L'altro 11 settembre

(di Andrea Forte)
11/09/21

L’11 e 12 settembre del 1683 si svolge vittoriosamente per le forze euro-cristiane, guidate soprattutto dal re della Confederazione polacco-lituana Giovanni III Sobieski, la battaglia di Vienna, il secondo e ultimo assedio che l’esercito ottomano, guidato da Kara Mustafa Pascià, porta alla città. La portata di tale sconfitta non è chiarita dall’esito, poiché anche un’eventuale vittoria non avrebbe fruttato il risultato desiderato dalla traiettoria geopolitica, che l’impero ottomano sta performando.

Il primo errore ottomano è immaginarsi romano, il secondo è fraintendere il centro sia spirituale che materiale della potenza romana, il terzo è sottovalutare il principale nemico della propria postura, i russi, proprio perché l’attenzione e l’energia ottomane erano centrate su un asse sbagliato.

Primo sbaglio. La conquista di Costantinopoli è il punto simbolico più alto dell’immaginario ottomano, intento a compiersi non in quanto turco – anatolico, ma in quanto erede dell’impero romano-bizantino. Reincarnazione della seconda Roma (i sultani dopo la presa della città si titoleranno anche Qaysar-i Rum, Cesare dei Romei), la cui direttrice viene supposta essere la conquista prioritaria dell’occidente, dai Balcani fino al profondo nord europeo, per prendersi le terre appunto di Roma e che chiamerà poi Rumelia. Fino a Vienna, ennesima e mai ultima mela d’oro, ideale compimento imperiale. Ma un impero fatto dai turchi non può essere romano, dev’essere turco.

Non comprendono che la difesa è la principale area di espansione di un impero, terre profonde, dove tenere il nemico lontano dal proprio cuore anatolico, che invece gli ottomani immaginano ancora di dover raggiungere nei Balcani, a Vienna e poi a Roma, e ovunque in un occidente, che non può però appagare le loro esigenze difensive.

Qui si entra nel secondo errore turco. Pensare che Roma fu grande per il dominio delle rotte terrestri, immaginarlo impero omogeneo, perché terragno. Certo Roma è grande per ciò che fa in terra, ma lo è di più quando fa il salto verso il mare, quando omogeneizza, conquistandolo, tutto il Mediterraneo, dando centro e unità, quindi solidità. Farsi Roma avrebbe implicato comprendere che è il dominio dei mari la prima linea rossa della difesa anatolica, che la penisola anatolica è una nave nel Mediterraneo, che è nelle sue acque che riposa il compimento imperiale turco, la sua mitica Kizilelma, la mela rossa, la mistica saggezza del mistero imperiale, ovvero la capacità, che diventa diritto, di dominare armonicamente il mondo. Mistero iniziato migliaia di anni prima, quando i turchi immaginano i prototurchi scendere dai monti Altay. Discesa che sancisce l’inizio di una marcia, marcia che traduce un destino e un diritto ad essere ecumenici in quanto dominatori. Nel Mediterraneo si difende l’Anatolia, nel Mediterraneo si compie spiritualmente, cioè si fa imperiale. Questa è l’unica declinazione dell’eredità romana che sarebbe stata accessibile alla ambizioni e allo strumentario mitico turco. È una marcia che sbaglia sentiero, che non raggiunge la sua anima, ma solo un po’ di terra in più, mai sufficiente a farsi spirito, per permettere ai turchi di diventare se stessi.

Tale errore genera il terzo. I turchi non si accorgono che una più letale Roma sorge nel freddo nordico, Mosca. Paradossalmente è proprio l’errore dell’incompiutezza ottomana a permettere ai russi di farsi impero, in risposta allo loro ancestrale paura dell’elemento turco, che immaginano come reincarnazione di quello mongolo, per secoli oppressore brutale dei russi. Per comprendere l’asimmetria delle rispettive percezioni, per i turchi i russi non sono altro che uno dei popoli del nord. Non comprendono che, se sorgesse un impero russo, le sue ambizioni imperiali sarebbero quasi identiche a quelle turche. I turchi stessi non si percepiscono come reincarnazione dei mongoli, ma popolo che ne è stato vittima, ma che, tuttavia, resistendo al grande nemico dei russi, ha instillato in essi l’idea di essere la replica del vecchio mostro. Linea percettiva insuperabile per i russi, che rispondono con guerre brutali, non in nome dell’ingrandimento, ma in nome del fatto che, se l’unico modo reale di sconfiggere un nemico mortale è reincarnarsi in esso - come i turchi, essi credono, hanno fatto con i mongoli - allora i russi lo faranno con i turchi.

I russi non vogliono allora solo sconfiggere i turchi, vogliono eradicarli dalla terra e dalla storia. Per questo le terre abitate dai turchi non saranno solo conquistate, ma colonizzate, abitate dai russi, proprio per reincarnarsi in quelle terre e per questo stesso motivo i russi vogliono arrivare in Anatolia e a Istanbul, per disintegrare l’ultimo stato dei turchi esistente. Guerra mortale, che i turchi, poiché ottomani, non percepiscono, se non quando non hanno più le forze per vincere, ormai impegnati a difendere i territori anti-strategici di Ungheria e Transilvania.

Inizia così la battaglia strategica suprema per il dominio dell’Ucraina, e più ancora per tutto lo spazio fra Carpazi e Caucaso. I russi infatti capiscono prima dei turchi che il Caucaso e la stessa Crimea non sono sufficienti. Serve tutto l’ulug yurt, l’occidente turco-mongolo, per stringere in una tenaglia, dai Balcani al Caucaso, Istanbul. Dominare questo spazio decide chi sia la vera potenza esterna dell’Europa e chi ne domini la periferia. I russi comprendono che tali terre sono necessarie per arrivare a Istanbul, per i turchi invece il Mar Nero e le sue coste nordiche non sono il centro di un asse strategico. A nord immaginano come principali nemici i tarari di Crimea, non i russi, che nella Crimea vedono la rampa di lancio verso gli Stretti dei Dardanelli, tramite Mar Nero e, prima ancora, capaci di sovrapporre strategia materiale e autocoscienza simbolica, la postazione avanzata di difesa del cuore russo.

Materia e spirito si diceva, e gli ottomani perdono entrambe a nord del Mar Nero. Nel 1552 Ivan IV si proclama ulug khan, il titolo dei sovrani dell’Orda d’oro (il khanato mongolo-turchizzato), con ciò immaginando di scippare la reincarnazione mongola ai turchi (già nel 1547 è il primo granduca russo a proclamarsi zar – cesare – di Russia), ma concretamente ottenendo il nome simbolico di cosa sia il dominio in quelle terre. La Russia riesce non solo ad essere la potenza esterna dell’Europa, ma essere europea e contribuisce, insieme a tanti altri fattori, a schiacciare nell’immaginario europeo il turco come altro per eccellenza, nemico assoluto. I titoli di zar e ulug khan sono il primo passo della marcia per il possesso della steppa occidentale e per riprendersi legittimamente Roma-Costantinopoli-Istanbul.

È il XVII secolo. È il 1683, il disastro ottomano a Vienna appetisce i russi. Alla fine del secolo la Crimea è circondata, non annessa ai russi immediatamente (Canato di Crimea), perché appunto da sola non basterebbe, perché è spada sugli Stretti, come essi lo sono su di lei e sul cuore russo, ma di fatto è soffocata e verrà assorbita nel 1783, quando da quasi un secolo, con il trattato di Istanbul del 1700 (a Carlowitz nel 1699 i russo-ottomani si limitano a deporre le armi momentaneamente) la Russia si vede attribuita l’Ucraina. Con quello di Küçük Kaynarca del 1774 l’impero ottomano riconosce di fatto a quello russo il dominio su tutte le terre a nord del Mar Nero, antipasto del dominio russo su tutta la terra tra Dniestr e Don, l’area che copre i fianchi della Crimea e completa il bastione difensivo russo. L’Ucraina compie tutto e permette di fare tutto. Senza, l’impero ottomano potrebbe rendere insostenibile la permanenza russa nella stessa Crimea. Con il possesso dell’Ucraina si aprono i Balcani alla Russia e sorge la tenaglia balcanico-caucasica russa su Istanbul. Nel 1878 i russi hanno l’esercito alle porte della città. L’impero ottomano si dissolve con la prima guerra mondiale… ma anche quello russo.

Era sul Mar Nero e sulle sue coste, nei mari, che l’impero ottomano avrebbe dovuto portare l’impero, ovvero la sua difesa strategica, ma per farlo avrebbe dovuto prima ancora capire la portata geopolitico-strategica del dominio del Mediterraneo e del valore della talassocrazia in generale.

L’impero si fa sui mari perché lì si fa la potenza. Non farlo ha impedito alla percezione turca di chiudere il Mar Nero ai russi, ostruendo così soprattutto la via balcanica e l’asse Crimea-Dardanelli.

1683-2001. Se il 1683 segna l’inizio della controffensiva vittoriosa delle potenze europee e il declino dell’impero ottomano, pur rimanendo esso ancora potente per molto tempo, si può dire che l’11 settembre 2001 segni l’idea che superpotenza globale e vulnerabilità non siano in contraddizione. A sua volta la pessima gestione dell’affare afghano ha mostrato come le stesse possibilità offensive di una superpotenza non siano di per sé illimitate, soprattutto nella volontà imperiale di implementarle sine die. Il poliziotto di tutto il mondo sembra retrocedere ad amministratore del mondo che conviene difendere. Sul piano della narrazione americana non è l’inizio del declino, ma un disastro perlomeno retorico.

Ripensando al nostro 11 settembre, quello del 2001, e ai vent’anni passati dal primo colpo qaedista al ritiro americano dall’Afghanistan, non si può non vedere un’analogia fra le durate di questi cicli. Anche la battaglia di Vienna infatti scatena una reazione, anch’essa condotta con molta forza nel colpo iniziale e mal gestita nella sua continuità. Porta a più di quindici anni di conflitto, conclusosi con il trattato di Carlowitz del 1699. L’accordo di Doha del 2018 segna a sua volta un ritiro americano da una zona a-strategica per esso, come lo era l’Ungheria per i turchi, ma i turchi poggiano sul loro errore, gli americani se ne possono “disfare”.

Certo nel 1683 i turchi e nel 2001 al Qaeda possono tanto, perché tanti sono i limiti delle potenze che vengono sfidate. In entrambi i casi la religione maschera politiche di potenza. È vero, papa Innocenzo XI nel 1683 chiama all’ “ultima crociata” contro i turchi, e nel 2001 gli estremisti islamici sperano in una crociata più anti-islamica che contro il terrorismo in sé, ma nel 1683 il cristianissimo francese Luigi XIV non esita a spingere i turchi contro l’imperatore austriaco Leopoldo I, a sua volta geloso di Giovanni III di Polonia dopo la vittoria.

Il fronte occidentale nel 2003 si sfalda nella sua componente europea di fronte all’invasione dell’Iraq. Perché appunto è in gioco la potenza, non la religione.