Il tramonto del Sol Levante

(di Mario Veronesi)
03/11/23

Dopo la battaglia del golfo di Leyte, nell’ottobre del 1944, gli americani portarono avanti le ultime grandi offensive della guerra del Pacifico: Luzon, Iwo jima e Okinawa tranquillamente, perché sapevano che la Marina imperiale non avrebbe più esercitato una seria minaccia. Per l’alto comando giapponese era impensabile che le ultime navi da guerra dell’imperatore dovessero essere bombardate nei loro porti o colpite in mare quando si trovavano isolate. Per questo la strategia kamikaze fu applicata anche alla Marina imperiale.

L’ambizioso piano “Sho” che aveva scagliato le forze concentrate della Flotta Combinata contro gli americani a Leyte era nato dalla mentalità kamikaze, provocare tutto il danno possibile con risorse limitate. Proprio con questo scopo era stata formata la “forza speciale d’attacco marino”, che consisteva nel Yamato (foto apertura) e di una piccola scorta di cacciatorpediniere.

La corazzata Yamato usando l’ultima scorta di combustibile si sarebbe diretta verso le spiagge di Okinawa e avrebbe dovuto provocare il massimo danno alla forza d’invasione americana, poi si sarebbe avvicinata alla costa continuando a sparare fino all’ultimo proiettile dai suoi cannoni da 457 mm.

Ma sappiamo tutti come finì (foto). Dopo questo affondamento i rimasugli della Marina imperiale se ne stavano nei porti giapponesi. A Yokosuka c’era il Nagato, la corazzata più forte al mondo, la sua ultima azione si era svolta nel golfo di Leyte dove era sfuggita al disastro delle corazzate. Nel 1945 era ormeggiata, inattiva, privata delle ciminiere e dell’albero maestro per favorire la mimetizzazione. A Kure si trovavano l’Ise e l’Hyuga assurdamente trasformate in trasporti per idrovolanti. L’Haruna, ultimo incrociatore della classe Kongo, e il vecchio Settsu.

Gli aerei delle portaerei americane essendo ormai in grado di volare senza problemi sul territorio giapponese, pianificarono la distruzione di questi malinconici sopravvissuti, era una formale rivincita di Pearl Harbor.

La vendetta prese forma di una terrificante incursione di tre giorni contro le basi navali giapponesi e si concentrò su Kure, affondando l’Amagi, l’Ise, l’Hyuga, l’Haruna, il Settsu e cinque incrociatori, distruggendo completamente le speranze giapponesi di formare un’eventuale squadra suicida con le loro ultime unità. Possiamo definire la data tra il 24 e il 26 luglio 1945, come la data dell’annientamento della Marina imperiale giapponese.

Dopo la guerra il destino delle corazzate giapponesi, che nel luglio del 1945 erano sopravvissute, fu inglorioso. Il Nagato, l’ultima rimasta della flotta da battaglia, fu usata come nave bersaglio nell’esperimento atomico di Bikini (1946), insieme con l’incrociatore Sakawa. Gli altri incrociatori furono usati come bersagli, oppure smantellati o affondati in mare, gli americani fecero un’ecatombe dei sottomarini giapponesi che si erano arresi, affondandoli nell’aprile del 1946.

In seguito alle vittorie americane nel Pacifico, che avevano interrotto ogni collegamento tra l’arcipelago nipponico e le ricche regioni del sud-est asiatico e, con lo scopo di contenere la crescente ed inarrestabile potenza dell’aviazione americana, che si serviva anche delle basi cinesi per attaccare il Giappone, le truppe nipponiche lanciarono alla fine del 1944 una decisa campagna offensiva contro, gli eserciti di Chang Kai Shek (1887-1975).

Questa offensiva si prefiggeva due obiettivi principali: ristabilire per via terra il collegamento con l’Indocina e l’Indonesia, ed occupare le zone dove si trovavano le maggiori basi della 14° forza aerea americana del generale Chennault, comandante delle famosi “Tigri Volanti”, che combattevano in Cina già dall’inizio del conflitto. Una paritetica offensiva era già avvenuta nella primavera dello stesso anno, con il risultato di aver inglobato nell’impero giapponese, vasti territori del centro della Cina, e di aver raggiunto il controllo su tutta la ferrovia Pekino-Hankow.

L’offensiva dell’autunno del 1944 portò al congiungimento delle forze nipponiche della Cina centrale, con quelle dislocate in Indocina ed a Canton, oltre all’occupazione delle maggiori basi americane. Inoltre con quest’avanzata, i giapponesi infliggevano un duro colpo ai cinesi, isolando completamente vaste zone e numerosi eserciti nella Cina sud-orientale.

Un tentativo di sfruttare questo successo, fu quello di puntare su Kweiyang, per tagliare la “strada della Birmania”, che passava da quella città ed investire da sud, la città di Chung-King. Tentativo fallito grazie all’intervento di forze scelte cinesi.

La situazione in Cina, che gli americani giudicavano ormai insostenibile per l’esercito nazionalistico di Chang Kai Shek, mutava improvvisamente nella primavera del 1945, quando i giapponesi in seguito alle condizioni generali strategicamente insostenibili del proprio ancor gigantesco apparato militare, iniziavano a ritirarsi dalla Cina, incalzati dalle truppe cinesi, attestandosi sul fiume Yangtze.

Intanto in Birmania, dopo la battaglia d’Imphal del settembre 1944, riprendevano le operazioni militari, con un’offensiva degli anglo-indiani, degli americani e dei cinesi, che aveva come obiettivo, la conquista di tutto il paese.

Entro la fine d’ottobre, i tre fronti alleati in Birmania centro-settentrionale erano unificati, e tutta la parte nord del paese era occupata. Il 3 maggio 1945 cadeva Rangoon capitale della Birmania, ed entro la fine dello stesso mese, quasi tutto il paese era liberato dall’occupazione giapponese.

Si calcola che con la tattica “salto della rana”, gli americani, passando da un’isola all’altra, avevano isolato non meno di 235.000 giapponesi. Nel frattempo 50.000 giapponesi della Nuova Britannia, 30.000 di Wewak, ultima zona della Nuova Giunea, e i 25.000 di Bouganville, erano attaccati da truppe americane e australiane. Gli altri erano lasciati al loro destino, nell’attesa della fine della guerra.

L’offensiva finale contro il presidio di Bouganville, forte di 25.000 uomini, era iniziato alla fine del 1944 e dopo ampi sforzi, gli alleati non riuscirono a conquistare interamente l’isola, tanto che nell’agosto del 1945 si trovavano ancora piccole unità giapponesi, che ancora combattevano. Non potevano essere trascurati i 555.000 uomini del maresciallo Terauchi che occupavano ancora l’Indonesia, la Malesia, il Siam e l’Indocina francese. Forze ancora qualitativamente valide, concentrate e in un’area, ricca di materie prime.

Contro queste forze, iniziarono l’offensiva, unità aeronavali e terrestri americane, olandesi e del Commonwealth britannico. Queste forze, tra il primo maggio ed il primo luglio, effettuarono numerosi sbarchi nel Borneo settentrionale ed orientale, isolando completamente le isole di Giava, Sumatra, e la Malesia ancora in mano giapponese.

Nello stesso tempo, si andava tracciando l’attacco finale al territorio metropolitano del Giappone. Appena terminati i combattimenti d’Okinawa, gli americani riattivarono le basi aeree dell’isola, da queste e da quelle d’Iwo Jima e di Saipan, con l’ausilio delle forze aeree imbarcate, aveva inizio una successiva offensiva aerea contro l’arcipelago giapponese. Da queste tre basi, gli americani, lanciavano ogni giorno e ogni notte, attacchi sul territorio giapponese, senza incontrare nessuna resistenza. I rimanenti, caccia nipponici erano stati trasferiti in Corea, allo scopo di preservarli per il giorno dello sbarco americano nell’arcipelago giapponese. Per la totale assenza d’aerei nemici, gli americani potevano quindi scendere a bombardare e mitragliare obiettivi d’ogni genere, specie le linee di comunicazioni. Iniziarono violenti attacchi sulle città e sui maggiori centri industriali del Giappone, particolarmente su Tokio, Yokohama, Osaka, Nagoya, e Kobe.

Una svolta importante si ebbe con l’entrata in produzione, nel 1944, del B-29 Superfortress (Model 341/345) era un quadrimotore bombardiere pesante ad elica. Fu anche il più grande tra gli aerei ad aver prestato servizio operativo nel conflitto.

Inizialmente, furono tentati dei bombardamenti diurni di precisione da alta quota su Tokyo, Nagoya, Osaka e Kobe. Visti gli scarsi risultati, il generale LeMay, comandante del XXI Comando Bombardieri di stanza alle isole Marianne, passò ai bombardamenti incendiari.

La prima città colpita fu Kobe il 3 febbraio 1945. Tokyo fu colpita in tre riprese, il 24 febbraio, il 10 marzo e il 26 maggio. Oltre 41 km quadrati della città, quasi interamente costruita in bambù, bruciarono; le stime indicano circa 100.000 vittime.

Nel giugno 1945 due quadrimotori americani del tipo “Liberator”, raggiungevano per la prima volta il mar del Giappone, tra l’arcipelago metropolitano e la costa della Siberia, attaccando naviglio mercantile. Questo attacco toglieva al Giappone la certezza di disporre d’aree non attaccabili. Alla fine dello stesso mese, 450 superfortezze americane, attaccarono i porti e le isole di Kyu-Shu e di Honshu, ponendo al Giappone un blocco completo da ogni lato. Il 14 luglio 1945 si erano verificati i primi cannoneggiamenti delle coste giapponesi, effettuati presso Kamaishi, da parte di navi da battaglia della III flotta.

Il 24 si abbatte sul Giappone il più pesante attacco aereo mai condotto prima da apparecchi imbarcati: 2000 aerei partiti dalle portaerei americane e britanniche, bombardarono duramente Osaka, Sakai, Nagoya, già gravemente colpite in passato. Il 30 luglio 1945 1.200 aerei appartenenti alla “task force 28”, della III flotta americana, attaccarono gli 80 aeroporti della zona di Tokio. Nei primi giorni d’agosto, le cattive condizioni del mare, impedirono agli aerei imbarcati di proseguire con le incursioni sul Giappone, che, però furono sostituiti da bombardieri e dai nuovi caccia “P 61-Black Widow”, partiti dalle basi terrestri. Nel mentre proseguivano i bombardamenti delle superfortezze d’Okinawa, Saipan e Iwo Jima. Questi attacchi ormai paralizzavano completamente la vita in Giappone, le vie di comunicazione non funzionavano più, tutti i trasporti bloccati e resi impossibili, le industrie completamente ridotte a zero, le città distrutte.

Alle 8.45, del 6 agosto 1945 la superfortezza “B29” denominata “Enola Gay” sganciava dall’altezza di 6.000 metri la prima bomba atomica sul centro di Hiroschima, città situata all’estremità occidentale dell’isola di Honshu. L’ordigno era appeso ad un paracadute, che si apriva a 500 metri d’altezza, accorgimento usato allo scopo di colpire, con l’esplosione, un’area più vasta. Si calcola che nell’esplosione morirono 160.000 persone.

Tre giorni dopo un altro ordigno dello stesso tipo era sganciato sull’importante città di Nagasaki, situata sulla costa occidentale dell’isola di Kyushu, le vittime furono 120.000. L’8 agosto 1945 l’Unione Sovietica dichiarava guerra al Giappone.

Il 14 agosto, il Giappone capitolava senza condizioni, avendo avuto assicurazioni sulla sua sola richiesta riguardante la persona dell’imperatore.

Il 15 agosto le Nazioni Unite annunciavano al mondo la fine della 2° guerra mondiale. Negli stessi giorni, le truppe sovietiche occuparono la Manciuria, la Corea del nord, le isole Kurili e Port Arthur. Dopo 40 anni, le forze russe riprendevano il controllo di quella città.

Il 2 settembre 1945, nella baia di Tokio, a bordo della corazzata Missuri, veniva firmato l’armistizio. Apponevano le proprie firme, il generale Mac Arthur e l’ammiraglio Nimitz per gli Stati Uniti, il generale Derevyanko per l’Unione Sovietica, l’ammiraglio Fraser per l’Inghilterra, il generale Blamey per l’Australia, il generale Leclerc per la Francia, il generale Hsu Yan-Chang per la Cina e l’ammiraglio Helfrich per l’Olanda.

In quella giornata, sulle tranquille acque della baia di Tokio, tramontava per sempre il Sole imperiale giapponese.

Foto: U.S. Navy / web