Che ormai da tempo ci sia un uso improprio, per non dire scorretto, anche nel linguaggio istituzionale, dei termini che si riferiscono alle cariche pubbliche è cosa acclarata: il riferimento, in particolare, è - e mi limiterò ai termini che più sono mediaticamente esposti - a “ministro” e “sindaco”.
Quasi in una sorta di rivendicazione femminile - come se fossero queste le cose a contare - alte cariche dello Stato del nostro Paese, ed amministratori locali, hanno preteso che, questi termini, quando a ricoprire le corrispondenti cariche fossero delle donne, venissero declinate al femminile.
Niente di più sbagliato, dal momento che, se nel linguaggio giornalistico e nell’uso comune, seppur con estrema “pazienza”, si potrebbe tollerare l’uso di “ministra” o “sindaca”, ciò è del tutto incorretto quando si passa all’ambito istituzionale: ciascun titolo, infatti, indica una funzione o una qualifica che sono da considerarsi neutre per antonomasia, in quanto attribuibili tanto ad un uomo quanto ad una donna, anche a norma dell’art. 3 della Costituzione, che afferma la parità dignitaria dei sessi1.
Senza considerare che, anche sotto il profilo giuridico, le norme fanno sempre riferimento all’organo o alla carica nella sua definizione ufficiale, e quindi, ancora, alla sua funzione neutra.
È invece consentita la voltura degli appellativi: es. signor Ministro, signora Ministro, dottore dottoressa, ma non medico e medica, e neppure ingegnere e ingegnera o assessore e assessora.
E ciò, anche a dispetto di quanto sostenuto più volte dall’Accademia della Crusca (per intenderci: la stessa che è stata impegnata sul termine “petaloso”) che, interpellata sul punto, ha tenuto a “ribadire l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile per indicare ruoli istituzionali (la ministra, la presidente, l’assessora, la senatrice, la deputata ecc.) e professioni alle quali l’accesso è normale per le donne solo da qualche decennio (chirurga, avvocata o avvocatessa, architetta, magistrata ecc.) così come del resto è avvenuto per mestieri e professioni tradizionali (infermiera, maestra, operaia, attrice ecc.)”2.
Sull’argomento, peraltro, è intervenuto, in una intervista di qualche mese fa rilasciata ad Adnkronos3, il presidente del comitato scientifico dell'Accademia del Cerimoniale, Massimo Sgrelli, già capo del Cerimoniale di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e massima autorità in materia, il quale, dopo aver premesso che "una condotta istituzionale disattesa produce conseguenze negative, se non nefaste, per il buon funzionamento delle istituzioni e quindi del Paese", ha sottolineato che "anche se la Crusca ha dato il consenso all'utilizzo dei termini al femminile - e giornalisticamente posso capire che sia più immediato - il sindaco e il ministro, come funzione pubblica, sono termini neutri, per cui, nell'utilizzo del termine al femminile, al limite, potrebbero ravvisarsi persino dei profili di incostituzionalità, perché l'art. 3 della Costituzione fissa la parità di genere: il che significa che non potremmo introdurre distinzioni. Di questo passo c'è il rischio di discriminare chi è gay".
Insomma, almeno nelle relazioni istituzionali… ministro… non facciamo una minestra!
Eleonora Spalvieri è laureata in Lingue e Letterature moderne. Ha frequentato il Corso per Esperto in Cerimoniale e Protocollo nazionale ed internazionale presso la S.I.O.I.- Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale ed è diplomata il lingua italiana dei segni (L.I.S.) presso l’Accademia Europea Sordi.
1 Massimo Sgrelli, Il Cerimoniale, IX edizione, Di Felice Editore.
3 http://www.adnkronos.com/fatti/politica/2017/05/17/sindaca-ministra-arri...
(foto: presidenza del consiglio dei ministri)