“Sventurato quel popolo che non ha bisogno di eroi…”

(di Adriano Tocchi, Presidente ANPd'I Roma)
19/05/16

Eventi inconsueti, come quello che ha visto protagonista a Palmira in Siria lo specnaz Alexander Prokhorenko, accendono le nostre emozioni per il dramma umano, suscitano la nostra ammirazione per lo straordinario coraggio e contribuiscono a restituire valore sostanziale ad espressioni come “eroe”, “patria”, “bandiera”, relegate per molti nell’armadio delle cose inutili, dal delirio ideologico di Brecht e dei suoi eredi sessantottini.

Eroe è una parola di etimologia incerta ma che nel suo significato originario sta ad indicare chi si leva al disopra degli altri in quanto potente, forte, di nobile stirpe. La figura dell'eroe è presente in tutte le mitologie e risponde al bisogno di concretare la storia, la vita e le aspirazioni sociali e morali di un gruppo umano nella figura di un essere che assomma in sé gli attributi della divinità e dell'umanità.

Già per i Greci e i Romani il termine passò rapidamente a designare un uomo o una donna dotati di coraggio e tenacia tali da rischiare e – quasi sempre – offrire il sacrificio supremo della propria vita per condurre a termine un’impresa virtuosa, capaci cioè di vivere e morire per ciò che supera la dimensione della finitezza e del contingente: una bandiera, una stirpe, un ideale. L’eroe incarnava dunque le virtù civili della fedeltà alla stirpe, del coraggio, dello spirito di sacrificio e per ciò stesso a lui era associata la fama, intesa appunto come gloria imperitura. In definitiva, per quanto il concetto di eroe si fosse ormai distaccato dal significato originario di semidio, nell’area semantica del termine gravitava ancora l’idea dell’immortalità, come riferimento alla parte non caduca dell’uomo.

L’eroe svolgeva anche un ruolo eminentemente educativo in quanto, per le qualità che incarnava, rappresentava modello da imitare, esempio edificante da additare ai comuni mortali. Questa accezione di “eroe” è però direttamente ed idealmente collegata ai concetti di combattimento e sacrificio che l’attuale società tende a dimenticare, accantonandoli come valori anacronistici e non funzionali al suo sviluppo. A partire dall’ultimo Dopoguerra, infatti, il termine è diventato desueto, abbandonato come privo di senso: espressione inadeguata ad evocare e suggerire alla fantasia delle masse.

Solo recentemente, nel nostro Paese, la parola “eroe” è stata rispolverata per tributare omaggio ai nostri Caduti nelle missioni di cosiddetta peace-keeping. Nell’occasione, il termine “eroe” ha ripreso il suo senso antico, collegato cioè al coraggio, al sacrificio, alla condizione militare e la figura del soldato in armi è tornata ad essere segno di virtù civili e di decoro per la Nazione.

L’uso corrente del termine “eroe “ rispecchia però, l’inclinazione della società per valori fiacchi. Gli eroi attuali non contemplano cioè il modello tradizionale dell’essere fuori del comune che, con un gesto estremo, coscientemente voluto, anche se in diversa maniera meditato, affronta situazioni che lo porteranno con certezza alla perdita della propria vita.

Eroi come Enrico Toti, Nazario Sauro, Salvo d’Acquisto (foto a dx) sono luminosi esempi di sacrificio cosciente e intenzionale in nome di una fede. Non più attuali però e conservati perciò in una nicchia polverosa alla stessa stregua di un cimelio storico. 

Più spesso, attualmente, seppure con ben note eccezioni, ignorate da chi avrebbe l’obbligo di rilevarle ed esaltarle, i nostri militari caduti nelle missioni di stabilizzazione sono invece “morti per cause di servizio”: su una mina, colpiti da proiettili vaganti, in attentati. Ed eroi sono considerate anche le vittime delle Torri Gemelle, del Teatro Bataclan o della Metropolitana di Londra. Eroi perché, innocenti, sono morti o sono stati gravemente feriti in seguito ad eventi drammatici, che, nell’immaginario collettivo, rappresentano attentati all’umanità. Eroismo virtuale, quest’ultimo, che si realizza solo su un piano interpretativo: quelle vittime, con la loro morte involontaria, nella considerazione dei più, hanno salvato il resto dell’umanità che non è incappata nella stessa sventura. Un po’ come le vittime sacrificali dell’antica Grecia: Ifigenia non aveva scelto spontaneamente di essere condotta al sacrificio per placare l’ira di Artemide, aveva obbedito, docile, alla volontà del padre. Una condizione che appare ben diversa da quella di chi, come recentemente lo specnaz, è cosciente del sacrificio imminente della vita.

Nel primo caso è la situazione che fa l’eroe: una situazione di potenziale pericolo, allorché si concretizza in un evento distruttivo reale, trasforma in eroe chi volontariamente o anche involontariamente si è trovato implicato in quella circostanza. Certamente, chi accetta di lavorare come reporter in un teatro di guerra e ancor più chi quella guerra la combatte d militare, mette in conto il rischio di non ritornare più a casa. Ma anche in questo caso parliamo di una figura lontana da quella dell’eroe della tradizione che, hic et nunc, si espone con atto volontario ad un pericolo certo incurante della propria finita individualità, come attingendo a quella parte di sé che ha contiguità con il divino.

Senza voler minimamente intaccare il sacrificio di migliaia di innocenti che muoiono facendo il proprio dovere, lo spunto serve a riflettere su una tendenza dei nostri tempi. Oggi, ove tutto si misura nella concretezza e nella durata delle singole esistenze, ove il richiamo al divino, nella migliore delle accezioni, si confonde con la dedizione sociale, il trascendente è proscritto e le esigenze del progresso impongono direttive improntate all’obiettivo esclusivo e prioritario dell’efficienza, non trova ormai più posto il  “bel gesto” e quella “divina follia” che ne era ispiratrice.

Molto probabilmente gli eroi di oggi offrono il volto alla visione “fiacca” di un mondo capace di sorreggersi solo su motivazioni “politicamente corrette”, su ideali accettati unicamente perché condivisi socialmente e opportunamente “tiepidi”. Eroi per un mondo che non ha bisogno di eroi a meno che non siano casuali e privi di volontà.

Di fronte a quest’accezione del termine “eroe” si potrebbe eccepire: “meglio un eroe per cause di servizio che una totale piattezza morale; meglio questo modello che quelli che ci propina il calcio”.

Altri, come noi , invece insistono, si ribellano e continuano a credere che si possa chiedere di più, almeno come riferimento ideale. Crediamo che l’attributo di eroe debba essere riservato a chi davvero ha “superato se stesso” mostrando che l’uomo è creatura di Terra e di Cielo, mirabile miscuglio di finito ed infinito: da Oriente ad Occidente.