Roberto Menia: 10 febbraio. Dalle foibe all’esodo

Roberto Menia
Ed. Il Borghese, Roma 2022
Pag.306

“Questo libro è una raccolta di storie. Storie di un mondo che non c’è più, di luoghi che non si riconoscono più per quel che erano e rimangono solo luoghi dell’anima, di uomini e donne figli di un popolo ormai disperso dall’Italia all’altra parte del mondo.” Così il senatore Menia ci introduce a questo suo libro, suddiviso in sessanta storie che hanno un filo conduttore: le atrocità commesse dai comunisti titini - sulle quali, per anni, c’è stato un assurdo silenzio – nei confronti di “migliaia di persone uccise barbaramente nelle foibe colpevoli solo di essere italiani o di essere servitori dello Stato. Una pagina nera soprattutto per l’Italia che ha dimenticato i propri figli” iniziata con “lo sbandamento politico, militare e istituzionale seguito all’8 settembre 1943 che lasciò le popolazioni dell’Istria in balia dell’avanzata dei partigiani jugoslavi di Tito che per oltre un mese infierirono su quanto vi era d’italiano. A quella prima ondata di infoibamenti e massacri, terminata grazie al ristabilirsi di presidi statuali italiani ne seguì una seconda alla fine della guerra quando, dal maggio 1945, i titini, padroni incontrastati della situazione da Trieste a Gorizia a Pola, Fiume e Zara, completarono il loro disegno di snazionalizzazione e pulizia etnica ai danni degli italiani, con ulteriori massacri, infoibamenti, violenze, soprusi che proseguirono nei territori ceduti anche a vari anni di distanza dal 1945 e provocheranno l’esodo di centinaia di migliaia di italiani.”

A questo va aggiunto “lo scandalo degli infoibatori che ricevevano la pensione dell’INPS che è un’altra delle vergogne sempre taciute da quest’Italia.”

La prima storia è dedicata a Norma Cossetto, una ragazza di 23 anni - che viveva nella penisola istriana, a Santa Domenica di Visinada - colpevole di essere la figlia di Giuseppe, podestà ed ex ufficiale della Milizia. I comunisti titini non trovando suo padre in casa, portarono via lei. La notte tra il 4 e 5 ottobre 1943 “Norma e gli altri prigionieri, legati tra loro con fili di ferro, furono condotti a piedi alla foiba di Villa Surani, un orrido di 136 metri di profondità, e qui fatti precipitare, ancora vivi.” Prima che questo accadesse, secondo la testimonianza di una persona che abitava vicino al luogo dove era stata imprigionata, Norma fu violentata dai comunisti titini. Quando il suo corpo fu recuperato, Norma aveva “un pezzo di legno ficcato nei genitali”.

“A Norma Cossetto, Concetto Marchesi, professore comunista e deputato della costituente, rettore dell’Università di Padova, volle assegnare la laurea honoris causa: e, a chi gli obiettò che non si trattava di un’antifascista, rispose che ne era degna perché morta per essere italiana.” Nel 2005 il presidente della Repubblica le conferì la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria.

C’è chi fu costretto, come Giuseppe Cernecca, a portarsi “sulle spalle la croce del suo calvario: un pesante sacco di pietre col quale lo avrebbero lapidato.” Dopo averlo massacrato a colpi di pietre, i comunisti titini lo decapitarono e portarono la sua testa da un orologiaio per fargli estrarre due denti d’oro.

A recuperare molti corpi infoibati fu Arnaldo Harzarich, maresciallo dei vigili del fuoco di Pola, diventato, per gli istriani, l’Angelo delle foibe mentre, per i partigiani titini, divenne bersaglio di minacce.

Il 31 ottobre fu l’ultimo giorno di Zara italiana, capitale della Dalmazia. “A Zara non c’erano foibe. Ma il mare. I partigiani scelsero l’annegamento come metodo per fare scomparire le vittime.” Lì venne assassinato Nicolò Luxardo e gli fu confiscata “l’antica fabbrica dei Luxardo che aveva reso famosa Zara nel mondo per il suo Maraschino.” A Malga Bala (ora in Slovenia) vennero uccisi dodici carabinieri solo perché italiani. Il vicebrigadiere Perpignano fu impiccato “a testa in giù legato a una trave perché vedesse il supplizio dei suoi uomini” che vennero massacrati a colpi di piccone. “Finire un uomo col piccone era un sistema che, nel codice comunista di allora, significava disprezzo assoluto, umiliazione, annullamento… A qualcuno furono asportati i genitali e conficcati in bocca. Ad altri furono levati il cuore e gli occhi.”

Fiume, oggi scomparsa dalla memoria nazionale, “offrì alla madrepatria un tributo enorme di vite e di esempi che non debbono andare perduti,” nonostante, “per non infastidire il suo vicino croato, il suo nome italiano nemmeno si pronunci più perché oggi si chiama Rijeka.” Un esempio per tutti è quello del diciottenne Giuseppe Librio, ucciso con un colpo alla nuca dai partigiani slavi perché, arrampicatosi sul pennone di Piazza Dante, “strappò la bandiera rosso bianco blu e rimise a garrire il tricolore d’Italia.”

Quando la Commissione interalleata dei quattro Grandi si recò in Istria per valutare la volontà della popolazione di essere annessa alla Jugoslavia, ai bambini fu insegnato a gridare viva Tito e alzare il pugno chiuso. “Ma quando furono di fronte alle automobili della commissione, i bimbi aprirono i loro piccoli pugni e apparvero i palmi delle loro mani dipinti di rosso, bianco e verde. […] A Pisino, un biglietto fatto pervenire da una mano anonima ai delegati della Commissione diceva: non potendo interrogare i vivi, interrogate i morti. Ci fu chi capì e chiese di andare a vedere il cimitero ove, come in tutta l’Istria, la stragrande maggioranza delle tombe riportavano nomi italiani. Da quel giorno la pulizia etnica iniziò anche nei cimiteri e vennero distrutte a migliaia le lapidi italiane.”

Il 18 agosto 1946, alle 14:10, a Vergarolla il sole si oscurò. “All’improvviso un’enorme detonazione seminò la morte sulla spiaggia ed una colonna di fumo nero si sollevò sopra Vergarolla. Erano esplose 28 vecchie mine di profondità, accatastate da tempo a bordo spiaggia dopo essere state bonificate e private dei detonatori.” Furono gli uomini dell’OZNA, come accertato dai servizi segreti britannici, ad aver riattivato gli ordigni la notte precedente. 116 furono i morti. Tra questi i due figli, di 5 e 9 anni, del medico Geppino Micheletti che, distrutto dal dolore, continuò comunque ad operare. Lasciò Pola con il grande esodo del 1947 perché, disse, “non potevo rimanere lì e pensare che avrei potuto curare gli assassini dei miei figli.” E, ad accompagnare i ricordi degli esuli di Pola c’è il continuo battere dei martelli, necessari per chiudere le case e le casse contenenti le masserizie degli esuli.

Il 3 febbraio 1947 iniziò il primo dei dieci viaggi del “Toscana”, il piroscafo che portò in Italia circa 20.000 profughi nei porti di Venezia e Ancona. Da qui, con dei convogli ferroviari, questi venivano indirizzati in altre zone d’Italia dove però, non sempre, furono bene accolti. A Bologna “il treno venne preso a sassate da uomini che sventolavano la bandiera rossa con la falce e martello, altri lanciarono pomodori, altri ancora buttarono a terra il pane e le pentole col cibo caldo. Il latte per i bambini fu disperso sulle rotaie, l’acqua fu rovesciata e portata via. Intanto un altoparlante gracchiava: Non vogliamo il treno dei fascisti.”

L’esodo, che “fu davvero un plebiscito di italianità”, ebbe diverse ondate: la prima nel 45-46, l’ultima nel 54-56. Furono 117 i campi profughi allestiti in Italia. “Quando l’esule partiva, cercava di portar via tutto quanto poteva.” Quello che negli anni non fu ritirato venne conservato nel porto di Trieste. “Negli anni ’90 […] le masserizie vennero trasferite e collocate più razionalmente al Magazzino 18: duemila metri cubi di 'roba' che parla e racconta. Per chi sa ascoltare. Simone Cristicchi ha ascoltato la voce di quello che ha chiamato 'lo Spirito delle masserizie' e l’ha trasferita nel suo toccante 'Magazzino 18', che ha saputo commuovere l’Italia intera.”

Il 10 febbraio 1947 fu firmato, a Parigi, il Trattato di pace tra l’Italia e le nazioni vincitrici della Seconda guerra mondiale, con cui venivano strappate all’Italia Pola e gran parte dell’Istria, Fiume, Zara e le isole adriatiche, tutte consegnate alla Jugoslavia.

“Il martirio delle foibe di Trieste e dell’Istria, con il loro tragico carico di migliaia di morti senza croce e l’esodo dei 350.000 istriani, fiumani e dalmati sono divenuti dal 2004 patrimonio della coscienza comune degli italiani grazie alla legge sul Giorno del Ricordo, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno.” L’autore di questo libro ne è stato il promotore.

Gianlorenzo Capano