L’insidia dei droni marini di superficie. Considerazioni tecniche e tattiche

(di Marco Bandioli)
02/05/24

L’insidiosa minaccia rappresentata dai droni marini quale arma di attacco di superficie nei confronti di “unità navali” (ovvero di navi da guerra) richiede la valutazione di differenti fattori che contribuiscono a fornire un quadro più dettagliato della questione. Essendo le tematiche affrontate estremamente vaste ed articolate, è necessario affrontare gli argomenti in termini abbastanza generali senza però rinunciare ad alcuni dettagli tecnici che risulteranno imprescindibili per la piena comprensione delle successive considerazioni tecnico-tattiche.

I droni marini, rispetto a quelli aerei o terrestri, possono rappresentare un bersaglio abbastanza difficile da individuare in ragione del fatto che la tecnologia, per ora, non è ancora in grado di fronteggiare pienamente alcuni limiti che la natura del mare impone… se non con il concorso sinergico di più apparati ad alta tecnologia.

Dal punto di vista dottrinale, i droni vengono generalmente definiti con l’acronimo tecnico-militare di “UV” (Unmanned Vehicle – veicolo senza la presenza umana a bordo) e, in particolare, vengono ulteriormente classificati con l’aggiunta di lettere che servono ad individuare immediatamente l’elemento fisico (cielo, terra e mare) in cui sono destinati ad operare. I droni che operano in mare, i cosiddetti “droni marini” (detti anche “droni navali” o “drone boat” o “sea drone”), sono stati classificati sempre con l’acronimo UV, ma in questo caso la “V” più che “Vehicle” viene spesso e giustamente intesa come “Vessel” (ovvero come nave o imbarcazione). L’acronimo UV (Unmaned Vessel) è comunque caduto in disuso in quanto i droni marini vengono direttamente suddivisi in relazione all’ambiente fisico in cui vengono impiegati, ovvero se vanno ad operare “sopra” o “sotto” la superficie del mare:

  • marini sopra la superficie del mare, ovvero “di superficie” USV (SUV e ASV) - USV (Unmanned Surface Vehicle) - suddivisi in SUV (Surface Unmanned Vehicle), se guidati a distanza da un operatore umano (tramite radiocomando, telecomando o via satellite), e ASV (Autonomous Surface Vehicle), se la guida è totalmente autonoma (tramite intelligenza artificiale, programmazione o via satellite);
  • marini sotto la superficie del mare, ovvero “subacquei” (AUV/UUV e ROV/ROUV) - AUV/UUV (Autonomous Underwater Vehicle / Unmanned Underwater Vehicle) se la guida è completamente autonoma (tramite programmazione o unità di intelligenza artificiale) e ROV/ROUV (Remotely Operated Underwater Vehicle) se viene impiegata una qualsiasi forma di filoguida.

Le missioni che possono espletare sono molteplici e possono variare dalla sorveglianza al pattugliamento armato, dalle attività di ricognizione e di intelligence sino ad azioni di puro attacco nei confronti di naviglio militare nemico.

Nei conflitti che si sono delineati ultimamente, i droni marini di superficie sono stati impiegati sia da forze armate regolari (es. gli Ucraini) e sia da gruppi terroristici (es. gli Houthi Yemeniti) utilizzandoli però come “droni esplosivi” sfruttando un’idea che già la Regia Marina, prima tra tutte, aveva sviluppato durante la 2^ Guerra Mondiale con la realizzazione di diverse tipologie di “motoscafi d’assalto” chiamati “barchini esplosivi” (armati o con 300 kg. di esplosivo o con dei siluri o con delle bombe) e guidati da un pilota che, a circa 500 metri dall’impatto contro la nave nemica, veniva sbalzato in acqua (foto).

Una particolare specie di droni marini sono pertanto impiegati unicamente quale vettore d’arma per andare a colpire ed affondare navi o, quantomeno, per danneggiarle in modo significativo.

L’affondamento o il danneggiamento di una nave dipende da molti fattori come ad esempio il tipo e le dimensioni della nave bersaglio, dal numero di droni utilizzati per l’attacco, dalla quantità e tipologia di esplosivo ad alto effetto dirompente, dal tipo di innesco utilizzato nonchè dal punto o dai punti in cui la nave deve essere colpita.

Per completezza di informazione, se il drone marino trasporta un ordigno esplosivo che non sia stato realizzato in modo industriale ma in modo artigianale, anche solo parzialmente, il drone assume il termine di “WBIED” (Water-Borne Improvised Explosive Device) ovvero “Ordigno esplosivo improvvisato trasportato via mare/acqua”.

Le piccole imbarcazioni che vengono attualmente utilizzate come droni marini presentano diverse versioni ma si possono configurare, in termini generali, secondo le seguenti principali caratteristiche: hanno uno scafo che ricorda una canoa od un kayak con una propulsione garantita da uno o due motori da 200/300 cv, una sagoma di profilo molto bassa con sovrastrutture che mediamente non superano il metro sul livello del mare, poco pescaggio, una lunghezza che può andare dai 3 ai 15 metri, possono trasportare dai 150 ai 350 Kg. di esplosivo (o un sistema lanciarazzi a 4 celle), possono raggiungere velocità anche superiori ai 50 nodi e possono avere una autonomia operativa superiore alle 400 miglia nautiche (≈ 800 Km.).

Grazie ad una telecamera installata sul drone, in modalità di visione “in prima persona”, l’operatore che pilota a distanza il drone, è in grado sia di verificare (riconoscere) l’identità del bersaglio da colpire che di modificare la velocità, la rotta e l’angolo di attacco, in relazione allo stato del mare ed alla posizione, all’orientamento ed alla velocità del bersaglio.

È evidente che questo tipo di minaccia pone la “Dottrina navale della guerra di superficie” a doversi confrontare con una dimensione sostanzialmente asimmetrica e non convenzionale della questione, sia per la disparità degli armamenti impiegati, per le modalità tattiche usate che per la correlata disparità di costi e di risorse finanziarie necessarie.

È ora necessario evidenziare che il procedimento operativo secondo il quale si ricerca un bersaglio, per poi distruggerlo, si divede in due processi sequenziali.

Il primo viene chiamato “Acquisizione del bersaglio” e si sviluppa in 6 fasi: ricerca vera e propria (se esiste la presenza di un bersaglio), scoperta (si determina la presenza di un bersaglio), localizzazione (si determina la posizione geografica del bersaglio), riconoscimento (si determina la natura generica del bersaglio; es. bersaglio aereo), identificazione (si determina la natura specifica; es. missile nemico antinave) e tracciamento (si segue la “traccia del bersaglio” in continuazione attraverso uno specifico radar, e varie apparecchiature, determinandone i parametri di natura elettronica per effettuare quindi il cosiddetto ”inseguimento” da parte di un radar del tiro, a cui sono asservite le armi già predisposte per l’azione il fuoco).

Il secondo processo viene chiamato “Ingaggio del bersaglio” che risponde alle specifiche “Regole di Ingaggio” previste per la missione. L’ingaggio può essere di tipo “diretto”, se si sviluppa sulla distanza di scoperta dei propri sensori, o di tipo “programmato”, se si sviluppa su dati del bersaglio pervenuti via link tattici da altre unità.

L’ingaggio prevede inoltre due fasi: l’azione di fuoco (con l’impiego del sistema d’arma più idoneo a seconda della natura, della velocità e della distanza del bersaglio) e la distruzione del bersaglio stesso (azione di fuoco continua sino all’abbattimento, affondamento o annientamento del bersaglio).

Quindi maggiore è la distanza a cui si scopre un bersaglio e maggiore è il tempo a disposizione perché si possa sviluppare il processo di acquisizione e di ingaggio: tuttavia in situazioni tattiche sfavorevoli il tempo totale a disposizione potrebbe ridursi a pochi minuti….se non ad una manciata di secondi (tenendo presente che un attacco potrebbe essere effettuato non da un singolo drone isolato ma da un gruppo di droni coordinati tra di loro).

Non è questa l’occasione per addentrarsi nelle complessità tecnologiche dei sistemi radar o nei loro dettagli tecnici, ma è opportuno ricordare che il radar (sostantivizzazione dell’acronimo RADAR = RAdio Detection And Ranging) è una apparecchiatura elettronica che consente la scoperta ed il tracciamento di un bersaglio di cui fornisce, nella sua configurazione più semplice, la distanza, il rilevamento e la velocità. Il suo principio di funzionamento si basa sulla trasmissione di energia sotto forma di onde radio che partono da un’antenna, raggiungono un eventuale bersaglio dal quale vengono parzialmente riflesse e ritornano alla loro sorgente radar come se fossero un eco: è per tale motivo che la “figura grezza” del bersaglio che compare sullo schermo radar viene chiamata “eco radar”. Questo eco radar può essere “processato” elettronicamente da un operatore radar e all’eco grezzo viene “agganciata” una traccia sintetica che, in base ad una specifica simbologia, ad un colore e ad un codice, fornisce visivamente un certo numero di ulteriori informazioni sulla natura ed identità del bersaglio (rilevamento, distanza, rotta, velocità, quota, traccia aerea, traccia di superficie, traccia sconosciuta, traccia amica, traccia assunta ostile, traccia nemica).

La classica visualizzazione dell’azione del radar avviene su uno schermo circolare che viene denominato “PPI” (Plan Position Indicator) ed è una rappresentazione nella quale la nave è al centro dello schermo con la visualizzazione della spazzata esplorante del fascio radar in continua rotazione a 360 gradi attorno alla nave stessa.

Una rappresentazione radar può comunque anche andare oltre la portata di scoperta del radar, portando la scala oltre la portata nominale, grazie a “collegamenti di dialogo tra sistemi radar” effettuati con particolari sistemi di comunicazione tattica (chiamati TDL -Tactical Data Link): in tal modo si possono vedere e valorizzare le tracce sintetiche di bersagli molto lontani inviati da altre navi, aerei, elicotteri o postazioni terrestri che fanno parte di uno stesso dispositivo di allarme preventivo, di “allarme iniziale” (il cosiddetto EW- Early Warning).

I radar presentano diversi criteri di classificazione, ma quello che si utilizza in ambito militare è quello che prende in considerazione le gamme di frequenze radio e microonde che vengono utilizzate dagli specifici radar, stabilendo così delle “bande di frequenza” la cui denominazione individua l’impiego dei radar stessi (es. Banda "Sierra": radar di scoperta di superficie; Banda "Xray": radar del tiro; Banda "Lima": radar multifunzionale).

A bordo di una unità navale, armata con artiglierie e missili, sono mediamente presenti 5 tipi di radar: radar di navigazione, radar di scoperta di superficie, radar di scoperta aerea, radar del tiro e radar guida-missili.

Vi sono ora comunque dei “radar multifunzione” (foto) che riescono ad accorpare più funzioni radar in un unico sistema.

In ogni caso, la propagazione dell’energia emessa dai vari radar, anche a seconda della loro frequenza e dal tipo di impulsi usati, è soggetta a varie interferenze che si possono raggruppare in due tipologìe: interferenze di natura puramente ambientale ed interferenze elettromagnetiche generate dai sistemi elettronici del nemico. È però in particolare una interferenza ambientale che va a confondere un radar di scoperta di superficie e rendere quindi insidioso l’attacco di un drone marino.

Tornando alle interferenze generate dal nemico, nell’ambito dottrinale della “Guerra Elettronica” l’attacco “elettronico” ai radar viene definito “Jamming” (disturbo) e viene effettuato impiegando apparecchiature e dispositivi elettronici che vanno a disturbare (creando segnali forti che interessano sia le comunicazioni che le trasmissioni), a ingannare (creando falsi “echi”) o a saturare (creando un “rumore” elettronico di fondo) le apparecchiature elettroniche.

In precedenza le attività elettroniche di attacco e di difesa avevano diverse e più articolate definizioni ma, nell’attuale momento storico-tecnologico, è sufficiente dire che le varie forme di “contrattacco elettronico”, attuate per contrastare ogni forma di Jamming nemico, è interamente devoluto allo sviluppo della tecnologia difensiva dei software dei sistemi radar.

Le interferenze invece ambientali che incidono sulle capacità del radar sono gli effetti di alcuni fenomeni fisici che incidono sulla propagazione elettromagnetica: la “dispersione” delle radiazioni elettromagnetiche dovuta alla deflessione delle onde, ovvero cambiano traiettoria, la “rifrazione” delle onde dovuta alla non omogeneità dell’atmosfera, l’”attenuazione” dovuta ai vari gas presenti nell’atmosfera, la “diffrazione” dovuta alla curvatura della terra e la “riflessione” dell’energia quando l’onda incontra un bersaglio e parte della sua energia viene riflessa verso il radar. Questa “riflessione”, questa quantità di energia riflessa dipende dalla dimensione, dalla forma e dalla composizione del bersaglio…purtroppo però questa riflessione avviene anche da bersagli sostanzialmente “non voluti”, come ad esempio pioggia, neve, volatili o altri oggetti di ingombro e che quindi creano “confusione” al radar, ed alla conseguente rappresentazione video.

In termine tecnico tale fenomeno viene chiamato “Clutter” (confusione), che può essere definito come “qualsiasi eco radar non voluto che genera confusione” e può rappresentare un grosso problema in quanto può nascondere alla scoperta radar proprio dei piccoli echi radar come possono essere appunto i droni marini di superficie.

Dal punto di vista tattico l’ambiente marino è più complesso dello spazio aereo e, anche se le velocità in gioco sono diverse, individuare per tempo un bersaglio aereo in avvicinamento (missile, razzo,velivolo o drone che sia) risulta paradossalmente più agevole anche in considerazione del fatto che lo spazio aereo è, tecnologicamente parlando, più uniforme e “trasparente”.

In realtà ci sono diverse tipologìe di clutter (distribuito, concentrato, di superficie, di volume), ma quello che interessa lo si può chiamare “clutter di mare” (foto), ovvero quel clutter che si presenta al radar quando la superficie del mare, non più completamente calma ma con piccole onde basse e corte, comincia a creare moltissimi echi non voluti che vanno a “sporcare” la rappresentazione radar nella quale risulta poi veramente difficile individuare un bersaglio sostanzialmente immerso tra bersagli fittizi o seguirne uno già scoperto e tracciato, tenendo presente che in tali circostanze anche una “traccia sintetica” si potrebbe “sganciare” dall’eco grezzo di riferimento e procedere su dati fasulli.

Tale situazione può rendere particolarmente insidioso l’attacco di un drone di superficie nemico (magari anche costruito con materiali “stealth” che ne riducono la segnatura elettromagnetica) in quanto il moto ondoso del mare, naturalmente entro quei limiti che possano consentire al drone sia la navigazione che il mantenimento di una rotta, può nascondere al radar stesso il suo veloce avvicinamento senza peraltro che ne venga percepita per tempo la presenza o, peggio ancora, l’attacco già in corso.

In certe condizioni sfavorevoli, il clutter può precludere la scoperta radar di superficie in una zona di mare attorno alla nave che può estendersi sino alle 5 miglia nautiche (≈ 10 Km.). In termini generali, in condizioni ottimali di visibilità, un drone marino, convenendone una altezza media di un metro sulla superficie del mare, può essere individuato otticamente ad una distanza di 9 miglia nautiche (≈ 17 Km.) considerando il personale di sorveglianza posizionato indicativamente all’altezza generica dei 12 mt. sulla superficie del mare (es. la plancia): tale “portata ottica”, intesa come possibilità di “scoperta ottica”, supera quindi la zona critica del clutter.

Alla luce di quanto detto, il problema del clutter può essere parzialmente (talvolta totalmente) superato, con l’impiego dei “Sistemi di scoperta opto-elettronici”, sia all’infrarosso che ad intensificazione di luce, consentendo così una elevata probabilità di scoperta anche in piena notte e/o in condizioni meteorologiche avverse (vedi video "DSS-IRST: l’acronimo della Sicurezza Navale in ambito Militare").

In ogni caso, un drone marino carico di esplosivo deve essere necessariamente neutralizzato prima che impatti contro la fiancata della nave e possibilmente ad una “distanza conservativa” (precauzionale) dalla nave non inferiore ai 500 metri poichè una esplosione anche solo in prossimità di una nave può creare danni non soltanto per la forza dell’onda d’urto prodotta dall’esplosione ma anche per la proiezione a notevole distanza di quei frammenti (“effetto scheggia”) derivanti dalla distruzione di tutto quanto esistente attorno all’esplosivo (involucro dell’esplosivo, motore e scafo del drone, apparecchiature, nonché eventuali elementi metallici appositamente inseriti nell’esplosivo).

Si tenga presente che le schegge in arrivo sulle sovrastrutture di una unità navale possono arrecare seri danni anche alle apparecchiature ed ai sensori della nave, rendendola, elettronicamente parlando, “cieca, sorda e muta”. Considerando ora che...

► la portata di un radar di scoperta di superficie in situazione di propagazione ottimale può arrivare anche a 100 miglia nautiche (≈ 190 Km.),

► la portata è comunque abbastanza variabile a seconda della zona geografica del pianeta in cui ci si trova,

► può mancare un eventuale ausilio di elicotteri o droni in volo che possano confermare a distanza l’identità del bersaglio,

► la situazione meteo-marina può non essere ottimale,

si può ragionevolmente ritenere che la difesa della nave contro un drone marino si possa effettuare considerando sostanzialmente tre livelli difensivi: a partire da una distanza di circa 10 miglia nautiche (≈ 19 km.), distanza intesa, per le artiglierie di bordo, come “difesa a medio raggio”, per poi passare ad una “difesa a corto raggio”, dalla distanza di circa 5 miglia nautiche (≈ 10 km.), per finire alla “difesa di punto”, ovvero una difesa “ravvicinata” che si attua al di sotto del miglio nautico (≈ 2 Km) dalla nave.

Il contrasto alla minaccia è pertanto effettuato con sistemi di artiglieria navale, di diverso calibro, ad elevata cadenza di tiro e con la possibilità per i cannoni di impiegare sia munizionamento convenzionale che munizionamento guidato (di maggior gittata e dotato di sistemi di guida di precisione).

Per l’ingaggio a corto-medio raggio vengono impiegati cannoni con un calibro mediamente di 76 mm., mentre per l’ingaggio a corto raggio vengono impiegati sia le mitragliere che i cannoni automatici (ovvero una versione modernizzata di mitragliera a controllo remoto con meccanismo di ricarica automatica, senza la necessità di un servente) che presentano diversificate tipologie di calibro che possono spaziare dai 20 mm. ai 40 mm..

Per quanto riguarda la “difesa di punto”, mitragliatrici pesanti (cal.12.7x99 mm.), lanciagranate o lanciarazzi spalleggiabili vanno sempre bene: pare che dei gruppi di contractor marittimi imbarchino all’uopo anche mitragliatrici lanciagranate (AGL Automatic Grenade Launcher) in cal. 40 mm. per aumentare le postazioni difensive.

In definitiva, individuare un drone di superficie ed affondarlo non è semplice ma il concorso di più sistemi di sorveglianza e di “allerta” possono fare la differenza, come pure, “in extremis”, la capacità di manovra e di spunto di velocità della nave…proprio come se dovesse evitare un siluro!

Foto: web / X / U.S. Navy / Difesa Online