Il conflitto israelo-palestinese e la distinzione tra beni di carattere civile e beni di carattere militare

04/08/14

Il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese avvenuto nelle ultime settimane, con la conseguente morte di centinaia di persone, ha portato l’attenzione dell’opinione pubblica, e degli organismi internazionali, a domandarsi se vi siano state, nel suddetto contesto, delle violazioni del diritto internazionale umanitario.

Ciò, in particolare, in seguito ai bombardamenti da parte di Israele contro scuole (non ultima, la “Abu Hussein” delle Nazioni Unite poco fuori della città di Gaza), ospedali (ad esempio, quello di al-Aqsa a Deir el-Balah) e l’unica centrale elettrica di Gaza.

Di contro, Israele accusa Hamas di nascondere lanciamissili proprio presso moschee, ospedali e campi da gioco di bambini nella Striscia di Gaza, diffondendo, a sostegno delle proprie accuse, foto aeree di determinati siti.

Insomma, la situazione è, sul campo, davvero controversa: l’unica certezza è che, a causa di ciò, continuano a morire ogni giorno decine e decine di persone, molte delle quali appartenenti alla popolazione civile. Al punto che, sia la Croce Rossa Internazionale che l’Onu hanno dato il via libera a delle commissioni di inchiesta, per valutare l’eventuale violazione del diritto internazionale umanitario da parte di Israele (accusato, tra l’altro, anche di uso di bombe al fosforo bianco - vedasi Rapporto Goldstone), anche se forse si dovrebbe, per altro verso, porre l’accento, con altrettanta enfasi, sull’uso di scudi umani ed il lancio indiscriminato di razzi attuato da Hamas.

Ad ogni modo, non disponendo di dati certi, e non essendo questa la sede, ci si limiterà, dunque, a definire in linea generale ciò che, secondo il diritto internazionale umanitario, è lecito attaccare e ciò che non lo è, con la conseguente distinzione che, nella condotta delle operazioni militari, un Comandante deve poter/saper fare tra beni di carattere civile ed obiettivi militari.

Una premessa è però d’obbligo: occorre fare attenzione a non confondere il concetto di obiettivo militare con quello di bene militare. Infatti, se un ponte può costituire obiettivo militare ove strumentale al passaggio delle truppe, un mezzo della sanità militare, pur essendo un bene militare, non potrà certamente essere considerato un obiettivo militare.

Ciò chiarito, passando alla nozione di obiettivo militare, le norme del DIU non consentono di attaccare qualsiasi bene: l’art. 52 del I Protocollo Addizionale del 1977 stabilisce la liceità degli attacchi solo se diretti contro “beni che per loro natura, ubicazione, destinazione o impiego contribuiscono effettivamente all’azione militare, e la cui distruzione totale o parziale, conquista o neutralizzazione offre, nel caso concreto, un vantaggio militare preciso“.

Due sono quindi i requisiti affinchè un obiettivo possa essere definito militare: il primo è che il bene deve contribuire effettivamente all’azione bellica del nemico a) per natura (aereo militare, nave militare, mezzi corazzati, armi, munizioni, ecc), b) per ubicazione (area militarmente importante, ad esempio: ponte che serve al passaggio delle truppe nemiche), c) per destinazione (uso futuro del bene, ad esempio: bus civile destinato a trasportare armi), d) per impiego (uso attuale del bene, ad esempio: scuola all’interno della quale si è insediato un comando militare).

Il secondo requisito è che la conquista, distruzione o neutralizzazione deve offrire un vantaggio militare preciso, ossia concreto e diretto, escludendo - per la dottrina maggioritaria - vantaggi difficilmente percepibili e quelli che si possono materializzare nel lungo periodo (ad esempio: distruggere una stazione radio-televisiva perché utilizzata quale mezzo di propaganda): secondo la dottrina maggioritaria, che segue la dichiarazione interpretativa dell’Italia e di altri Paesi della NATO aderenti al I P.A., il vantaggio deve essere valutato riferendosi all’attacco nel suo complesso e non a isolate o specifiche parti di esso e, cosa fondamentale, questi requisiti devono essere rispettati nel caso concreto (in the circumstances ruling at the time).

Da quanto detto, dunque, sembra evidente che, una scuola che nasconda alcuni nemici, o possa essere usata come deposito di armi, possa essere riconosciuta come obiettivo militare ed attaccata.

Certamente, è importante una intensa ed approfondita attività di intelligence, che possa documentare (anche in una futura ed eventuale sede giurisdizionale) la fondatezza dell’attacco e la sua “non indiscriminatezza”, così come una tempestività dello stesso (attacco), posto che durante un conflitto, lo scenario può cambiare rapidamente e quello che, in un certo momento, rappresenta un obiettivo militare lecito può non rappresentarlo più in un momento successivo (emblematico, in dottrina, l’attacco portato il 21 maggio 1999 da un aereo della NATO contro una caserma nel Kosovo occidentale vicino al confine albanese, che portò all’uccisione di 7 persone e al ferimento di altre 25. La caserma, tuttavia, non era più in mano dell’esercito jugoslavo da alcuni giorni).

Tra gli obiettivi militari rientrano anche i beni “dual use”, ossia i beni che, pur destinati all’utilizzo da parte della popolazione civile, possono sostenere lo sforzo bellico dell’avversario (ad esempio: stazioni radiotelevisive; centrali telefoniche; impianti di produzione elettrica; vie di comunicazione e trasporto; depositi di petrolio, porti e aeroporti).

Come ben si può notare, e sempre in riferimento al conflitto israelo-palestinese di cui sopra, potrebbe risultare lecito anche l’attacco avvenuto contro la centrale elettrica di Gaza, sempre che se ne provi l’uso anche a carattere militare o strumentale ad esso (magari, secondo l’interpretazione data dalla Commissione arbitrale nel 2005, chiamata a decidere la liceità o meno dell’attacco portato dall’aeronautica etiopica contro la centrale elettrica eritrea di Hirgigo, come si dirà più sotto).

D’altronde, mutatis mutandis, durante le operazioni militari nei Balcani del 1999 fu attaccata la stazione radiotelevisiva di Belgrado. Secondo il portavoce della NATO, Colonnello Freytag - USA, l’attacco si giustificava alla luce del DIU, in quanto il bene era utilizzato anche quale centro di comando e controllo del nemico (e non solo in quanto strumento di propaganda).

Così come, nel 2003, durante il secondo conflitto iracheno, fu bombardata la stazione televisiva irachena, che, secondo le dichiarazioni del Generale statunitense Brooks era ritenuta facente parte di un network di comunicazioni militari (“It’s not about broadcast. It’s about command and control”). Altro esempio, che si avvicina a quello dei giorni nostri, riguarda il conflitto israelo-libanese del 2006, durante il quale fu attaccata la stazione televisiva di Al Manar, dal momento che, secondo il Ministero degli Affari Esteri israeliano, la suddetta (stazione) era utilizzata quale strumento di incitamento e mezzo di reclutamento dei guerriglieri.

Dagli esempi fatti, emerge che il Comandante che decide di attaccare un bene “dual use” dovrà preventivamente valutare:

il requisito di obiettivo militare in capo ad esso;

il vantaggio militare conseguente ad un suo attacco, anche in considerazione delle eventuali perdite civili che, in questi (e solo in questi) casi, potrebbero essere considerate accettabili.

Certamente, la decisione dovrà essere una saggia e sapiente sintesi tra quanto poc’anzi detto ed il dato normativo: un altro esempio di valenza accademica, infatti, è quello riguardante l’attacco avvenuto durante il conflitto Etiopia-Eritrea ad opera di due jet etiopici in data 28 maggio 2000.

In quella circostanza, venne danneggiata gravemente la centrale elettrica di Hirgigo, situata a circa dieci chilometri dalla città di Massawa. La Commissione arbitrale, con sentenza del 19 dicembre 2005, ha ritenuto, con giudizio espresso a maggioranza, che la suddetta centrale fosse un obiettivo militare lecito ai sensi dell‟art. 52 del I PA., non solo per la sua capacità a fornire in futuro energia a un porto e ad una base navale di grande importanza per il nemico, ma anche in ragione della rilevanza economica del bene, la cui distruzione avrebbe potuto indurre l‟Eritrea a trattare il cessate il fuoco.

Chiare le conseguenze implicite nella seconda motivazione, con la quale si rischia di estendere il concetto di obiettivo militare a tutto ciò che può comportare l’inflizione di gravi perdite economiche al nemico: d’altronde è altrettanto vero che nei manuali militari USA si chiarisce che “Military advantage is (….) linked to the full context of war strategy” (Operational Law Handbook – Ed. 2004 e 2008), con ciò ricomprendendo nel concetto di obiettivo militare tutto ciò che può sostenere anche indirettamente le capacità belliche di uno Stato, con possibili ripercussioni negative sul principio di distinzione.

Così come è vero che il I P.A. non fornisce una elencazione tassativa dei beni che possono costituire obiettivo militare (né potrebbe farlo, vista la peculiarità della materia e la vasta gamma di situazioni operative che possono svilupparsi in un conflitto armato) ed è formulata anzi in maniera ampia ed elastica.

E’ importante sottolineare che, in caso di dubbio sulla qualificazione di un bene (obiettivo militare o bene di carattere civile), lo stesso non potrebbe/dovrebbe essere attaccato, secondo una prassi che si sta consolidando e che trova fondamento nella presunzione di cui all’art. 52 I P.A. par. 3, secondo cui “in caso di dubbio, un bene che è normalmente destinato ad uso civile, quale un luogo di culto, una casa, un altro tipo di abitazione o una scuola, si presumerà che non sia utilizzato per contribuire efficacemente all’azione militare”: tale interpretazione sembra peraltro confermata dalle “Instructions” emanate dalla Sezione Legale delle Forze armate israeliane durante l’Operazione Cast Lead (2008-2009), secondo cui “a dual use objective may be attacked if reliable, conclusive and up-to-date information confirms that it serves the military activities of the enemy, and subject to the principle of proportionality. In case of doubt, such objective shall be presumed to be civilian” (cfr. The Operation in Gaza - 27 December 2008 – 18 January 2009 - Factual and Legal Aspects, The State of Israel, July 2009).

Da quanto emerso, appare evidente di come una decisione di un Comandante non possa non tenere conto di tante valutazioni e della sempre maggior importanza, anche per le nostre Forze Armate, di dotarsi di validi Legal Advisor; così come è chiara la netta distinzione tra quella che può essere la (anche giustificata) indignazione pubblica per la perdita di vittime civili e la necessità bellica che il diritto internazionale umanitario è chiamato non a reprimere, ma a mitigare quanto alle conseguenze proprio e soprattutto per la popolazione inerme.

Marco Valerio Verni

[L'autore, avvocato del Foro di Roma, è esperto in diritto penale, diritto penale militare e diritto internazionale umanitario. Ufficiale in congedo (Ruolo Commissari) del Corpo Militare della Croce Rossa Italiana è anche membro del Settore Rapporti Internazionali dell’Ordine degli Avvocati di Roma.]