardo pare di grande importanza la statuizione contenuta all’interno del preambolo secondo cui il danneggiamento del bene culturale appartenente ad un qualsiasi popolo comporta il danneggiamento del patrimonio comune dell’intera umanità. Questa disposizione è molto importante già sul piano dei principi in quanto supera in maniera esplicita la tradizionale visione nazionalistica della protezione dei beni culturali introducendo la nozione di patrimonio comune dell’umanità per cui la tutela dei beni culturali è di interesse universale e non solo del popolo al cui specifico patrimonio culturale si potrebbe ritenere che un determinato bene appartenga.

Di altrettanto rilievo è il fatto che per la prima volta, in un trattato internazionale, viene utilizzato e definito il termine di bene culturale (art. 1 Conv. 1954) sostituendo i più restrittivi utilizzati in precedenza (es. Monumenti storici, edifici o opere dell’Arte e della Scienza). Oggi con “bene culturale” si identificano per il diritto internazionale, a prescindere dalla loro natura pubblica o privata, i beni mobili ed immobili di grande importanza per il patrimonio culturale di ogni popolo, gli edifici utilizzati come contenitori di beni mobili ed i centri monumentali, ovvero aree di interesse culturale: una nozione dunque estremamente ampia ed omnicomprensiva.

All’interno della citata Convenzione, ai capitoli I e II, è presente una distinzione tra protezione generale e protezione speciale: della prima godono tutti i beni culturali che rientrano nella definizione data e che possono essere, a norma dell’art. 6, contraddistinti da un apposito segno distintivo. I beni soggetti alla protezione speciale, invece, solo unicamente coloro i quali sono stati inseriti in un apposito Registro internazionale tenuto dal Direttore Generale dell’U.N.E.S.C.O. e che devono essere contraddistinti dal segno distintivo (art. 10). A questo punto occorre che ci soffermiamo su questo segno. Il primo elemento che viene agli occhi è che, mentre i beni soggetti a protezione speciale devono essere contraddistinti, per gli altri beni non vi è necessità. Questa disposizione mi pare non poco strana, infatti invece di garantire ai beni oggetto di protezione speciale una garanzia maggiore rispetto a quella offerta ai beni culurali “semplici”, abbassa il livello di tutela di questi ultimi non obbligando gli Stati a segnalare quando ci troviamo dinanzi ad una res patrimonio dell’umanità. Questo segno distintivo, detto distintive marking of cultural propriety, ha carattere internazionale, dunque è unico per tutti ed è identificato e descritto all’interno dell’art. 16: uno scudo con l’apice rivolto in basso suddiviso in quadranti da una croce diagonale: le zone ombreggiate sono colorate in blu, il resto in bianco. I beni oggetto della protezione generale non debbono poi essere utilizzati per fini militari quindi per situazioni idonee ad esporli a distruzione o danneggiamento in caso di conflitto armato. Tali beni sono da considerarsi immuni da qualsivoglia atto di ostilità diretto contro di essi anche a titolo di rappresaglia. Agli Stati è fatto obbligo di prevenire e perseguire crimini come il furto, il saccheggio e qualsiasi altro atto di vandalismo condotto nei confronti di tali beni. Discorso analago – semmai rafforzato – è da farsi per i beni coperti da protezione speciale che sono tutelati da un addendo Regolamento annesso alla Convenzione che ne costituisce parte integrante.

Non mi stancherò mai di segnalare come questa Convenzione sancisca a chiare lettere la necessità che sli Stati si preparino già in tempo di pace a predisporre un’adeguata tutela dei beni culturali ed occorre ben specificare come la tutela muova anche dalla conoscienza: in tale ambito trova collocamento la recente linea del Ministero della Difesa italiano che si è fatto pioniere del progetto Caschi blu della cultura per garantire un contingente minimo per ogni missione estera di soggetti preparati alla protezione dei beni culturali. Il lavoro didattico condotto nelle aule universitarie, come questa, e nelle accademie nonché negli Istituti specializzati è fondamentale ed a gran voce contribuisce alla realizzazione di questa volontà del legislatore internazionale di predisporre adeguate misure già prima del verificarsi di un conflitto.

Contestualmente alla Convenzione del 1954 venne adottato un Protocollo per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato che, per la prima volta in un testo giuridicamente vincolante si occupa di un problema assai rilevante: il trasferimento illecito dei beni mobili in tempo di conflitto. Dato significativo è che, a differenza del Regolamento, questo Protocollo non è parte integrante della Convenzione, perciò assume la veste di un distinto accordo internazionale: non necessariamente uno Stato parte della Convenzione deve essere anche parte di questo strumento (e non sarà dunque ad esso vincolato). Questo Protocollo dispone come, nel caso di occupazione di un territorio da parte di un Paese belligerante, questo ha l’obbligo di prevenire l’esportazione dei beni culturali dal territorio occupato e, corollariamente, lo Stato nel cui territorio i beni sono stati illecitamente importati da un territorio occupato, ha l’obbligo di prenderli in custodia e, alla fine delle ostilità, è vincolato a restituirli. A carico dello Stato occupante è poi previsto l’obbligo di indennizzare il possessore di questi beni purché egli sia in buona fede.

Alcuni aspetti negativi della Convenzione del 1954

Questa Convenzione, che pur complessivamente deve essere destinataria di un giudizio positivo, porta con sé alcune criticità. Un primo aspetto negativo che possiamo osservare è che la protezione accordata ai beni culturali in tempo di conflitto non ha carattere assoluto in quanto sia quello di non utilizzare i beni culturali per fini militari, sia l’obbligo di non commettere atti di ostilità diretti contro questi trova esplicita deroga in presenza di una necessità militare imperativa, se il bene culturale in oggetto gode della protezione generale, ovvero di un caso eccezionale di necessità militare ineluttabile, se il bene culturale gode della protezione speciale (artt. 4, §2, e 11, §2). Nel progetto originariamente sottoposto all’attenzione della conferenza U.N.E.S.C.O. del 1954 non vi era alcun indirizzamento al principio dell’esclusione della validità dell’assett normativo costituendo in caso di necessità militare, fu infatti un’espressione minoritaria di Stati importanti a volere – minacciando una mancata adesione alla Convenzione – l’epressione di questa deroga agli obblighi in materia di tutela dei beni culturali. Prevalse dunque la volontà di estendere a quanti più Paesi possibili il novello dato normativo piuttosto che tenere una linea più rigida ma meno attesa dalla collettività internazionale. Il dato non certo trascurabile è però rappresentanto dal fatto che, nonostante tale previsione attenuata, questi stessi Stati o non hanno provveduto alla ratifica o, come per il caso degli Stati Uniti (2009), vi hanno provveduto in ritardo. Un Paese rilevante che non ha ancora ratificato detta Convenzione è il Regno Unito. Occorre però precisare come l’alveo delle norme poste a protezione dei beni culturali sia comunque parte delle consuetudini del diritto internazionale che, per loro stessa natura, sono generatrici di obbligazioni nei confronti di tutti gli Stati, anche coloro i quali si sono astenuti dal firmare la Carta dell’Aja. Per tale ragione, unitamente al fatto che la quasi totalità delle Nazioni membri dell’UE ha firmato tale documento, lo stesso Manual of the Law of Armed Conflict redatto a cura del Ministero della Difesa britannico, sottolinea l’importanza dell’essere a conoscenza dei principi fondamentali della Convenzione del 1954.

La clausola della necessità militare rimane comunque una nozione tradizionale del diritto bellico tenuto conto di come, ogni norma del medesimo, rappresenta il prodotto di un balancing process tra l’esigenza di ossequio dei diritti umani all’interno dei conflitti e la necessità di riconoscere ed attendere alle imprescindibili esigenze militari. La Convenzione lascia spazio aperto, invece di optare per una soluzione maggiormente garantista come quella di individuare specificatamente i comportamenti vietati. Essa vieta tout cour l’attacco al bene culturale prescindendo dal suo uso illegittimo per scopi militari da parte del nemico, consentendo però poi di far deroga a tal divieto in caso di necessità (Artt. 4, 9, 11, §2). In aggiunta a tale deroga generale viene poi operato un collegamento tra l’imunità del bene culturale e la sua inutilizzabilità per scopi militari, ma solo per quanto attiene ai beni che godono della protezione speciale.

Per quanto riguarda questa categoria di beni la Convenzione prevede due eccezioni: la prima è la già citata necessità militare – che dunque pare prevalere su ogni altra esigenza internazionale – e che deroga tanto al vincolo di non uso dei beni culturali per fini militari, quanto a quello di esonerarli da eventuali attacchi (art. 11, §2). In secundis viene previsto che se uno Stato viola gli obblighi generati dalla Convenzione, con ispecie al divieto dell’uso del bene culturale per scopi militari, lo Stato avversario può considerarsi esonerato dall’obbligo di adempimento alla garanzia di immunità del bene dopo aver, a norma dell’art. 11, §1, vanamente richiesto la cessazione della condotta illecita. In questo contesto si colloca come progresso normativo il I Protocollo aggiuntivo del 1977 il quale, all’art. 53, contiene i divieti d’attacco dei beni culturali, di utilizzo per fini militari e di rappresaglia indipendentemente dall’espressione della clausola di necessità militare cui non si fa riferimento.

Un secondo elemento che friziona con la volontà pluri protezionistica dei beni culturali è dato dall’eccessiva onerosità dei criteri necessari all’inserimento del bene nel Registro internazionale dei beni culturali soggetti a protezione speciale. Essi vengono specificati all’art. 8 della Convenzione (mentre la procedura di iscrizione è agli artt. 12 e seg. del Regolamento di esecuzione) ed è previsto come i beni, per poter essere inseriti nell’elenco, debbano trovarsi ad una sufficiente distanza da un grande centro industriale o qualsivoglia obliettivo che possa essere considerato sensibile (per esempio un’arteria di comunicazione). La protezione speciale non appare poi di gran lunga superiore rispetto a quella ordinaria in quanto sia in un caso che nell’altro è previsto, giustamente, l’obbligo del non utilizzare il bene per scopi militari ovvero farne oggetto di atti ostili. Unica differenza è rappresentata dal fatto che tali vincoli, per i beni a protezione speciale, entrano in vigore dal momento della loro iscrizione all’interno dell’apposito Registro potendone dunque godere già in tempo di pace. Come già affermato in precedenza, dunque, la differenza non si traduce, come sarebbe attendibile, in una maggiore protezione dei beni oggetto della protezione speciale ma in una riduzione di tutele per i beni soggetti alla protezione ordinaria. Ulteriore esempio è rammostrato dal fatto che il predisporre il segno distintivo del bene culturale sia un obbligo solo per quelli soggetti a protezione superiore rimanendo un onere per gli altri.

Ultimo puntum dolens è rappresentato dal silenzio in ordine alla previsione specifica di una responsabilità in capo agli Stati per la violazione delle disposizioni della Convenzione essa operando un mero rinvio alle vigenti norme del diritto internazionale consuetudinario. L’art. 28 della Convenzione rafforza alcune disposizioni che già comparvero all’interno dei precedenti Trattati dell’Aja del 1899 e del 1907 ponendo a carico degli Stati l’obbligo di perseguire e sanzionare i soggetti che abbiano commesso – ovvero ordinato di commettere – un’infrazione quale che sia la nazionalità di costoro. Nonostante l’importanza di tale norma permane la sua generalità rispetto alle assonanti già applicabili ai crimini di guerra che, a differenza di quanto previsto dalla Convenzione del 1954, debbono necessariamente avere carattere penale non essendo contemplabile quello disciplinare (che invece ritiene possibile il testo del 1954).

In tal contesto il I Protocollo del 1977 ha previsto, all’art. 85, §4, lett. D), che l’attacco contro monumenti, opere d’arte e luoghi di culto chiaramente riconosciuti – quindi sotto una protezione speciale in base ad un accordo particolare nel quadro di un’Organizzazione intenazionale competente – sia un crimine di guerra qualora commesso intenzionalmente (elemento doloso) ed in violazione del dettato normativo del Protocollo stesso provocando gravi distruzioni. Permane comunque l’esimente nel caso in cui il danno sia collaterale all’operazione militare coperta dal principio della necessità. Dovessimo interpretare, di conseguenza, che crimine di guerra sia unicamente l’attacco diretto contro i beni culturali iscritti nel Registro internazionale sotto protezione speciale, ne diverrebbe che quelli effettivamente tutelati sarebbero realmente pochi. Occorre però specificare come il medesimo citato articolo del Protocollo del 1977, al §3, lett. B), considera come crimini internazionali tutti gli attacchi indiscriminati lanciati pur conoscendo il potenziale rischio che questi possano provocare eccessivi danni ad obiettivi civili (dolo eventuale). In tal senso si è mosso l’art. 3 dello Statuto del Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia (Ris. NU 25 maggio 1993, n. 827) il quale ha previsto, tra i comportamenti perseguibili dalla medesima Corte, le violazioni delle leggi e delle consuetudini di guerra aventi ad oggetto la cattura, la distruzione ovvero il danneggiamento condotto in maniera volontaria nei confronti di istituzioni dedicate alla religione, alla beneficenza, all’istruzione, alle Arti, alle Scienze ed ai monumenti nonché alle opere d’arte. Il medesimo Tribunale ha poi disposto come tale dettame normativo trovi applicazione tanto nel contesto di un conflitto armato internazionale, quanto per un conflitto armato non internazionale prescindendo dalla sua qualificazione di interno o misto (ICTY, App., Tadic, 2-10-1995). Tale assunto è connotato da un enorme rillievo pratico, basti bensare che la prevalente dottrina precedente tendeva ad affermare come per poter configurare un crimine internazionale si dovesse essere in un teatro di conflitto internazionale. Questa decisione della Corte d’Appello dell’ICTY si è avvicinata al concetto del bene culturale come patrimonio dell’umanità e, corollariamente, ha inteso come la sua lesione sia intrinsecabilmente un crimine internazionale in ossequio al bene giuridico leso tutelato: la patrimonialità e l’interesse universale appunto.

Il secondo Protocollo dell’Aja del 1999

Un Protocollo addizionale alla Convenzione del 1954 è stato adottato all’Aja il 26 maggio 1999. Formalmente non si tratta di un accordo sostitutivo del precendete ma più propriamente di un’addenda similare al citato Protocollo in materia di illecito trasferimento dei beni culturali. Per quanto attiene alle questioni già affrontate all’interno della Convenzione, esse dovranno considerarsi vigenti rispetto alle precedenti del 1954 prevalendo, a norma e per gli effetti dell’artt. 2 e 4 Prot. 1999, l’intento obbligazionario più recente.

Un importante dato innovativo è rappresentato dal fatto che, a differenza del precedente assett normativo che, per gli effetti dell’art. 19 della Convenzione del 1954, estendeva ai conflitti armati non internazionali unicamente il rispetto delle norme relative al rispetto dei beni culturali (art. 4 Conv. 1954), il Protocollo del 1999 è intramente applicabile anche ai conflitti armati interni escludendo però in forma esplicita le situazioni di disordine e tensione interna come sommosse, atti di violenza isolati e sporadici ed altri atti di natura simile (art. 22 Prot. 1999). Circa la protezione da garantire ai beni culturali, l’art. 5 conferma l’obbligo in capo agli Stati parte di assumere già in tempo di pace un adeguato sistema di misure precauzionali come l’inventariazione, la pianificazione di misure di emergenza da incendi e crolli e l’identificazione di specifiche authority per la protezione dei beni culturali. In ordine alla protezione da assegnare in tempi di conflitto armato il secondo Protocollo, non volendosi limitare a ribadire gli obblighi di cui all’art. 4 della Convenzione del 1954, predispone una serie di nuovi vincoli da assumere nello svolgimento delle operazioni militari atti ad evitare, in modo quanto più possibile, danni diretti ovvero collaterali ai beni oggetto di tutela (artt. 7, 8 e 13, §2, lett. B) Prot. 1999).

Anche nel Protocollo del 1999 si vuole accordare un quid pluris di tutela a quei beni ritenuti di particolare interesse per l’umanità: il vecchio sistema di protezione privilegiata lascia il posto al nuovo programma di enchanced protection (protezione rafforzata) che trova disciplina nel Capitolo III. Di nuovo, tale regime trova applicazione per quei beni contenuti all’interno di una apposita Lista che, differentemente dal precedente Registro, viene conservata dal World Heritage Committee composto da dodici esperti governativi designati per la durata di quattro anni dai Paesi parte della Convenzione. A tale Ente viene altresì affidato il compito di supervisionalre l’attuazione del Protocollo. Tra le novità mi pare significativo riportare come gli stessi requisiti per l’iscrizione paiono nettamente più accessibili, basti pensare alla caducazione della clausola di necessità di distanza adeguata da un centro industriale ovvero da un importante obiettivo militare.

In punto responsabilità occorre poi definire come il Capitolo IV preveda una disciplina articolata della responsabilità dell’individuo autore materiale della violazione, e ciò rappresenta a chiare note un progresso rispetto all’art. 28 della Convenzione del 1954. L’art. 15 prevede che le serious violations costituiscano sempre illeciti penali da sanzionare con pene appropriate dagli ordinamenti giuridici interni degli Stati parte. Il Trattato fa un elenco tassativo di condotte penalmente rilevanti ivi comprendendo l’attacco ad un bene culturale, la distruzione o l’appropriazione di beni culturali, il furto, il saccheggio e gli atti vandalici e, in caso di bene oggetto di protezione rafforzata, l’utilizzo della res in appoggio all’azione militare. Per quanto concerne le altre violazioni del Protocollo come l’illecita esportazione, l’art. 21 si limita a vincolare gli Stati a predisporre di un adeguato comparto di misure legislative, amministrative ovvero disciplinari fine alla soppressione di dette violazioni.

Un trattamento privilegiato rilasciato ai beni oggetto di protezione rafforzata è poi affermato in sede processuale dove l’art. 16 obbliga i Paesi firmatari ad adottare delle efficaci norme in ordine alla determinazione della giurisdizione per le violazioni gravi: ogni Stato potrà giudicare nel caso in cui la violazione sia stata commessa all’interno del proprio territorio o nel caso in cui l’autore della medesima sia un suo cittadino. In relazione poi ai reati di appropriazione o distruzione ed attacco di un bene oggetto di protezione rafforzata è operativa la clausola dell’aut dedere aut judicare.

Il principio della necessità militare ed il crimine di guerra

Se fino a qui abbiamo delineato un quadro normativo rigido secondo il quale gli Stati debbono limitare in ogni qual modo il danneggiamento dei beni culturali, la domanda che ci dobbiamo porre è se i contingenti militari, e quindi gli Stati di invio, debbano sempre rispondere ogniqualvolta sia leso un bene-patrimonio. La risposta è certamente negativa: se dovessimo sanzionare sempre ogni lesione a beni culturali di fatto impediremmo il corretto espletamento delle necessità militari. Il termine necessità non è usato a caso, infatti nel balancing process tra l'interesse alla conservazione ed integrità dei beni culturali, da un lato, e, dall'altro, le necessità del mantenimento della sicurezza, hanno ruolo primario due principi: la proporzionalità e la necessità militare.

La necessità militare, all'interno del diritto internazionale dei conflitti armati, è sicuramente ravvisabile quale presupposto logico, etico e giuridico per l'esercizio della forza militare. Il diritto bellico contiene infatti una serie di norme che possono essere trasgredite in caso di necessità militare o, come affermava già Marazzi, per ragioni di guerra. In questo caso il gioco forte è dato dal pericolo grave ed imminiente per la sicurezza delle persone o per gli interessi vitali dello Stato. La necessità militare è dunque considerabile quale fonte di legittimazione della condotta generalmente illecita al fine di assicurare la realizzazione di interessi militari imprescindibili e prevalenti su qualsiasi altra esigenza.

In ambito interno l'articolo 44 c.p.m.p. dispone che non è punibile il militare che ha commesso un fatto costituente reato per esservi stato costretto dalla necessità di impedire l'ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, la devastazione, o comunque fatti tali da compromettere la sicurezza del posto, della nave o dell'aeromobile. Appare dunque come una scriminante propria del diritto militare pur avendo una portata generale e pur essendo prevista da una legge speciale. Il concetto corollario che discende dalla necessità militare è sicuramente quello della proporzionalità la quale ha lo scopo di limitare i danni fisiologicamente prodotti dalle operazioni militari. 

Il principio di proporzionalità è contenuto all'interno della Convenzione di Ginevra e del 1949 del I Protocollo Aggiuntivo del 1977 concernente la protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali. Esso ha lo scopo di limitare i danni prodotti dalle operazioni militari riflettendosi sulla tipologia dell’impiego di armi e metodi nel muovere guerra. Tale principio era già statuito all'interno di norme precedenti al corpo normativo venutosi a creare dopo le guerre mondiali: il primo esempio ci è fornito dalla Dichiarazione di Pietroburgo del 1868 in cui lo scopo legittimo della guerra, che era quello di mettere fuori combattimento il maggior numero di uomini, veniva superato nel momento in cui venissero utilizzate armi che aggravavano inutilmente le sofferenze degli uomini messi fuori combattimento ora rendessero inevitabile per loro la morte. Un altro esempio ci è dato dal regolamento allegato alla IV Convenzione dell'Aja del 1907 dove si specificava che non esisteva un diritto illimitato nella scelta dei mezzi atti a nuocere il nemico e che vi era un esplicito divieto dell'uso di armi che causavano mali superflui. In linea generale possiamo dunque dire che le regole poste a protezione sia delle persone che dei beni, nel dettare limitazioni all'impiego della violenza bellica, obbligavano già in passato i comandanti a pianificare ogni azione per accertare che vi fosse una proporzione fra le esigenze militari, il rispetto della popolazione civile, ed il non eccessivo danneggiamento dei beni di carattere civile.

Giunti a questo punto dobbiamo solo più inquadrare le definizioni dei mezzi e dei metodi. È da intendere con il termine mezzo qualsiasi strumento con cui i combattenti esercitano materialmente la violenza bellica nei confronti del nemico, mentre con metodo intendiamo ogni procedimento strategico utilizzato nel corso dei combattimenti per garantirsi la meglio sul nemico. In questa materia troviamo tracce regolamentari nettamente risalenti. Il primo esempio è del 1139. Siamo durante il concilio Laterano Secondo e veniva formalmente dichiarato inadatto per un cristiano l’uso della balestra: è il primo esempio di limitazione nell'utilizzo di un mezzo militare. Successivamente abbiamo altri esempi: nel Diritto della Guerra e della Pace del grande giurista Ugo Grozio, si vietava ogni superfluo spargimento di sangue (1625), nel Contratto Sociale di Jean Jacques Rousseau (1762) veniva specificato come nessun diritto autorizzasse ad infliggere più sofferenze di quanto sia necessario per il raggiungimento della vittoria.

Da tutte queste statuizioni del diritto internazionale dei conflitti armati e dal principio di proporzionalità, nonché dal concetto di vantaggio militare, si giunge alla definizione, contenuta all'interno dello Statuto della Corte Penale Internazionale del 2000, di crimine di guerra (Art. 8): chiunque lanci intenzionalmente attacchi nella consapevolezza che gli stessi avranno come conseguenza la perdita di vite umane tra la popolazione civile, lesioni a civili o danni a proprietà civili ovvero danni diffusi, duraturi e gravi all'ambiente naturale che siano manifestamente eccessivi rispetto all'insieme dei concreti e diretti vantaggi militari previsti.

Avendo ora un quadro più puntuale di quale sia la normativa internazionale da un lato di protezione dei Beni Culturali in caso di conflitto armato, e dall'altro lato di quali siano le norme di carattere internazionale che limitano e nello stesso tempo consentono, seppur limitandolo, un attacco militare ad un bene protetto, possiamo avanzare una riflessione sui recenti sviluppi.

I casi di Palmira e del terrorismo religioso di matrice islamica: fini pratici del diritto bellico volti alla tutela dei beni culturali

Il sito di Palmira, in arabo Tadmur, si trova a metà strada tra il mar Mediterraneo ed il fiume Eufrate e, fin dall’antichità si è imposto come centro florido grazie alle abbondanti sorgenti ea alla propria neutralità rispetto a Roma ed alla Persia. Da sempre ha rappresentato un punto chiave dell’arte antica: ricca di elementi siro-anatolici ed ellenico-romani, fu costituita tra il III ed il II secolo a.C. e disposta come agglomerato urbano tra i due edifici principali: il tempio di Bēl e la fonte Efqa. Le successive ristrutturazioni, di epoca romana, furono attuate sui santuari e sulle vie dando origine ad opere monumentali come la celebre via colonnata.

Dal mese di maggio di questo anno, questo luogo è caduto sotto il controllo dell’I.S.I.S., l’organizzazione terroristica islamico-jihadista, ed è stato oggetto di numerosi danneggiamenti e distruzioni, non solo, l’area dell’anfiteatro romano è stata adibita a luogo di esecuzioni: è qui che, nel mese di agosto, è stato decapitato l’archeologo Kaled al-Asaad, uno dei massimi studiosi del Medio-Oriente e responsabile del sito di Palmira da oltre cinquant’anni. In ultimo, almeno così possiamo auspicare, i giornali di tutto il mondo lo scorso 5 ottobre hanno notiziato in merito alla distruzione dell’Arco di Trionfo, un manufatto di duemila anni.

Alla luce di quanto abbiamo detto nel corso della lezione possiamo quindi provare a rispondere a quella domanda che, del tutto spontaneamente, ognuno di noi si pone: è possibile fermare i terroristi da questi scempi? Io sono solito rispondere a queste che chiamo “questioni sulla volontà” con un antico adagio che recita: volere è potere. Detto ciò occorre analizzare come è possibile arrestarli, ovvero in che maniera il diritto internazionale dei conflitti armati ci consente di operare.

Per prima cosa dobbiamo identificare lo status dei soggetti agenti ovvero dei terroristi. La prima precisazione che, agli occhi del D.I.U., occorre fare è che non possiamo in alcun modo ritrovare delle assonanze tra i membri dell’I.S.I.S. ed i partecipi di un movimento per la liberazione nazionale rinvenendo lo scopo degli affiliati all’organizzazione terroristica di matrice islamica non nell’affermazione, a livello internazionale, di uno Stato da loro rivendicato in base al principio di autodeterminazione dei popoli, bensì nella volontà distruttiva del mondo infedele all’Islam. Non presentano duque profili alcuni se non quelli di bande criminali militarmente ben organizzate che abusano dell’uso della forza in ampio contrasto dei principi cardine del diritto internazionale. Non sono perciò meritevoli di particolari tutele da parte di quest’ultimo e non vedo particolari ragioni che potrebbero escludere un intervento armato contro di essi. Del resto questa è una mia linea che ho avuto modo di affermare già ampiamente in altri contesti e che qui abbozzo solamente per problemi temporali rimandandovi alla lettura di miei contributi lasciati alle riviste del settore.

Affermato dunque come possibile l’intervento armato contro i terroristi islamici non resta che vedere di dare una legittimità, sul piano del diritto internazionale, all’uso della forza. Essa è disciplinata dalla Carta delle Nazioni Unite ed è ammessa solamente con carattere difensivo, viene infatti prevista unicamente nel caso in cui ci si debba difendere da un pericolo grave ed imminente. Gli onori della cronaca, sicuramente, non ci fanno pensare a che tutte le volte in cui sia stato disposto un attacco armato, dal dopoguerra ad oggi, il Paese che ne faceva ricorso viveva quel grado di pericolo richiamato dalle norme del diritto universale. Basti pensare all’attacco americano in Afghanistan, di cui non intendo parlare perché potremmo impiegare lezioni intere, ma sappiate che, in punto legittimità, ha creato non pochi problemi e discussioni. Oggi però, a mio avviso, siamo ad un livello differente: se vogliamo realmente concepire il bene culturale come un patrimonio dell’umanità di enorme importanza (quale realmente è) ed il suo danneggiamento o distruzione come un crimine internazionale, allora possiamo intravedere un bagliore di possibilità per un intervento armato diretto per la tutela di questi beni intendendo come una loro lesione equivalga ad un pericolo serio, concreto, attuale ed ingente per la sopravvivenza della coscienza ed identità universale.

Il problema si riallaccia dunque ora alle scelte dei mezzi e dei metodi di combattimento per evitare quei danni che sono fisiologici nel contesto di un conflitto armato. Ci rifacciamo dunque a quei principi di proporzionalità cui già ho accennato in precedenza. Avviandoci alla conclusione e lasciando alla vostra coscienza la risposta all’interrogativo non mi resta che chiosare dandovi il mio personale parere: credo che difendere i beni culturali sia necessario, anche col pugnale tra i denti: ricordiamoci sempre che quelle pietre, oggi distrutte, sono state posate migliaia di anni fa da nostri simili, pensiamo all’enorme testimonianza che esse rappresentano così collocate, pensiamo a quanto parlano della grande abilità dell’uomo, ricordiamoci che questi beni sono tra le poche tracce che oggi ci permangono della civiltà passata, della nostra storia. Impedire il danneggiamento e la distruzione dei beni culturali ritengo non sia solo un dovere giuridico ma un obbligo morale di qualunque essere normodotato di intelletto ed inizia di qui, dalle aule universitarie, con la presa in coscienza che non tutto si può fare ai beni culturali ma tutto si deve fare per salvaguardarli.

 

DOCUMENTI A SUPPORTO DELLA LEZIONE

Documentazione normativa citata

Convenzione dell’Aja del 1899

https://www.admin.ch/opc/it/classified-compilation/18990006/index.html

Convenzione dell’Aja del 1907

https://www.icrc.org/applic/ihl/ihl.nsf/INTRO/195?OpenDocument

Convenzione dell’Aja del 1954

http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=13637&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECT...

I Protocollo addizionale alla Convenzione dell’Aja del 1954

http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=15391&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECT...

I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 1977

www.icrc.org/applic/ihl/ihl.nsf/Treaty.xsp?documentId=D9E6B6264D7723C3C1...

II Protocollo addizionale alla Convenzione dell’Aja del 1954

http://portal.unesco.org/en/ev.php-URL_ID=15207&URL_DO=DO_TOPIC&URL_SECT...

Contributi letterari citati

Le risorse finanziarie dell’ISIS e la sua politica monetaria

Difesa Online, gennaio 2015

La fabbrica del terrore

Difesa Online, aprile 2015

Come i terroristi ottengono le provvigioni per le azioni destabilizzanti

Difesa Online, giugno 2015

(foto: Difesa Online, immagini dalla città siriana di Maaloula)