1941/42 "Banzai!": il Giappone all'attacco

(di Mario Veronesi)
20/10/23

Dopo il vincente attacco a Pearl Harbor, il Giappone doveva proseguire, e perseguire i suoi obiettivi, essi comprendevano tutte quelle risorse essenziali (petrolio, caucciù, stagno ecc) che una volta ottenuti avrebbero garantito la possibilità di continuare la guerra contro gli Stati Uniti. Le materie prime di cui necessitavano le industrie pesanti giapponesi erano però, in massima parte, su territori appartenenti alle tradizionali potenze coloniali europee: Francia, Olanda e Regno Unito.

Il 7 dicembre 1941, mentre le portaerei che avevano partecipato all'attacco contro Pearl Harbour erano ancora sulla rotta del ritorno, imponenti convogli giapponesi, carichi d’uomini e d’armi s’avviavano verso le Filippine, Borneo, Sumatra, e la Malesia.

L’attacco sferrato dai giapponesi nell’Oceano Pacifico e nell’Oceano Indiano colpì simultaneamente le basi nemiche da Wake e Guam, alle Filippine, Hong Kong (foto apertura) a Singapore, dalla Birmania al Borneo, creando da un giorno all’altro un fronte terrestre e navale di proporzioni immense.

La Marina Imperiale era, nel 1941, la terza flotta del mondo. Le sue navi, uscite dai cantieri di Yokoama e di Kobe erano quasi tutte di concezione modernissima. Oltre ad una squadra di navi da battaglia di ben 10 unità, i nipponici schieravano 13 portaerei, di cui 5 di recentissima costruzione, 40 incrociatori e un numero imponente di unità minori. I sommergibili erano 73. Il resto della flotta, o vigilava nelle acque di casa o scortava i numerosi convogli che recavano le forze d’invasione.

Quando, i nipponici si lanciarono all’offensiva in tutte le direzioni, occupando una dopo l’altra le principali basi nemiche, il mondo rimase attonito. La superiorità aeronavale venne ribadita dal duplice colpo inferto alla Marina britannica con l’affondamento delle sole due corazzate, Prince of Wales e Repulse, che Churchill era stato in grado di trasferire nel Pacifico; apparve chiaro che nessuno, per molto tempo, si sarebbe potuto opporre efficacemente alla spinta offensiva nipponica.

L’industria giapponese, pur enormemente sviluppata negli ultimi anni, non avrebbe potuto, infatti, mantenere il ritmo richiesto dalle necessità belliche se non avesse potuto attingere, oltre che alle risorse mancesi e cinesi, anche ai notevolissimi giacimenti di minerali d’ogni genere di cui sono ricche le grandi isole della Sonda, la Birmania, l’Indocina e la Thailandia.

Gli sbarchi nel Borneo, oltre che alla conquista dei pozzi petroliferi della grande isola, erano indispensabili per organizzare l’investimento di Giava, di Sumatra e di Timor, oltre che delle Celebes.

In Malesia, nella loro rapida marcia su Singapore, i giapponesi puntavano ad infliggere al nemico un’altra gravissima perdita. Col possesso di Singapore e dell’intera penisola malese, infatti, il comando giapponese avrebbe praticamente impedito al nemico d’operare nelle acque della Sonda e nel golfo indocinese, rendendo, nello stesso tempo possibili l’invio delle sue navi e dei sommergibili sulle rotte per l’India.

Lo sforzo sostenuto dalla flotta da guerra e dalla Marina mercantile nipponica nei primi giorni di guerra fu imponente. Oltre mezzo milione di uomini, con un gigantesco corredo di mezzi bellici e di rifornimenti fu trasportato nelle più diverse direzioni e felicemente sbarcato sul territorio nemico. E non si trattava di superare brevi tratti di mare, bensì di percorrere duemila e più miglia, spesso in acque controllate da navi nemiche, da sommergibili, da aerei, sempre con la minaccia degli uragani, che sono particolarmente frequenti nei mari della Sonda e della Malesia.

Le truppe da sbarco, scelte fra le migliori disponibili, avevano avuto un lungo allenamento alla guerra anfibia e disponevano di speciali imbarcazioni, studiate per renderne facile l’impiego sui bassi fondali delle isole del Pacifico.

Per l’invasione della Malesia, i nipponici avevano ammassato da parecchie settimane nell’Indocina francese una forza considerevole, valutata in circa centomila uomini, la cui maggioranza era stata dislocata nella parte meridionale, facendo prevedere un’ulteriore spinta verso il sud, cioè in direzione della penisola di Malacca.

Le operazioni di transito nella Thailandia si svolsero rapidamente. L’esercito siamese fece alle truppe nipponiche soltanto una resistenza simbolica creando cosi le premesse per una vera e propria alleanza politica e militare.

Un elemento fondamentale che non deve essere dimenticato, se si vuole giudicare oggettivamente la condotta delle operazioni in Malesia era l’estrema preparazione militare e morale delle truppe del Sol Levante. I soldati che sbarcarono a Kota Bharu, Patani e Singora, nel nord del golfo della Malesia, non erano giovani coscritti, come al contrario accadeva tra i britannici. I nipponici giungevano direttamente dalle regioni di Shangai e Canton in Cina. Avevano affrontato una traversata da leggenda, stipati nelle stive delle navi da carico. Temprati dalla ferrea disciplina dei loro superiori uniti in uno spirito di fratellanza militare, che probabilmente non è stato mai più eguagliato.

Gli ufficiali non erano da meno. Trasportano a fatica la loro spada, richiamandosi alla tradizione dei samurai, al fianco della moderna rivoltella. Non avevano privilegi sulla truppa e ne condividono i disagi e le privazioni.

Contemporaneamente all’investimento delle Filippine, i giapponesi realizzarono numerosi sbarchi di sorpresa in altre due grandi isole: nelle Celebes e nel Borneo. Nel Borneo, specialmente nella parte settentrionale appartenente alla Gran Bretagna, i nipponici puntavano soprattutto al controllo degli impianti petroliferi. Le Celebes, invece, erano considerate come una base per ulteriori azioni offensive in direzione della Nuova Guinea e dell’Australia.

Il 27 febbraio 1942 avvenne la battaglia del Mare di Giava tra una forza navale giapponese comandata dall’ammiraglio Takeo Takagi (1892-1944), poi ucciso in azione durante la battaglia di Saipan nel 1944, composta da 2 incrociatori armati con 10 pezzi da 203 mm, ed una squadra multinazionale ABDA (America, Gran Bretagna, Olanda e Australia) al comando dell’ammiraglio olandese Doorman (1889-1942), composta di 5 incrociatori e 9 caccia.

La squadra giapponese aveva il compito di proteggere il convoglio trasportante le truppe destinate ad invadere e occupare Giava, quella ABDA il compito d’impedire lo sbarco. L’azione tattica fu padroneggiata dalla squadra nipponica per la sua superiore velocità. Questa battaglia costituì un tipico esempio di perfetta cooperazione fra incrociatori e caccia.

Il tiro fu aperto a una distanza di 24.000 metri, ma i giapponesi a 16.000 metri lanciarono i loro caccia in un attacco silurante. I siluri attraversarono la formazione alleata che fu costretta a manovrare per evitarli. Un siluro colpì il caccia olandese Kortenaer che affondò rapidamente.

Nel frattempo l’incrociatore britannico Exeter (foto seguente), danneggiato dall’artiglieria con un colpo nelle caldaie, uscì di formazione ripiegando verso la base di Sarabaia. Dopo tre ore di combattimento fu affondato il caccia britannico Electra. Tutte le navi alleate erano state colpite e potevano procedere solo a velocità ridotta. Al tramonto l’ammiraglio olandese si disimpegnò proteggendo la sua ritirata lanciando i caccia contro le navi nipponiche. Nelle ore notturne fu affondato il caccia inglese Jupiter colpito da un siluro senza rendersi conto da che parte fosse arrivato; gli incrociatori olandesi Giava e Ruyter furono silurati ed affondati. Le altre unità che cercarono di fuggire verso Ceylon, furono attaccate e distrutte, l’ammiraglio Doorman fu tra i caduti.

L’isola di Giava difesa da 70.000 soldati olandesi e 15.000 fra americani e britannici si arrese il 9 marzo.

I morti delle campagne di conquista del Giappone, secondo il mito scintoista furono tutti accolti a Yasukuni, il tempio dedicato alle anime di soldati e di tutti quelli che morirono combattendo al servizio dell’imperatore. Il santuario fu costruito a Tokio sulla collina di Kudan nel 1869 su ordine dell’imperatore Meiji (1852-1912) per commemorare le vittime della guerra Boshin, letteralmente (guerra dell’anno del drago, 1868-1869) che aveva avuto come esito la sconfitta dei governi militari (shogunato) e la restaurazione dell’imperatore alla guida del paese.

Foto: web