Dalla Marina Militare nasce l’autodifesa. Da Oletti al Bianchi, quando la lotta è un’arte

(di Gianluca Celentano)
02/11/23

Furono i marinai italiani istruiti da quelli giapponesi presenti in Cina a favorire la diffusione delle tecniche di jujitsu, l’arte marziale più antica.

Si hanno le prime notizie su quest’arte solo dal XVI secolo anche se le tecniche tramandate dai Samurai erano già conosciute nel XII secolo. Quest’arte marziale chiamata “arte della cedevolezza” si associa al concetto della neve che flette i robusti rami degli alberi.

Su queste basi nasce l’Aikido, che enfatizza l’assorbimento dell’inerzia dell’avversario presente anche nel jujitsu e, il più competitivo, il judo orientato invece su caricamenti, proiezioni e immobilizzazioni.

Il concetto del jujitsu consiste nell’intercettare la linea di forza avversaria per utilizzarla contro di lui grazie a spostamenti del corpo, colpi, leve articolari, strangolamenti e immobilizzazioni. Non è da escludere che agli inizi del secolo scorso con il termine judo, più semplice da pronunciare, si facesse riferimento anche al jujitsu soprannominato “lotta giapponese”.

Una comprensibile e lunga confusione

La storia della divulgazione di jujitsu e judo in Italia è davvero intricata e assolutamente in salita; trattandosi di una novità, anche l’ignoranza in materia era comprensibile.

Prende vita all’inizio del secolo scorso per volontà dell’allora ministro della Marina Carlo Mirabello, il quale ordinò al capitano di vascello Carlo Maria Novellis di attivare un corso di jujitsu sull’incrociatore Marco Polo all’epoca di stanza in Cina. Dopo qualche delusione, arrivarono anche le prime soddisfazioni sulla pratica di questi sconosciuti movimenti marziali. A gravitare intorno al judo e al jujitsu ci furono diversi nomi e insegnanti, tra cui Umberto Cristini, Pierino Zerella e Carlo Oletti (foto).

È bene precisare però che la nascita del judo va attribuita al maestro nipponico Jigorō Kanō, esperto di jujitsu, il quale aveva espropriato il jujitsu della componente più bellica favorendo le tecniche di sbilanciamento e proiezione al suolo con la minor fatica. A fine ‘800 Jigorō Kanō diede vita con lungimiranza al Kodokan, il tempio, cioè la casa internazionale del judo che ha reso questa forma di lotta sportiva famosa in tutto il mondo con migliaia di scuole. Il Kodokan Goshin Jutsu introdotto dal Kodokan nel ‘56 è l’unico kata di difesa personale tornato nel programma del judo.

I militari tra i primi maestri

In Italia Carlo Oletti, capo cannoniere della Regia Marina, imbarcato su Nave Vesuvio ha avuto un ruolo fondamentale per la diffusione di judo e jujitsu. Dopo aver raccolto gli insegnamenti del maestro nipponico Matsumura nel 1905, al suo rientro in Italia nel 1921, iniziò a formare un centinaio di ufficiali e 1500 istruttori presso la Scuola Militare di educazione fisica a Roma.

Via via l’arte marziale andò conquistando sempre più diversi atleti e divulgatori e probabilmente si cominciò a scindere il jujitsu dal judo in grado di riscuotere molta più popolarità forse per l’aspetto competitivo.

La seconda evoluzione del jujitsu in ambito nazionale avvenne diversi anni dopo nel ‘46 quando, nonostante l’alone di mistero sui concetti di questa arte nipponica, un altro marinaio decise di divulgarla ai pochi eletti della popolazione genovese.

Il sottufficiale “Gino Bianchi”

Biagio Bianchi, conosciuto con il diminutivo di Gino o U sciù Bianchi, è il fondatore del Metodo Bianchi, uno stile abbastanza diffuso e oggi inserito nella FIJLKAM, la Federazione Italiana Judo Lotta Karate e Arti Marziali.

Gino Bianchi nasce a Genova nel 1915 e, durante la seconda guerra mondiale viene imbarcato su Nave Diaz (foto) diretta al porto di Tientsin in Cina. In quel periodo aveva solo buone qualità atletiche per la pratica della boxe francese, arrivata d’oltralpe fino alla sua città. È un fuciliere della Regia Marina e nella base italiana in Cina comincia ad avvicinarsi al jujitsu grazie agli alleati giapponesi maestri dell’arte della cedevolezza.

Qualche curiosità sulla sua storia arriva dal maestro Giancarlo Bagnulo, uno dei nomi più prestigiosi e autorevoli che gravitano oggi intorno al mondo del Jujitsu, dove ricopre il 7° dan, oltre ad essere autore di numerose pubblicazioni.

Oltre l’esoterismo orientale che contorna lo sviluppo del jujitsu nipponico, c’è la curiosa storia del Bianchi militare e poi maestro. Il profilo militare del maestro Bianchi è poco conosciuto, infatti pare non gradisse confidarsi sul suo passato in Marina Militare. Sul suo foglio matricolare ci sarebbero in effetti delle cancellature e note poco chiare che fanno supporre qualche collegamento con l’attività di spionaggio del periodo. Anche nelle numerose interviste video i suoi ex allievi parlano poco della sua esperienza in Cina, menzionando solo l’apprendimento di questa tipologia di lotta. Lo descrivono come una persona severa ma carismatica, cordiale in palestra e capace di essere simpatico e comprensivo, ma solo fuori dagli allenamenti. Nonostante la prematura scomparsa avvenuta nel '65, Bianchi riuscì a far fare a livello nazionale quello che mancava in questa disciplina dai contenuti sino a prima poco chiari.

Un jujitsu italiano

Rientrato in patria nel ‘46, Bianchi (foto) torna alla vita civile come operatore scolastico e decide di divulgare il jujitsu dedicando un enorme lavoro di scrematura e catalogazione delle tecniche apprese durante gli allenamenti in Cina. Crea su dei fogli degli schizzi che hanno aiutato molto il jujitsu a diffondersi con immagini che vengono tuttora utilizzate.

Decide di togliere quello che riteneva superfluo tra cui i termini giapponesi: il mae geri diventa un calcio o una pedata, la mae ukemi, una capriola o giravolta. Insomma, riesce a trasformare un’arte da combattimento del feudo medioevale nipponico in un’autodifesa un po' grezza per il mondo occidentale. Valutando il grado di difficoltà e tipologia, ha inserito 31 tecniche, diventate successivamente 20, in ognuna delle cinque lettere alfabetiche chiamate settori A, B, C, D ed E.

Le tecniche rappresentano uno spunto basilare per le opportunità di azioni difensive, alcune appaiono eccessivamente atletiche, altre un po' troppo complesse ma, in quei tempi post bellici, il bagaglio marziale insegnato dal Bianchi rendeva più sicuri dal rischio di frequenti rapine e borseggi, vista la povertà nel capoluogo ligure.

Curiosa è una certa eccentricità del maestro; un allievo testimonia che talvolta gli allenamenti erano svolti al ritmo della musica pop o rock, forse per caricare maggiormente gli atleti.

Il mascheramento

La palestra del maestro Bianchi, allestita presso un ex teatro in via Salita di Famagosta a Genova, si trovava soprattutto per il passa parola. Si bussava e lui dall’apertura di una botola capiva al volo e sceglieva chi poteva entrare sul suo dojo. Ci furono anche donne fra gli allievi e l’ambiente e l’oggettistica riprendeva alcune connotazioni orientali. Gli indumenti erano simili a quelli della Savate: scarponcini, maglietta e pantaloncini; i keikoji arrivarono più avanti.

Il maestro Bianchi seguiva con interesse anche gli incontri del più conosciuto judo, ma ci teneva a non farsi riconoscere, per questo motivo era abile e fantasioso nel mascherarsi. Una caratteristica che lo collega con il suo passato “segreto” nella Regia Marina?

La diffusione in occidente

La divulgazione del jujitsu e del judo in Europa sono legati a militari o civili in viaggio in Cina o in Giappone all’inizio del secolo scorso. In Inghilterra ad esempio è E.J. Harrison, giornalista e studioso al Kodokan, a portare nei primi del ‘900 le conoscenze di judo a Manchester, mentre Barton Wright imprenditore, è ricordato come un pioniere del jujitsu in terra inglese.

Da ricordare è l’opera inglese di diffusione del jujitsu, la World Ju-Jitsu Federation nata nel ‘76 per merito del Soke Robert Clark scomparso nel 2012.

L’Europa marziale è quindi figlia di militari o di avventurieri dei primi del novecento e delle capacità individuali nel diffondere l’arte o uno stile. In realtà ogni allievo traduce a sua somiglianza e capacità un’arte e, quando le varianti sono molte, ci sono le prerogative di un nuovo stile.

I metodi più antichi del jujitsu prevedevano le katane – le spade – anche per i cavalieri, l’iter formativo era lungo e complesso con diversi nomi in base al tipo di addestramento. Tuttavia essendo il jujitsu tecnicamente abbastanza vasto e carente nei dettagli, molti maestri si sono visti costretti a frequentare anche il judo e il karatè per cancellare probabilmente i vuoti lasciati dal jujitsu. Forse anche Bianchi cercava questo aspetto? È presumibile che questo sia uno dei motivi che non ha mai fatto decollare completamente il jujitsu rispetto al judo o al karatè. Da più di un ventennio però, grazie agli scambi internazionali, il jujitsu sta vivendo un periodo di gloria con programmi integrati e completi e diverse specialità sorte dalle sue basi: il grappling-brazilian jj, cioè la lotta a terra e parte del krav maga, l’essenza dell’autodifesa nata per i militari israeliani.

Oggi tra gli atleti che osservano l’aspetto storico delle arti marziali non è difficile sentirsi dire che: il risvolto della medaglia della nascita di interessanti associazioni e federazioni che hanno diffuso le arti marziali, è la perdita dello spirito marziale per far posto ad interessi mediatici ed economici.

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