Industria della difesa: la base materiale delle relazioni internazionali

08/06/15

Secondo Richard A. Preston e Sidney Wise: Non c’è bisogno di insistere molto sul fatto che la guerra ha subito l’influenza di mutamenti sociali e tecnici. Le armi sono prodotti della tecnica. Gli eserciti riflettono la società da cui derivano (cfr. “Storia sociale della guerra”, Mondadori 1973).

Da questo discende che le forze armate sono espressione di una data organizzazione sociale, la rivoluzione industriale ha prodotto eserciti “industrializzati” e una propria forma di guerra così come le società schiavistica e medievale hanno espresso le loro.

Il grado di mobilitazione necessario per uno scontro armato ad alta intensità tra potenze, come una guerra mondiale, ha richiesto un apparato produttivo all’altezza di quel livello di impegno, chi non lo possedeva è stato spinto a dotarsene nel fuoco dell’evento bellico. Un esempio significativo in tal senso è rappresentato proprio dall’Italia, dove l’industria, più precisamente la grande industria, può essere considerata figlia della prima guerra mondiale.

[…] un medesimo evento che coinvolge economie a diverso grado di sviluppo provoca reazioni ed effetti assai diversi. C’è chi come la Germania, combatté la guerra a partire dal proprio potenziale industriale già accumulato e chi, come l’Italia, si industrializzò invece, a partire dalla guerra (cfr. Vera Zamagni, “Dalla periferia al centro”, il Mulino 1990).

Sarebbe però un’imperdonabile concessione alle posizioni da determinismo tecnologico concepire la storia militare come una sorta di derivato meccanico dell’innovazione in ambito tecnico-produttivo. Inserita e analizzata nel suo rapporto con le forme di organizzazione sociale, la storia dei conflitti presenta dei contorni molto sfumati rispetto alla storia dell’umanità. Il rapporto tra società, forze armate e industria militare è complesso e si dispiega in un movimento dialettico di reciproche influenze.

[…] la storia militare affonda le sue radici nella struttura economica, sociale e politica di uno Stato […] Milizia e guerra non sono però un epifenomeno dell’economia, né il loro studio una branca della sociologia e della politica; economia, politica e guerra sono simultaneamente manifestazioni di un unico più profondo processo (cfr. Piero Pieri, “Storia militare del Risorgimento”, Giulio Einaudi Editore 1962).

Con la rivoluzione industriale la guerra non è più solo scontro tra eserciti ma anche competizione produttiva tra imprese, due ambiti che hanno mostrato da subito una certa affinità visto che le rispettive tecniche di direzione e i relativi modelli organizzativi hanno da sempre evidenziato molti punti di contatto. Le diverse strutture di organizzazione aziendale, l’attività di gestione e direzione d’impresa hanno mutuato concetti e terminologia (si pensi al modello multidivisionale), dalla dottrina militare e dalle forme organizzative delle forze armate.

Nel suo intervento alla conferenza organizzata dall’ESME Sudria (grande scuola francese per la formazione di ingegneri), dal titolo “Management e trasformazione nell’esercito, un modello per le imprese?” (riportato da “Les echos” del 13/11/2014), l’ex comandante dell’esercito francese Vincent Cottenceau, mette in evidenza le analogie tra la direzione d’impresa e il comando nelle forze armate, sostenendo che le qualità richieste per guidare nella giusta direzione il rinnovamento di un corpo collettivo sono le stesse, sia che si tratti di un’impresa che di un reggimento.

Il manager deve essere coraggioso ed esemplare. Mi riferisco al coraggio intellettuale, essere in grado di rendere chiare situazioni complesse e sostenere la propria analisi di fronte ai suoi superiori. Illustrare il proprio punto di vista a un generale quando si è creata una situazione di tensione equivale a fronteggiare la riunione di un comitato di direzione in cui l’atmosfera si è fatta pesante.

Allo stesso tempo la nascita della grande industria ha segnato l’ingresso delle scienze aziendali sul campo di battaglia, introducendo l’approccio ragionieristico-aziendale come una delle componenti della concezione di impiego del dispositivo bellico.

A seguito delle azioni in cui vengono colpiti per errore obiettivi civili come scuole, ospedali ecc., le cui vittime rappresentano i “danni collaterali” nel gergo militare, i militanti delle associazioni pacifiste credono di fare della fine ironia denunciando quella che ritengono la manifesta stupidità delle armi intelligenti. Questo sarcasmo si basa però su un presupposto errato visto che lo scopo dell’utilizzo di munizionamento guidato non è umanizzare la guerra ma, per riprendere la terminologia propria dell’economia aziendale, aumentare l’efficacia e l’efficienza d’impiego della forza militare.

Durante la seconda guerra mondiale capitava spesso che venisse dato per colpito un obiettivo che in realtà era stato mancato o che si continuasse a bombardarne uno già distrutto. Con le armi a guida laser o satellitare viene aumentata l’efficacia della forza da bombardamento migliorando anche il rapporto tra materiali impiegati e obiettivi centrati. Inoltre l’impiego di munizionamento guidato ha permesso un importante miglioramento del coordinamento interforze in battaglia.

Nella guerra del Golfo del 1991 l’offensiva terrestre dei carri armati della coalizione fu scatenata il 24 febbraio, quasi sei settimane dopo l’inizio degli attacchi aerei (17 gennaio, operazione Desert Storm). Nel marzo 2003 l’invasione dell’Irak (nel quadro dell’operazione Iraqi Freedom) da parte delle truppe di terra è avvenuta poche ore dopo l’inizio delle operazioni dell’aviazione.

La precisione che riduce i rischi di fuoco amico e la sincronizzazione permessa dallo sviluppo delle telecomunicazioni, rendono possibile l’intervento dell’aviazione e dell’esercito non in sequenza ma pressoché simultaneamente.

Gli Stati Uniti si presentano anche come modello di riferimento [riguardo alla creazione di una forza aeroterrestre europea] data la stretta collaborazione stabilita tra aviazione e forze di terra, per definire una dottrina comune e sviluppare congiuntamente i mezzi necessari per ottenere una buona complementarità (“Le transport multimodal intrathéâtre: bilan et perspectives”, IRIS, agosto 2013).

C’è poi da considerare un’importante questione di natura più direttamente politica. In un conflitto convenzionale l’obiettivo è la distruzione delle forze del nemico mentre quando si deve combattere nel quadro di una missione di peacekeeping, tipica di uno scenario delle ormai famose guerre asimmetriche, il cui obiettivo è la conquista di “cuori e menti” della popolazione non si può ricorrere all’impiego indiscriminato della potenza di fuoco che colpisce proprio la popolazione al cui interno tendono a mimetizzarsi le forze insorgenti.

Quindi l’impiego di munizionamento guidato, incidentalmente può anche comportare un minore coinvolgimento della popolazione civile nei combattimenti ma i missili e le bombe “intelligenti” non sono stati concepiti per ragioni umanitarie.

In numerose occasioni analisti e specialisti del settore lamentano la disattenzione e il pressappochismo riservati solitamente (in special modo nel Belpaese), all’industria della difesa, atteggiamento che in gran parte trova certamente spiegazione nelle problematiche etiche e nel moralismo (non di rado di facciata), con cui inevitabilmente entra in contrasto la produzione di armi. In parte però è anche riconducibile alla diffusione, nei decenni passati, di una falsa coscienza che ha interessato l’industria nel suo complesso.

Il ciclo d’investimenti del secondo dopoguerra, che era stato il fondamento di una fase di forte crescita definita secondo diverse declinazioni nazionali (in Italia si parlerà di “miracolo economico”, per la Francia Jean Fourastié conierà la formula dei “trenta gloriosi”), aveva posto le basi per un consistente innalzamento della produttività con conseguente inasprimento della concorrenza per la conquista di quote di mercato da parte dei grandi gruppi industriali che dovevano necessariamente competere sempre più a livello internazionale.

Così negli anni ’70 i paesi maggiormente industrializzati saranno interessati da una profonda crisi di ristrutturazione (a cui ovviamente il brusco innalzamento del prezzo del petrolio darà il suo contributo), che innescherà un processo di adeguamento degli impianti a cui si accompagneranno piani di ristrutturazione che comporteranno l’espulsione di quote consistenti di manodopera dal processo produttivo.

In questo contesto fioriranno le ideologie del post-industriale, della terziarizzazione, della società dei servizi, proprio mentre nelle abitazioni dei paesi più industrializzati facevano il loro ingresso: frigorifero, lavatrice, lavastoviglie, impianto di riscaldamento e ogni sorta di dispositivo di riproduzione audio e video, trasformando le nostre case in una sorta di capannoni industriali in scala ridotta, tanto è vero che se si verifica un’interruzione nell’erogazione di energia elettrica sono problemi seri.

Paradossalmente mentre l’industria permeava sempre più la vita quotidiana di ognuno di noi, si diffondeva, acquisendo la forza tipica del senso comune, la falsa coscienza del superamento della società industriale. Per sostenere la validità di questa tesi si faceva anche leva sui margini di ambiguità offerti dalla statistica, mettendo in evidenza come rispetto al PIL dei paesi avanzati diventasse sempre maggiore il peso dei settori del commercio e dei trasporti (il terziario per l’appunto) riducendosi quello riconducibile all’industria.

Si, ma i mezzi di trasporto (siano essi camion, furgoni, autobus, per non parlare di aerei e navi), vengono assemblati in luoghi che di post-industriale hanno poco, e i prodotti che troviamo sugli scaffali nei punti vendita grandi e piccoli, da qualche parte saranno stati fabbricati, è una cosa di tutta evidenza che non può esistere consumo di massa senza produzione di massa.

Allo stesso tempo tutta la catena di assistenza logistica ad un determinato prodotto viene catalogata sotto la voce “servizi” ma quando portiamo l’auto dal meccanico o il computer in un centro di assistenza, i pezzi di ricambio utilizzati per sostituire le parti difettose o in avaria, dovranno pur essere stati fabbricati.

La diffusione dell’Information and Communication Technology ha reso ancora più acuta la contraddizione perché per qualche strano motivo tutto ciò che riguarda l’informatica viene associato all’immaterialità, eppure c’è ben poco di immateriale nelle “distese” di server e attrezzature per la connettività, che si misurano in ettari e si pesano in tonnellate, dei grandi data center, istituzionali o dei colossi privati che operano nel settore. C’è poi da considerare l’enorme quantità di energia che richiedono queste installazioni, alti consumi che si punta a limitare anche con la sostituzione dei dischi ferro-magnetici con dischi a stato solido.

Le console per videogiochi, i lettori MP3, gli smartphone e tutti gli altri supporti fisici per l’ICT (vere meraviglie high tech che hanno ispirato la mitologia della “new economy”), escono dalle linee di montaggio degli stabilimenti industriali di imprese manifatturiere dette “electronic manufacturing services” (EMS). In ultimo, non fa male ricordare che sono fabbriche anche le tipografie (per quanto avanzate tecnologicamente possano essere le macchine da stampa che utilizzano), dove vengono stampati i libri di coloro che in quegli stessi testi scrivono che le fabbriche non esistono più o stanno scomparendo.

A onor del vero già da qualche anno si assiste ad un ritorno di fiamma abbastanza diffuso nei confronti del comparto industriale, tanto che ultimamente sembra non esserci dibattito politico o convegno economico in cui non venga sottolineata l’importanza del manifatturiero e anche dalle parti di Palazzo Chigi all’immagine di un paese in declino si contrappone quella dell’Italia come secondo paese manifatturiero d’Europa. In Francia, per salvaguardare e incentivare l’industria nazionale, è stato creato nel 2010 il “Commissariat Général à l’Investissement”.

In tutto ciò poi bisogna per forza di cose tenere presente che dato il peso raggiunto, e il ruolo svolto, dai mercati finanziari nell’economia mondiale, non può esistere grande gruppo economico che non tragga una parte dei propri profitti dall’investimento in attività finanziarie. A ricoprire grande importanza in proposito è la questione dei dosaggi tra le diverse componenti della gestione aziendale, perché parafrasando il medico-alchimista e astrologo Paracelso (1493-1541): è la dose che fa il veleno.

Un rapporto dello U.S. Census Bureau del giugno 2005 sottolineava che gli Stati Uniti non sono più una nazione manifatturiera e stanno diventando sempre più un paese di finanzieri, la finanza rappresenta il 30% dei profitti di tutte le compagnie contro il 21% di un decennio fa. Successivamente si faceva notare, con toni preoccupati, che questi guadagni non provenivano solo dagli istituti finanziari: sempre più numerose sono le imprese industriali o commerciali che traggono dalla finanza una larga fetta dei loro profitti.

A conferma di ciò tra i fattori che negli anni seguenti hanno portato Chrysler e General Motors sull’orlo del fallimento (con conseguente intervento dell’amministrazione Obama), gli stessi esponenti governativi che si sono occupati del piano di salvataggio e rilancio, annoveravano il fatto che i vertici aziendali si erano trasformati in gestori finanziari perdendo di vista il core business industriale.

Un esempio istruttivo su quale debba essere il requisito di fondo in termini di mentalità per un “capitano d’industria” e per la politica economica del governo di un paese che ambisce a contare qualcosa negli organismi internazionali, è rintracciabile in una delle più importanti (ma non delle più conosciute) dinastie del panorama imprenditoriale italiano.

Paolo e Gianfelice Rocca sono nipoti di Agostino Rocca, padre - assieme a Oscar Sinigaglia - dell’acciaio pubblico italiano e fondatore nel 1945 della Compagnia Tecnica Internazionale S.pA. (Techint). Lo stesso anno lascerà Milano alla volta di Buenos Aires facendo dell’America Latina il cuore degli interessi della sua neonata azienda.

Il gruppo (che nel 2013 presentava un fatturato di 25,4 MLD di dollari e 59.400 dipendenti), opera nell’industria siderurgica, mineraria, nell’esplorazione e produzione di idrocarburi e nel movimento terra ed è leader mondiale nella produzione di tubi per il “deep water”, le acque profonde, e per i pozzi difficoltosi dei campi petroliferi dove si fanno i conti con corrosione, temperature estreme e pressione elevata.

Oggi i due fratelli sono alla testa di quella che viene ritenuta una delle poche vere multinazionali manifatturiere italiane. Gianfelice Rocca è stato vicepresidente di Confindustria con delega all’educazione dal 2004 al 2012 e nel giugno 2013 è diventato presidente di Assolombarda. Le parole dell’altro fratello (scomparso in un incidente aereo nel 2001) che portava il nome del capostipite Agostino, sono emblematiche di quale sia la forma mentis che caratterizza (almeno fino ad oggi) la tradizione di famiglia. La nostra cultura è quella degli ingegneri: ci piacciono le fabbriche, l’acciaio, le cose concrete. Ha presente “La chiave a stella” di Primo Levi? Noi siamo quelle cose lì (cfr. Giorgio Lonardi, “I Rocca, tre generazioni per costruire un impero d’acciaio”, Affari & Finanza, 1° ottobre 2007).

Una dichiarazione d’amore per l’industria manifatturiera che, come si è visto, oggi sembrano in molti a condividere (almeno a parole) ma naturalmente questa rivalutazione della società industriale non riguarda, se non in modo molto marginale e proprio quando non si può fare a meno di parlarne, l’industria della difesa, che viene lasciata preferibilmente in ombra per non urtare le sensibilità già richiamate. Per le medesime ragioni gli stessi operatori del settore sono, per la maggior parte, ben lieti di stare lontano dai riflettori e praticano una linea di condotta fedele al credo del basso profilo.

Eppure dando uno sguardo alla realtà delle cose dal punto di osservazione delle linee di assemblaggio di aerei, carri armati, missili, elicotteri e anche dispositivi radar e satelliti, per non parlare dei cantieri dove si costruiscono le unità per la forza navale (sottomarina e di superficie), emerge con chiarezza quanta importanza abbiano ancora nell’economia, nel progresso scientifico, nell’innovazione tecnologica e nella vita sociale del XXI secolo, le cose concrete che piacciono tanto ai Rocca.

Oggi è sotto gli occhi di tutti quanto pesino il ritardo nell’integrazione istituzionale e il deficit di centralizzazione politica dell’Unione Europea nel fronteggiare i numerosi (e in alcuni casi molto vicini) focolai di crisi, ed è noto che l’elaborazione di una dottrina strategica è una fonte di vittoria almeno quanto la superiorità della tecnologia e delle risorse.

Resta il fatto che nella costruzione di un’Europa Potenza che sia effettivamente tale l’industria degli armamenti rappresenta una componente fondamentale, perché uno stato ha sovranità, sicurezza e peso politico nello scenario internazionale in quanto può disporre di un potente apparato di difesa.

L’industria bellica costituisce una vera e propria componente della politica militare […] Senza un’industria militare sufficientemente robusta, sarebbe poi addirittura velleitario proporsi qualsiasi obiettivo di indipendenza nazionale (gen. Carlo Jean, “La politica di spesa del ministero della difesa”, L’industria, aprile-giugno 1984).

Questo vale anche se si vuole davvero costruire il futuro stato continentale europeo.

Leonardo Chiti

(foto: US DoD / web / Fincantieri)