Mine navali come barriera difensiva di Taiwan: un’ipotesi non tanto folle

(di Andrea Mucedola)
01/02/23

Al termine della II guerra mondiale gli americani lanciarono l’operazione Starvation, un minamento condotto dalle forze aeree dell’esercito degli Stati Uniti per interrompere le attività navali giapponesi. La missione fu avviata su insistenza dell’ammiraglio Chester Nimitz e venne assegnata al generale U.S. Army LeMay che, nell’aprile 1945, impiegò circa 160 velivoli del 313th bombardment wing, con l’ordine di posare, inizialmente, 2.000 mine.

Il minamento fu effettuato in notturna da B-29 Superfortress ad altitudini moderatamente basse, basando la precisione di posa dei campi minati su semplici misurazioni radar. Dal 27 marzo 1945 furono inizialmente sganciate 1.000 mine ad influenza, raggiungendo al termine della campagna la posa di 17.875 mine con gli aerei, 3010 con le navi e 1.020 posate dai sottomarini.

Questo tipo di armi subacquee, nonostante non si volle mai dare una grande risonanza alla loro efficacia, si rivelò il mezzo più efficace per contrastare le navi giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. In termini di danni per unità, le mine navali superarono i siluri dei sommergibili e gli attacchi aerei dalle portaerei o da terra.

Qualcuno azzardò la tesi che, se si fosse accettato il risultato e voluto far continuare la guerra per un altro anno, non ci sarebbe stato bisogno di usare la bomba atomica su Hiroshima.

L’uso di mine navali da parte degli americani avvenne anche in Vietnam, con il minamento della baia di Haiphong nel maggio del 1972. L’operazione contribuì in maniera significativa a costringere Hanoi ai tavoli dei negoziati e ad ottenere un ragionevole accordo di cessazione della guerra.

Sono passati tanti anni e potremmo fare una valutazione azzardata: quale sarebbe la politica più efficace nell’indopacifico in caso di un conflitto di attrito tra Stati Uniti e Cina?

Chiaramente siamo nel mondo delle ipotesi e, per fortuna, i presupposti di un conflitto sono ancora lontani. Analizzando le aree del mar cinese meridionale scopriamo che sono ampiamente minabili e, nel caso di posa di questi ordigni, si potrebbe costringere il traffico mercantile su canali di transito ben definiti.

Il vantaggio di una posa di campi minati difensivi intorno a Taiwan scoraggerebbe l’accesso cinese allo stretto omonimo, impedendogli di penetrare nelle acque territoriali taiwanesi; in pratica potrebbe essere un primo provvedimento difensivo, altamente dissuasivo, in una situazione di conflitto aperto con la Cina. 

Geograficamente lo Stretto di Taiwan è poco profondo e stretto, lungo circa trecento chilometri con una larghezza media di 180 km (130 km nel punto più stretto). La sua profondità media è di sessanta metri (fino ad un massimo di 100 m) e questo comporta che è perfettamente e facilmente minabile. Inoltre, il traffico marittimo nello stretto è incentrato su una fascia d’acqua larga 8 km e profonda circa 20 m, cosa che rende il traffico civile particolarmente a rischio in caso di uso di mine navali.

Gli Stati Uniti, secondo le ultime dichiarazioni, appoggerebbero Taiwan in caso di attacco cinese. La domanda che ci possiamo porre è come. Uno scontro di flotte sarebbe estremamente violento, vedendo in gioco unità aeronavali e di superficie moderne dove, sebbene la differenza sarebbe fatta dalla tecnologia e dall’addestramento delle stesse, le perdite sarebbero ingenti. In ogni caso sarebbe una soluzione estrema e pericolosa per la stabilità internazionale.

In alternativa, si potrebbe prevedere l’impiego delle vecchie ma ancora efficaci mine Quickstrike, una soluzione alternativa e meno diretta di uno scontro fra gruppi navali. Un minamento difensivo del mar cinese meridionale da parte degli americani, in supporto a Taiwan, rallenterebbe possibili azioni cinesi.

Ovviamente non potrebbe escludere a priori un passo successivo che potrebbe comprendere azioni offensive contro il traffico mercantile cinese (il 60% del commercio cinese viaggia via mare e le importazioni marittime in Cina rappresentano un quarto del commercio marittimo globale) ed i porti maggiori di Xiamen, Quanzhou e Fuzhou. Considerando che nel 2018 la Cina ha movimentato 5,5 milioni di tonnellate-chilometro di merci via nave rispetto ai 2,7 milioni di tonnellate-chilometro su rotaia, il danno di un blocco delle rotte marittime sarebbe inaccettabile.

Inoltre, non convenendo a nessuno arrivare ad uno scontro diretto, l’effettuazioni di azioni preventive, a scopo difensivo/dissuasivo, potrebbe essere decisamente vantaggioso. Tra di esse potremmo ipotizzare l’uso delle mine navali.

Le domande che ci possiamo porre sono due:

  • le Forze armate statunitensi sarebbero in grado di farlo in tempi rapidi?
  • la Cina sarebbe in grado di operare prontamente per lo sminamento delle aree interessate?

Partiamo dalla prima domanda. Sorprendentemente la Marina statunitense non possiede una capacità specialistica di posa di mine navali tranne l’impiego, limitato quantitativamente, di alcuni sottomarini. L’unica mina navale attualmente disponibile negli arsenali americani è la vecchia MK 67 Submarine-Laid Mobile Mine (SLMM), propulsa da un siluro Mk 37 modificato. 

Pur essendo la Mk 67 (foto) l’unica mina nelle scorte della Marina degli Stati Uniti che può essere posata clandestinamente da lunghe distanze, si basa su una tecnologia che risale agli anni ’60 e non può essere lanciata dai moderni sottomarini classe Virginia. L’inventario della U.S. NAVY comprende ancora la serie delle Quickstrike, una famiglia di mine lanciabili da aerei in acque poco profonde che possono essere utilizzate contro navi e sommergibili.

In pratica le versioni Quickstrike Mark 62, Mark 63 e Mark 65, rispettivamente da 500, 1.000 e 2.000 libbre, sono delle bombe convertite in mine navali che, nonostante la loro vetusta sono ancora efficaci per contrastare il traffico mercantile in aree marittime sensibili.

Date le caratteristiche geografiche del mar cinese intorno a Taiwan e le attuali capacità di minamento della USN, le Quickstrike (foto) potrebbero essere quindi usate contro il traffico mercantile ma anche sottomarini e navi militari avversarie. In particolare, la versione da 500 libbre potrebbe essere più che sufficiente essendo in grado di causare danni al traffico mercantile. Da un punto di vista strategico, il loro impiego consentirebbe di effettuare un’azione dissuasiva bilanciata, impiegando risorse di poco costo. Inoltre, considerando che la prima missione sarebbe sicuramente covert, il numero di mine lanciabili sarebbe sconosciuto ad eventuali avversari nell’area che potrebbero solo cercare di contenere le pose successive. 

Ovviamente il numero di mine posate sarebbe determinato dagli aeromobili disponibili in funzione della loro capacità di carico utile. Da un punto di visto di impiego, lo stretto di Taiwan è alla portata dei bombardieri dislocati nelle basi aeree statunitensi in Giappone e Guam che potrebbero effettuare le missioni di minamento anche senza bisogno di rifornirsi, trasportando e posando in una sola missione circa 3.000 mine (una quantità comunque non necessaria a scopo dissuasivo che potrebbe essere controproducente, in termini di reazione cinese).

Quale potrebbe essere la reazione cinese?

Un minamento in acque territoriali di Taiwan solleverebbe proteste da parte della Cina ma sarebbe comunque legittimo dal punto di vista del diritto internazionale.

Altra cosa sarebbe un minamento in acque internazionali (soprattutto in quelle contese) che alzerebbe il livello di tensione. La risposta cinese potrebbe essere violenta, con attacchi mirati, in una escalation geopolitica che non risolverebbe però il problema del blocco del traffico mercantile (basta lo scoppio di una sola mina lungo una via di comunicazione marittima per bloccarla). A questo punto si dovrebbe tornare ai tavoli di concertazione per accordarsi sulla necessaria bonifica che avrebbe tempi molto lunghi.

Quanto tempo impiegherebbe la marina cinese a bonificare le aree minate?

Oltre al numero di mine posate, la risposta temporale cinese dipenderebbe dal numero e dall’efficacia dei dragamine/cacciamine disponibili. La Cina possiede quattordici cacciamine/dragamine Tipo 81 (classe Wochi - foto) attivi e sedici dragamine Tipo 82 minori che, apparentemente, sarebbero in grado di contrastare solo mine a contatto ormeggiate (quindi… praticamente non utili).

Inoltre, la marina cinese possiede:

  • Type 529 dragamine/ droni dragamine classe Futi e classe Wonang; Type 8101 dragamine ausiliari da 200 tonnellate;
  • Type 8105 dragamine ausiliari da 366.82 tonnellate;
  • Type 8154 posamine/dragamine ausiliari da 600 tonnellate;
  • Type 792 auxiliary minesweeper

Supponendo che un terzo delle navi non sia disponibile (per manutenzione) si potrebbe ipotizzare una reale disponibilità di una ventina di unità di contromisure mine, di cui la maggior parte con tecnologie non certo allo stato dell’arte. La stima di bonifica cinese potrebbe quindi essere compressa tra 0,8 a 2 mine per unità impiegata al giorno, simile a quella ottenuta a Wonsan (dove i diciotto dragamine americani ottennero una velocità di 0,83 mine bonificate al giorno).

Sebbene la bonifica di Wonsan avvenne negli anni ’50 del secolo scorso, l’efficacia dei mezzi potrebbe non essere migliorata. Con un rapporto di avanzamento simile, anche considerando nessuna operazione di rinfresco del campo minato da parte degli americani/taiwanesi, i tempi di bonifica sarebbero quindi molto lunghi.

In conclusione, gli effetti discendenti di un minamento navale a scopo difensivo nel mar cinese meridionale potrebbe essere una soluzione politica dissuasiva interessante, evitando l’impiego di mezzi di contrasto più aggressivi…

La situazione internazionale è in continuo divenire e si spera solo che il buonsenso da una parte e dall’altra prevalga.

Foto: U.S. Navy / web

(articolo originariamente pubblicato su https://www.ocean4future.org)