Sicurezza in mare e contrasto alle attività illecite

(di Nicolò Giordana)
13/04/16

Per affrontare correttamente il tema della sicurezza in mare dobbiamo da subito specificare come inizialmente per sicurezza marittima si intendesse unicamente nella safety, ossia nella preservazione delle navi dai rischi inerenti alla navigazione. A partire dal caso Achille Lauro si è iniziato a parlare anche di security, ovvero della tutela della nave e dell'equipaggio da azioni esterne. In punto diritto le Convenzioni di riferimento sono quella di Solas, del 1974, e quella di Montego Bay, del 1982, che fungono da cornice generale alla quale riferiscono gli altri trattati multilaterali internazionali nel tema.

Un primo profilo che occorre affrontare in materia di attività illecita in mare è certamente rappresentato dal traffico di oggetti archeologici. Su questo dispone la Convenzione di Montego Bay che all'art. 303 offre il potere di istituire una zona archeologica contigua di 24 miglia sotto la superficie allo Stato affine. In Italia, pur non avendo previsto tale fascia, il Codice dei beni culturali ha dettato una disciplina autonoma, un intento di ultra-protezione del patrimonio culturale. Collegato al tema dei beni culturali è quello del diritto ambientale: altre attività di contrasto si possono avere in materia di inquinamento dove in Italia, pur non avendo una zona economica esclusiva, alcune aree sono state dichiarate di tutela ambientale e nelle medesime trova applicazione la legislazione italiana anche nei confronti di navi battenti bandiere straniere.

Altro tema scottante per quanto attiene la sicurezza in mare è rappresentato dalla lotta alla pirateria. A trattare sono gli artt. 107 e 110, e punto di rilievo è la distinzione tra di essa ed il terrorismo (anche se nella pratica questo è difficile). Il criterio costitutivo del reato di pirateria è quello delle due navi, quella pirata contro un'altra, correlate da un animus furandi privato: la cattura di bene fruttifero. Occorre specificare in tal senso di come l’atto piratesco, salvo un ammutinamento dell'equipaggio, non può essere compiuto da una nave di guerra e si configura unicamente se posto in essere in acque internazionali, nell'alto mare, essendo invece configurabile meramente il reato di rapina a mano armata nel caso in cui l’atto sia commesso in acque territoriali.

Il punto chiave per il contrasto alle attività illecite in mare è dunque rappresentato dalla cooperazione tra gli Stati, cooperazione che è stata attuata anche su altri fronti come per la lotta al traffico di stupefacenti e per il trasporto di armi di ditruzione di massa che potrebbero interessare al terrorismo internazionale.

Un elemento di grande attualità è però rappresentato dal problema concernente l’immigrazione ed i reati che possono nascondersi dietro i rifugiati. L'area di instabilità politica attuale si estende uniformemente in tutto il nord Africa ed il canale preferenziale dell'immigrazione irregolare è proprio rappresentato dal Mediterraneo. Le imbarcazioni utlizzate, che quasi interamente partono dai porti di Zuwarah, Sabratha, Tripoli e Carabulli, per il trasporto di migranti sono di tre tipologie: il gommone, il barcone da 250/300 persone con motore entro bordo, ed il peschereccio. Nel momento in cui la nave militare si avvicina all’imbarcazione al timone non c’è nessuno e gli scafisti si nascondono tra gli altri migranti. Qui sorgono i primi problemi di natura processual-penalistica in materia di giurisdizione italiana ed esecuzione di eventuali atti coercitivi a bordo di tali navi. All’uopo la Direzione Distrettuale Antimafia di Catania ha dichiarato che l’atto coercitivo eventualmente posto in essere ha via preventiva. Su ciò si è anche espressa la Suprema Corte di Cassazione (sent. N. 14510/2014) che ha ribadito le teorie precedentemente espresse.

In ogni caso trova applicazione nelle acque entro il culmine della zona contigua l’art. 6 c.p. che consente l'applicazione della giurisdizione penale italiana ai migranti per perseguire gli scafisti ed i trafficanti. I problemi si manifestano per l’alto mare che, ex art. 7 cp, è parificato al territorio straniero e conseguentemente la giurisdizione italiana è applicabile solo alla stregua di norme internazionali che la consentono. Qui entrano in gioco il diritto di inseguimento, riguardante l'imbarcazione penetrata nella zona contigua italiana che viene perseguita dalle nostre navi e che fugge alla cattura. Tale istituto ci consente di inseguire la nave anche in alto mare sino a che non entri nel mare territoriale di un altro Stato. Secondo istituto è quello della presenza costruttiva ove l'unità madre si mantiene in alto mare e solo le unità secondarie toccano le coste nazionali: in questo caso la giurisdizione si estende dalle imbarcazioni minori alle navi madri. In virtù della legislazione UNCLOS la giurisdizione vi è pure nel caso in cui l’imbarcazione batta bandiera italiana, non batta bandiera o se quella che batte è falsa.

Per tutti questi reati sia l’art. 1235 del codice della navigazione che l'art. 57 c.p. definiscono che il comandante della nave da guerra è un ufficiale dipolizia giudiziaria. In un’imbarcazione però è solo il commissario di bordo che ha una formazione a livello giuridico ed è l'unico cui il comandante può fare affidamento. Il commissario di bordo, dunque, rappresenta l'elemento chiave pur stante la responsabilità in maniera permanente in capo al comandante.

(foto: U.S. Navy / Marina  Militare)