La difficile eredità della storia

(di Luigi Ventotene)
23/09/23

La storia è un campo scientifico, checché qualcuno ne possa dire, arte che permette di conoscere e soprattutto di interpretare fatti che il passato non può mai archiviare del tutto. Quale strumento scientifico, naturalmente non soggetto al turbinio delle passioni e del trasporto emotivo, la storia richiede tempo, ponderazione, non prestandosi all’umana sublimazione del desiderio di immediate e poco razionali santificazioni.

Oggi è il momento del lutto, ma non quello ufficiale statuito per via deliberativa istituzionale; è il lutto che tocca la sfera personale di un uomo, un lutto che sollecita pensieri che dovrebbero toccare tutti in nome di una comune umanità spesso dimenticata. Prendiamo atto che la nostra Repubblica, che siamo convenzionalmente indotti ad immaginare perennemente giovane, comincia ad avvertire il passaggio del tempo, un tempo scandito da eventi ed attori che, per essere compresi appieno, come tutti del resto, dovranno attendere il fisiologico cadere della sabbia nella clessidra dell’eternità.

Non ne è immune neanche un presidente emerito; Giorgio Napolitano è stato weberianamente politico di professione, espressione di un’ideologia di cui nel tempo di è fatto interprete e latore in funzione del momento positivo.

Quel che è e certo è che con lui, dopo Emanuele Macaluso, scompare l’ultimo vero comunista, pure così diverso dallo stereotipo corrente: il siciliano Macaluso parte dal basso, non può studiare; Napolitano è aristocratico e colto, di famiglia agiata. Imperturbabile, sottile ragionatore, appartenente alla cultura politica di Chiaromonte e Iotti, ma allontanato dalla sinistra ingraiana che lo definisce migliorista per via delle sue posizioni apparentemente quasi mensceviche.

Il 1956 è l’anno della rivoluzione di Budapest e, malgrado il migliorismo, Napolitano si allinea alle posizioni togliattiane prendendo le distanze dalle prime critiche già da allora palesi; politicamente tuttavia si oppone all’oltranzismo radicale. È indubbia la sua opera di compensazione di equilibrio, compensazione, bilanciamento, un’opera che lo porta ad essere, in vita, il primo comunista a prendere contatto con gli americani, tanto da meritare l’apprezzamento di Kissinger, uno dei pochi veri animali politici rimasti, ancora capace di ineffabili e sottili ironie, capacità espressiva concessa solo ai più grandi, ma in quanto a comprensione destinata a pochissimi.

Ma la politica è arte, è tessitura e nascosto disfacimento notturno; per Napolitano è il riavvicinamento al Partito Socialista che fu di Nenni, e poi di quel giovane socialista milanese con cui scontrarsi duramente anni dopo, un approssimarsi da fine mediatore che gli consente di divenire, all’ombra di un travagliato compromesso storico, riferimento per le socialdemocrazie europee.

È opportuno rammentare che comunque, pur nell’alveo della disciplina di partito, Napolitano è il primo comunista ad essere tentato dall’idea delle dimissioni per dissenso con Berlinguer, preferitogli come successore di Luigi Longo alla segreteria: questioni personali, non politiche, eppure rilevanti, e che gli danno il la per prendere posizione sull’Unità, con un articolo da molti definito un errore politico, circa la questione morale tratteggiata a chiare lettere proprio dal segretario.

Il crollo sovietico ideologicamente ormai post togliattiano, gli permette di esprimere l’ulteriore e drammatica concettualizzazione su un veterocomunismo morente.

1943, 1956, 1968, 1991, la guerra e Togliatti, Budapest, Praga, l’avvicinamento alla Nato americana preannunciato dall’intervista di Berlinguer a Pansa, la fine dei Soviet: tanti anni, tanta politica, posizioni via via riviste anche alla luce dell’assunzione di incarichi inediti, come quello di ministro dell’Interno.

Da presidente il NYT lo ribattezzò "Re", per effetto di interventismi inusitati per un apparentemente rarefatto contesto politico nazionale, interventismi come quello sfoggiato nel 2011 con Mario Monti che spinse, quale effetto collaterale, il Movimento 5 Stelle, artefice, nel 2014 della sua messa in stato d’accusa per un suo presunto ruolo nella trattativa Stato – mafia, vicenda celermente archiviata come priva di fondamento.

Primo presidente rieletto, non manca di pronunciare un durissimo j’accuse verso un Parlamento che, incapace di uscire dalle sue stesse logiche politiche paralizzanti, non riesce ad esprimere alcun consenso condiviso.

Di Migliore il PCI aveva già espresso Togliatti; la storia ripropone l’appellativo per la corrente intestata prima ad Amendola e poi a Napolitano, come visto nel ’56 vicino alle posizioni del segretario. Emanuele Macaluso muore nel 2021, a cent’anni dal Congresso di Livorno; Napolitano circa cent’anni dopo la nascita di Berlinguer. Si può azzardare l’ipotesi che ambedue desiderassero un’evoluzione dal massimalismo comunista in un socialismo più al passo con i tempi; un socialismo, azzardiamo, ideologico e lontano dagli sterili populismi imperanti, un socialismo che avrebbe cambiato le sorti della politica italiana.

Evoluzioni storiche, prìncipi alla Machiavelli, trasformismo interno: tutto ha concorso a dipingere un quadro complesso. Ma è la storia, in senso scientifico, oggettivo ed imparziale, che deve fare il suo corso, in un Paese che si trova dov’è per effetto di posizioni e decisioni che, nei prossimi anni, dovranno trovare ratio e sistematizzazione compiuta; opera non facile, forse impossibile per chiunque.

Foto: Quirinale