Difesa Europea: opportunità o miraggio?

08/06/20

Un tema che continua a essere dibattuto a Bruxelles, anche in questi tempi di coronavirus, è lo sviluppo della dimensione politica di difesa dell’Unione Europea.

Nonostante la grave crisi sanitaria che ha colpito l’Europa, e l’incombente crisi economica che ne è dipendenza diretta, continuano infatti a persistere pericolose minacce alla sua sicurezza. Minacce rappresentate principalmente da una situazione internazionale caratterizzata da molteplici archi di crisi, anche ai confini fisici dell’Europa, e dall’accentuarsi di sfide non convenzionali, quali il terrorismo in tutte le sue multiformi manifestazioni e lo stesso fenomeno migratorio, in tutta la complessità delle sue componenti. Ad accentuare la sensazione di rischio incombente si aggiungono i segnali ambigui provenienti dall’amministrazione Trump, che ha sensibilmente allentato la sua attenzione sull’area euro-mediterranea per dedicare le proprie energie, in parte a ragion veduta, ad altre aree, prima fra tutte il Pacifico, dove la Cina sta lentamente ma con estrema decisione espandendo la propria influenza politica, economica e militare. Proprio il già accennato neo-isolazionismo statunitense, per esempio, ha portato Washington in questi giorni a ritirarsi dal programma OPEN SKYES. Un ritiro che ha contrariato molti osservatori, anche perché il nuovo corso americano, seppur come detto in parte giustificato da un accresciuto impegno nel Pacifico, sembra andare controcorrente alle reali esigenze di sicurezza del vecchio continente.

Con questo quadro internazionale molti Paesi europei, nonostante la presenza della NATO, avvertono il bisogno di far crescere il loro ruolo di fornitori di sicurezza, con l’obiettivo di ridurre al contempo il loro livello di fruitori di sicurezza, per anni assicurata prevalentemente dal potente amico e alleato americano.

Tuttavia, nonostante la riconosciuta esigenza di creare uno strumento militare che possa operare in maniera credibile e indipendente, il suo sviluppo pratico è giustamente assoggettato alla reale volontà politica di condividere le risorse, i mezzi e soprattutto il personale da mettere in comune. È il gioco della democrazia, dove lo strumento militare è subordinato alla politica. Ed è proprio dalla politica che nascono i “problemi” maggiori. Anche se da parte militare è stata più volte manifestata la disponibilità a trovare soluzioni che permettessero di realizzare una struttura credibile ed efficace, la politica europea di difesa e sicurezza è rimasta alquanto vaga, quando non totalmente assente. La sicurezza è, invece, un’esigenza primaria delle popolazioni, alla quale la politica ha il dovere di dare una risposta.

Ma quale risposta può dare una politica che fatica (ed è un eufemismo) a dare risposte, anche solo economiche, a riconosciute emergenze come per esempio quella che stiamo attraversando? La tempesta sanitaria che ha colpito il vecchio continente ha fatto emergere il peggio di ogni Stato europeo, limitando proprio quella collaborazione che sarebbe dovuta essere alla base dell’Unione. Discussioni e tecnicismi hanno, purtroppo, fornito l’immagine di un’Europa che pensa ancora al passato e che, con il trascorrere degli anni, sembra aver perduto la sua capacità visionaria e innovatrice. Se alcuni partners non sono ancora disposti a condividere qualche miliardo di spese per debellare il virus e i suoi potenzialmente devastanti effetti economici, come si può pensare di condividere migliaia di miliardi per mezzi, armamenti, infrastrutture destinate a salvaguardare la sicurezza? Se non si è favorevoli a dare soldi per fronteggiare un’emergenza come l’attuale, come si può essere favorevoli a concedere propri uomini, siano essi soldati, marinai, aviatori o polizia militare per operazioni a sostegno della protezione di tutta l’Europa, operazioni che comunque comportano un certo pericolo per i partecipanti?

A oggi la volontà politica dei Paesi membri di dotarsi delle strutture necessarie per sostenere una vera Politica Estera e di Sicurezza Comune è, infatti, estremamente lacunosa, tant’è che l’Europa si è da anni marginalizzata da ogni iniziativa veramente significativa, limitandosi ad avviare operazioni congiunte senza obiettivi chiari né regole di ingaggio nitide, che non hanno restituito alcun risultato politico realmente significativo. Ciò è stato in gran parte favorito dall’”europeismo” britannico, guardato con sospetto fin dall’inizio anche da De Gaulle a cui è stato subito chiaro, come a molti altri osservatori, come Londra fosse entrata nella Comunità proprio per frenarne le aspirazioni unitarie e svilupparne invece le potenzialità economiche, di preminente interesse britannico. Quando queste ultime hanno ridimensionato la loro spinta (anche per effetto della grave crisi degli ultimi anni), i britannici hanno preso bombetta e ombrello e se ne sono andati. Ciò nonostante, se fino allo scorso anno poteva essere parzialmente valida la scusante del freno a mano tirato da parte di Londra, che ha tradizionalmente osteggiato ogni iniziativa tesa allo sviluppo dell’integrazione anche nel settore della difesa, oggi si è capito che l’individualismo esasperato (spesso manifestato solo a fini elettorali) di pochi membri è un altro grande nemico contro cui combattere.

È chiaro quindi che una maggiore integrazione, almeno nella fase attuale, non può farsi a 27, tenuto conto delle ostilità soprattutto dei paesi dell'Europa centro-orientale e delle remore dei paesi neutrali. Tuttavia, proprio l’uscita della militarmente potente Gran Bretagna e la volatilità dei segnali sulla copertura difensiva americana potrebbero indurre quegli stessi Paesi a una disponibilità maggiore che in passato.

Questo disgraziato 2020 è quindi diventato, suo malgrado, un anno fondamentale per l’avvenire europeo, non tanto per le importanti implicazioni economiche correlate all’emergenza sanitaria, come la prevista generalizzata riduzione del PIL, quanto perché ciò costringe a un esame critico della situazione complessiva in cui ci troviamo. Una prima risposta economica, dopo lunghi e spesso duri confronti tra partners, è stata data con la proposta della Commissione circa i Recovery Funds che, tuttavia, per essere erogati hanno bisogno del semaforo verde da parte di tutti i membri europei. Tuttavia non ci illudiamo che tali fondi possano risolvere ogni problema, anche se la loro approvazione definitiva dovesse avvenire rapidamente. Saranno comunque lacrime e sangue per tutti, magari meno di quante se ne sarebbero versate senza quei fondi, ma la situazione da superare resterà critica.

Ad ogni modo, la crisi dovuta al Covid-19 ha fatto finalmente comprendere anche che una dimensione puramente economica delle iniziative europeiste è, per propria natura, incapace di condurre a un’Europa veramente unita, come preconizzato dai padri fondatori. L’economia può certamente aiutare a razionalizzare la raccolta e la distribuzione della ricchezza ma, senza una reale volontà politica in chiave unitaria tutte le dichiarazioni di intenti sono destinate a rimanere lettera morta. Solo la politica, quindi, può far scoccare la scintilla vitale che permetterà la creazione di un’Europa composta da Paesi realmente “uniti nella diversità”, come recita il suo motto.

Di conseguenza, anche se una dimensione militare comune rappresenta, al momento, difficile da realizzare nell’immediato, in assenza di una dimensione politica (in particolare estera) a tutt’oggi evanescente, non è un’ipotesi di lavoro da lasciare nel cassetto. Ci sono, infatti, numerosi motivi che spingono invece proprio in questa direzione, e che suggeriscono di riesaminare le esigenze difensive del nostro continente, anche in considerazione del preoccupante neo-isolazionismo statunitense.

Innanzitutto, la risorgente capacità militare russa che vede, per esempio, una Marina che sta lentamente ma inesorabilmente tornando alle potenzialità di quella della Guerra Fredda, con nuovi sottomarini, nuovi missili e, soprattutto, un potente spirito nazionalistico che è tornato ad animare gli equipaggi. Nonostante le notevoli difficoltà economiche Mosca sta, infatti, ricostruendo uno strumento militare complessivamente credibile ed efficace, certamente non ancora in grado di rappresentare una minaccia globale, ma capace di impensierire molti Paesi. In aggiunta, i russi stanno intessendo una fitta rete di alleanze con altri Paesi in via di potenziamento militare, primo fra tutti la Cina. Sotto il profilo strategico, Mosca si sta riorganizzando per recuperare anche il terreno perso durante gli anni della crisi politica ed economica. Basti pensare agli interventi in Siria e in Libia, tanto per citarne due molto vicini a casa nostra.

In secondo luogo, va ricordata la vasta area di crisi che abbraccia la riva sud del Mediterraneo a partire dalla Libia, sul cui territorio ancora si combatte per la supremazia e che vede schierate da una parte la Turchia (a sostegno di al-Sarraj) e dall’altra la Russia (a sostegno di Haftar). Sempre a sud ci sono poi le irrisolte crisi del Medio Oriente, della Siria, non ancora completamente pacificata, per non parlare dell’Iraq e del terrorismo jihadista dell’autoproclamato Stato Islamico, che ora si sta consolidando nell’area attorno al Corno d’Africa e nel Sahel. Crisi importanti e potenzialmente devastanti, che sono in atto alle porte della comune casa europea e che interessano tutti i Paesi membri direttamente o indirettamente, come dimostrano le vicende dei migranti clandestini prodotti proprio da queste profonde crisi, vicende che hanno anche evidenziato la scarsa o nulla coesione e solidarietà fra i partners europei.

In questo quadro di diffusa instabilità si inserisce anche un membro della NATO, la già citata Turchia, con la sua spregiudicata politica condotta a tutto campo con lo scopo di espandere la propria area di influenza, anche economica, soprattutto sul bacino del Mediterraneo e le sue risorse. Abbandonata la speranza di far parte dell’UE, a causa dei noti problemi inter-nazionali, Ankara si sta molto adoperando per costruire una rete di connessioni sia con alcuni Paesi della sponda sud del Mediterraneo che con i Paesi del Golfo Persico e del Corno d’Africa, tale da far richiamare alla mente un neo-ottomanesimo 2.0.

Vi è poi la crescente pressione economica della Cina che, con la Via della Seta, intende penetrare l’Europa economicamente e che, con la rete 5G, fa sorgere più di un dubbio circa la possibilità di mettere una seria ipoteca sulla sicurezza cibernetica del vecchio continente.

In tutto questo, la NATO rappresenta certamente ancora un credibile strumento di deterrenza e di sicurezza ma, ciò nonostante, non può rappresentare il solo strumento di protezione a disposizione dell’Europa. Non più. Recentemente il Presidente Trump ha dato voce al già accennato approccio neo-isolazionista statunitense, per esempio, con la dichiarazione di voler ritirare le truppe USA dalla Germania. Non è ancora chiaro se tali truppe verranno ridislocate sempre in Europa, presso le numerose basi ancora presenti, se verranno trasferite in Polonia presso nuova base o se verranno riportate a casa tout-court. Se queste venissero ridislocate sempre in Europa, la situazione strategica non cambierebbe ma, se la loro destinazione dovesse essere un’altra, sarebbe un discorso diverso. E, si sa, la geopolitica della sicurezza si comporta come i gas. C’è sempre qualcuno pronto a riempire i vuoti lasciati da chi si ritrae.

Data la presenza ormai indiscussa di altre potenze che intendono far valere le loro ragioni sui teatri mondiali, quindi, è ora più che mai indispensabile assicurarsi una fitta rete di alleanze. Nessun Paese può ormai permettersi di affrontare da solo le sfide che si profilano per il futuro. I partners europei, anche nel settore della sicurezza, hanno estremo bisogno gli uni degli altri e gli Stati Uniti, che lo vogliano ammettere o meno, hanno bisogno dell’Europa esattamente come Roma, Parigi, Londra e tutte le altre capitali UE hanno bisogno di Washington. Parafrasando una nota pubblicità, oggi abbiamo bisogno gli uni degli altri “più di ieri e meno di domani”. Appare quindi indispensabile una rivisitazione dell’approccio statunitense, in modo da poter rinsaldare il rapporto transatlantico quale pilastro fondamentale della sicurezza comune e importante supporto alla costruzione di una sicurezza europea condivisa.

Nel dibattito non può essere sottaciuto il tema della deterrenza nucleare che, dopo la Brexit, in ambito UE è rimasto appannaggio della sola Francia la quale, come noto, ha una posizione ben precisa in merito: “le nucleaire ne se partage pas”. Tuttavia, il discorso è importante nella prospettiva di una difesa comune e anche questo aspetto deve essere valutato, se non come condivisione dello strumento, almeno come condivisione della deterrenza da esso indotta. In tale ambito la NATO continua a rappresentare un valore aggiunto proprio per la presenza di altri due paesi (USA e Regno Unito) dotati di armamento nucleare.

Per quanto attiene ai partners europei l’interrogativo è se queste grandi nazioni (grandi per il contributo che ciascuna ha dato alla civiltà occidentale), sapranno spogliarsi del retaggio di secoli di lotte di predominio sempre più devastanti, che hanno rischiato di portarle quasi alla reciproca distruzione, e se sapranno imboccare la via per definire una reale e comune politica estera e di difesa, passo indispensabile per approdare all’obiettivo di una comune Patria europea, da difendere insieme.

Ciò potrebbe rappresentare quel salto qualitativo capace di trasformare, nel nostro troppo a lungo rinviato processo di unificazione continentale, l’attualmente balbettante e contraddittoria presenza internazionale europea, accrescendone il prestigio, l’autorità e la concreta influenza politica. Si tratta, in sostanza, di procedere verso un’integrazione politico-strategica che permetta di servirsi delle capacità della propria area economica per raggiungere i propri obiettivi strategici internazionali. Un’area economica oggi severamente dominata dalla Germania, apprezzabile per i risultati fin qui ottenuti ma che, nei suoi decenni di vita, si è dimostrata completamente incapace di generare un’autentica unità continentale.

In questa Europa, stretta tra un’incipiente depressione, un crescente nazionalismo di alcune frange al suo interno, una preoccupante presenza di aree di crisi ai suoi confini, una Turchia dalle rinnovate aspirazioni espansionistiche, un allarmante isolazionismo statunitense e un enorme sviluppo economico e militare cinese serve, pertanto, un vigoroso rilancio unitario, con precisi obiettivi di accresciuta sicurezza e di rafforzata autorità internazionale. Un rilancio che sta diventando sempre più indispensabile e urgente, e solo i partners possono fare in modo che maturino le condizioni per questo reale progresso.

Questa Europa sarà capace di trovare la volontà e le energie per una tale rivoluzione mentale e per un sostanziale cambio epocale?

c.v. pil (ris) Renato Scarfi

Foto: Bundeswehr / ministero della difesa / EUNAVFOR MED IRINI / Türk Silahlı Kuvvetleri / Elysée