Simone Cristicchi – Jan Bernas
Ed. Mondadori, Segrate (MI) 2014
pagg.158
Dopo l’armistizio, annunciato l’8 settembre 1943 dal Maresciallo Badoglio, inizia l’incubo per gli italiani che sono un ostacolo alla realizzazione del sogno di Tito, un’unica grande Jugoslavia, comprendente anche le zone a maggioranza italiana come la Dalmazia, l’Istria, Fiume e Trieste.
Il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 assegna alla Jugoslavia l’Istria, buona parte della Venezia Giulia, le province di Fiume e Zara. Il memorandum d’intesa del 1954 assegna una parte di Trieste all’Italia, ed un’altra parte alla Jugoslavia. “Una linea sposta i confini e sposta la vita delle persone.” Sono trecentocinquantamila le persone che decidono di andarsene da queste zone.
Un vero e proprio esodo, anche se alcuni partirono convinti di tornare presto, tanto da portarsi dietro la chiave di casa. "Uomini e donne costretti a lasciare la propria terra, non per fame o per il desiderio di migliorare le loro condizioni, ma perché non si poteva vivere senza essere italiani."
Ed assieme alle persone, partirono i ricordi, anche quelli materiali. Armadi, sedie, giocattoli, sembrarono anch’essi non avere pace, poiché, giunti nel Porto vecchio di Trieste passarono da un magazzino ad un altro, per essere accatastati, infine, nel Magazzino 18. È questo il luogo della memoria che da il titolo a questo libro dove l’Autore racchiude le storie di alcuni protagonisti dell’esodo impiegando, come voce narrante, un personaggio di pura finzione, Persichetti, l’archivista inviato dal Ministero, per inventariare tutto il materiale in esso contenuto: “duemila metri cubi di oggetti che raccontano lo sradicamento di una società, interrotta di colpo, e la quotidianità spazzata via.” Ogni oggetto ha una sua storia da raccontare. “Persichetti archivia tutto.” Ma i fantasmi sono lì, pronti ad assalirlo.
C’è Domenico, che fu prelevato a casa dagli agenti dell’OZNA, il Dipartimento per la sicurezza del popolo, per una pura formalità. Un minuto dopo si trovò su un camion, insieme a persone mai viste prima, ma tutte con la stessa espressione scura. Furono fatte scendere poco dopo. Con un filo di ferro vennero legati loro i polsi a due a due, per trovarsi, dopo pochi chilometri, sull’orlo della foiba. Una pallottola in testa al suo compagno di sventura fece precipitare Domenico per centinaia di metri. Marcì nel fango, Domenico. Aveva ventisette anni.
“A sessant’anni da quell’assassinio c’è ancora chi pensa che le foibe siano solo delle cavità carsiche.” E poi c’è Norma, prelevata da casa dai partigiani comunisti di Tito che, in diciassette, abusarono di lei per una notte per poi buttarla in una foiba. Aveva ventitrè anni, Norma.
Geppino Micheletti era medico di turno, quando a Pola, sulla spiaggia di Vergarolla, alle 14.10 del 18 agosto 1946 un boato scatenò l’inferno. “Accatastate sulla spiaggia c’erano ventotto mine disinnescate... ma quei mostri addormentati, a un certo punto, si risvegliarono.” Un centinaio furono i morti. Fra di loro anche i suoi due figli, di sei e nove anni. Egli comunque decise di restare al suo posto per prestare soccorso ai feriti. Poi andò via anche lui, perché non si sarebbe voluto trovare a curare gli assassini dei suoi figli. Una stele lo ricorda nella città vecchia di Pola.
“Persichetti archivia tutto” o, almeno, ci prova, perché quelli che all’inizio erano solo oggetti, sono diventati soggetti, con un’anima. La valigia di un esule, infatti, non era come quella di un emigrante, che sperava di tornare al paese che rimaneva lì ad aspettarlo, insieme ai parenti. "All’esule je li spostavano, i paesi e i parenti!’Na vorta erano italiani, n’artra slavi,’na vorta erano rossi, ‘na vorta neri. E giù co’sputi e insulti d’ogni tipo."
Poi ci sono “i rimasti”, quelli che non sono partiti, o perché non volevano o perché non hanno avuto il permesso di andarsene via. Persone che si sono riscoperte straniere a casa loro, come se si fossero trasferite senza essersi mai mosse. “Persichetti archivia tutto, pure i disgusti.” Ma una pratica no, non ce la fa ad archiviarla: una lettera, indirizzata alla prefettura di Trieste, dove Federica Biasiol, figlia di esuli istriani, cerca gli oggetti appartenuti al padre Ferdinando.
Dopo sessant’anni, l’archivista Persichetti comunica ufficialmente il loro ritrovamento, concludendo con la preghiera di accettare le più sentite scuse a nome del Ministero degli Interni. Scuse rivolte idealmente anche ai circa trecentocinquantamila esuli la cui immane tragedia, dal 2005, viene ricordata ogni anno, il 10 febbraio, con l’istituzione della Giornata del ricordo e anche grazie a opere come questa, che Simone Cristicchi ha messo in scena a teatro ricevendo un riconoscimento nel corso della 47^ edizione del Premio Acqui Storia.
Gianlorenzo Capano