Proiezione internazionale e radicamento locale nell’industria della difesa

(di Leonardo Chiti)
20/12/15

Alcuni avvenimenti costituiscono una significativa sintesi e un’efficace rappresentazione dei processi storici in corso mettendo così in evidenza il segno dei tempi. Uno di questi è sicuramente la decisione comunicata lo scorso settembre da parte di Boeing di aprire per la prima volta nella sua storia uno stabilimento fuori dai confini statunitensi, a Zhoushan, nei pressi di Shanghai. La sortita all’esterno del territorio nazionale per il gigante dell’aerospazio costituisce (almeno nelle intenzioni) un elemento caratterizzante l’apertura dell’era della gestione targata Dennis Muilenburg (foto sotto), nominato CEO (Chief Executive Officer) in luglio.

L’annuncio è stato dato in concomitanza con la visita agli stabilimenti di Seattle del presidente cinese Xi Jinping che si è presentato con un biglietto da visita rappresentato da un ordine di 300 velivoli da parte delle compagnie dell’Impero di Mezzo. Per l’apertura del suo primo impianto in Cina Boeing ha stretto un accordo con il costruttore locale di proprietà statale Comac (Commercial Aircraft Corporation of China), nato nel 2008 a Shanghai per rimettere insieme i pezzi di varie aziende del settore. Lo scorso novembre Comac ha presentato il proprio aereo per le tratte a corto e medio raggio C-919 con cui conta di ritagliarsi un proprio spazio nella categoria – al momento dominata da Boeing e Airbus - “narrow body medium size”, ovvero con singolo corridoio per 150-200 passeggeri.

Non che rapporti di collaborazione non esistessero dato che il colosso americano può vantare una relazione quarantennale con il mercato cinese iniziata con la prima visita ufficiale di Nixon nel 1972, ma ci si era sempre limitati a rapporti di subfornitura affidando ai produttori locali la realizzazione di componentistica o rifiniture interne. La scelta per un impegno diretto da parte di Boeing si fonda su uno scenario di prospettiva che mantiene il segno positivo per il settore aeronautico nonostante dubbi e contradizioni che hanno interessato ultimamente in modo particolare la “pattuglia” dei paesi emergenti, componente di sempre maggior rilievo per l’economia mondiale, ruolo che ha registrato un’ulteriore accelerazione dal 2007 con l’innesco della crisi finanziaria globale.

In effetti allo stato attuale il gruppo dei BRIC (acronimo coniato dall’economista Jim O’Neill di Goldman Sachs nel 2001), inteso come squadra di testa che tirava la volata della crescita globale, non esiste praticamente più. Brasile e Russia sono in recessione, fibrillazioni borsistiche e tensioni valutarie continuano ad interessare la Cina che fa discutere gli osservatori internazionali soprattutto in merito alla reale portata del proprio rallentamento e relative ripercussioni sul ciclo economico mondiale rispetto al quale sembra essere passato all’India il testimone di maggior sostenitore della crescita in termini di ritmi di incremento percentuale. L’Elefante indiano sarebbe affiancato in tal senso da alcuni paesi africani come ad esempio l’Etiopia (94 milioni di abitanti) che ormai da un decennio registra tassi di crescita in doppia cifra, dopo che negli anni precedenti era stato il Sud Africa il campione delle prospettive di riscatto economico del continente nero, tanto da far aggiungere una S all’acronimo ideato da O’Neill.

Per il dragone restano le incognite legate al processo di ristrutturazione dell’apparato economico-industriale e finanziario se si pensa che secondo le stime 1/3 delle riserve valutarie cinesi, che si aggirano intorno ai 3.000 MLD di $, dovrà essere impiegato nel riordino del sistema bancario gravato da elevate sofferenze creditizie. Della gestione di questo processo fa parte la politica del “go West” con cui si cerca di rilanciare la crescita attraverso il volano del vasto entroterra continentale (la cosiddetta “Cina gialla” secondo la definizione di Marie-Claire Bergère nel suo libro Sun Yat-sen, del 1994), rimasto attardato rispetto allo sviluppo delle zone costiere (“Cina blu”, che va da Tianjin a Shanghai, da Canton-Guangzhou ad Hong Kong).

Comunque sia il gruppo dirigente di Boeing stima che nei prossimi 20 anni la Cina ordinerà 6.330 aerei (il 17% degli oltre 38.000 a livello mondiale, con l’intera area Asia-Pacifico che toccherà quota 10.000), per 950 MLD di dollari e per circa ¾ (73%) si tratterà di velivoli per il trasporto regionale a corto e medio raggio del tipo Boeing 737 e Airbus A-320. Gli studi di Airbus concordano e dai vertici del gruppo europeo (che in precedenza ha già piantato le proprie insegne a Tianjin in associazione con la cinese Avic), si fa notare che i costruttori aeronautici seguono le orme dei produttori di auto intraprendendo un processo di radicamento nei principali mercati di sbocco, con l’apertura di propri impianti.

La mondializzazione procede seguendo una dinamica di ineguale sviluppo e il mutamento dei pesi economici nelle relazioni internazionali che ne consegue spinge, pur con tutte le particolarità del settore, anche i grandi gruppi della difesa a dotarsi di una dimensione sempre più internazionale. Questo non cancella però il rapporto con il territorio delle aree di insediamento storico e la specificità delle relazioni locali che vi si sono instaurate, fermo restando un inevitabile processo di adeguamento e trasformazione.

Proprio a partire dagli Stati Uniti la collocazione geografica dei colossali insediamenti produttivi di un complesso militare-industriale costituisce un aspetto di grande interesse facendo rilevare come l’approvvigionamento e la produzione legati alla difesa tendano ad essere geograficamente concentrati piuttosto che dispersi sul territorio nazionale, pur dovendo tenere conto, come vedremo, di un adeguato bilanciamento della distribuzione di questi poli produttivi.

Nell’era dell’informatica, di internet, dei social network, delle videoconferenze e delle più svariate attività compiute da remoto, il settore di punta dello sviluppo tecnologico - che comunque fa ovviamente ampio ricorso a tutti questi strumenti, non fosse altro per il fatto che nella gran maggioranza dei casi si tratta dell’ambiente in cui sono nati - fornisce importanti esempi che valorizzano i rapporti di prossimità in un ambito territoriale più o meno esteso ma pur sempre circoscritto.

Che li si voglia definire distretti o cluster, anche per l’industria della difesa americana si riscontra un fenomeno di agglomerazione produttiva in aree che si riconoscono in una identità collettiva definita, sia questa legata a caratteristiche di tipo geografico, economico-industriale, storico o ideologico-folkloristico. Elementi caratterizzanti che sono spesso richiamati nei nomi delle società sportive locali: Boston Celtics, Detroit Pistons, Dallas Cowboys, Houston Rockets, Miami Dolphins, Seattle Supersonics, New York Yankees ecc.

Nell’evidenziare la specificità del modello di insediamento territoriale dell’industria della difesa si è fatto ricorso al termine “gunbelt” (cintura delle armi). L’emergere di queste ultime viene ricondotto agli effetti delle varie ondate di ristrutturazione che hanno investito in modo particolare determinate regioni o aree metropolitane interessando certamente anche le imprese collegate alla difesa (senza risparmiare come si vedrà anche marchi illustri come Colt e Winchester) che però a quanto pare hanno tenuto meglio rispetto al quadro generale accrescendo così il proprio peso specifico.

Il rapporto tra industria della difesa e territorio si dimostra complesso, legato all’alto profilo tecnico del ciclo produttivo e alla necessità di poter contare su competenze altamente specializzate di una manodopera formata in tal senso e su di una cultura imprenditoriale specifica. La continua pressione per l’innovazione rende irrinunciabile la presenza di fattori quali: grandi poli universitari e centri di ricerca che sono allo stesso tempo emanazione ed elemento di ulteriore attrattiva nell’ubicazione di centri industriali a così alta intensità innovativa.

Non bisogna poi dimenticare che nella localizzazione degli impianti di un complesso militare-industriale contano naturalmente le decisioni degli Stati e quindi della classe dirigente politica in merito ai bilanci della difesa e alle politiche di armamento. Il rapporto tra politica e localizzazione delle attività economiche è inevitabilmente una costante perché anche il consenso politico, organizzato in distretti elettorali, è legato al territorio, quindi agevolare e tutelare un determinato tessuto economico-industriale è un modo per creare, accrescere o consolidare una propria base elettorale.

Secondo Ḗtienne de Durand durante il periodo della riforma delle linee guida del Pentagono all’insegna della “jointness” nella prima metà degli anni 2000, la cancellazione nel 2002 del sistema di artiglieria mobile SPH (self-propelled howitzer) XM 2001 Crusader e nel 2004 dell’elicottero stealth da ricognizione armata e attacco Boeing-Sikorsky RAH-66 Comanche (foto a sx), non hanno presentato particolari difficoltà per l’allora segretario alla Difesa Donald Rumsfeld.

Da una parte i due programmi erano considerati doppioni (per di più di lusso, basti pensare alla sofisticazione spinta delle dotazioni del Comanche), in quanto focalizzati su capacità operative ritenute già coperte da altri sistemi d’arma di collaudata affidabilità, ma soprattutto: si dimostrarono in pochi quelli disposti a prenderne le difese in seno al Congresso a causa delle ricadute industriali limitate a un numero ridotto di Stati (“L’interarmées aux Ḗtats-Unis. Rivalités bureaucratiques, enjeux opérationnels et idéologie de la jointness”, IFRI novembre 2007).

Venendo ad un esempio che ci riguarda più da vicino, all’inizio del 2005 Agusta-Westland, partecipante ad un team industriale guidato da Lockheed-Martin, aveva acquisito un contratto relativo al programma poi denominato VH-71 (derivato dall’EH/AW-101 - foto sotto a dx), per la fornitura dell’elicottero statunitense destinato al trasporto presidenziale. Nei primi mesi del 2009 la deputata democratica Rosa De Lauro ha avanzato la richiesta di revisione del programma impugnando la normativa Nunn-McCurdy riguardante i programmi i cui costi superino di oltre il 25% il budget preventivato.

La richiesta si presentava fondata visto che i costi erano cresciuti dai 6 MLD di $ inizialmente previsti fino a sfiorare i 13 MLD, il che comportava la necessità di una riapprovazione da parte del Congresso. Nonostante le dichiarazioni dei partners industriali e le ammissioni provenienti dagli stessi ambiti militari secondo cui l’aumento dei costi era dovuto alle numerose richieste avanzate dal cliente nel corso del programma (50 per apportare modifiche significative e oltre 800 per cambiamenti di minore entità), fu deciso di “terminare” quest’ultimo dopo la fornitura delle prime 9 macchine, 4 test vehicle (prototipi) e 5 pilot production (preserie).

Questo provvedimento ha ridato slancio all’attività delle lobby che spingevano per la riassegnazione del contratto a Sikorsky, già fornitore di U.S. Navy e Marines di elicotteri H-3 utilizzati nel trasporto presidenziale, come ad esempio la linea VH-3D operata dal HMX-1, il reparto dei Marines impegnato nel trasporto dell’inquilino della Casa Bianca. Sikorsky e la sua capogruppo di allora United Technologies hanno la propria sede principale in Connecticut, dove si trova anche il distretto elettorale di Rosa De Lauro. La combattiva esponente democratica è nota per le sue battaglie per i diritti civili, per la salvaguardia dell’ambiente e per il controllo delle armi, soprattutto di quelle che non sono abbastanza “made in USA”.

Nelle sue prime dichiarazioni in merito all’apertura della fabbrica di Zhoushan, Dennis Muilenburg, che conosce bene la storia di Boeing, ha tenuto a sottolineare che: l’accordo con i nostri partners cinesi non si tradurrà per il programma 737 in licenziamenti e soppressioni di posti nello Stato di Washington (Véronique Guillermard, En ouvrant une usine en Chine, le géant américain brise un tabou, Le Figaro, 24 settembre 2015).

Le dichiarazioni del CEO di Boeing vanno lette certamente nel senso di disinnescare una potenziale opposizione da parte dei combattivi sindacati di settore, con particolare riguardo alla sezione locale dell’International Association of Machinists and Aerospace Workers, che già non ha visto di buon occhio la decisione del gruppo di aprire nel 2009 una seconda linea di assemblaggio per il 787 Dreamliner in North Carolina, il che rivela un atteggiamento non proprio in linea con l’aggettivo “International” presente nel nome dell’associazione.

Se un’operazione interna agli USA mette gli esponenti di questo sindacato in agitazione, non è difficile immaginare la reazione all’annuncio del “balzo in avanti” verso l’Impero di Mezzo. Allo stesso tempo è evidente la volontà di Muilenburg di rassicurare deputati e senatori eletti nei distretti dove sono presenti gli impianti del costruttore di Chicago-Seattle.

Questa linea di condotta offre lo spunto per riflettere sul fatto che anche un processo di espansione può creare degli attriti nell’attività di un’azienda ma per ovvi motivi sono i piani di ristrutturazione che generano i maggiori contrasti, e questo non riguarda solo la controparte sindacale. Lo scontro sulla ripartizione dei costi sociali di una ristrutturazione può aprire delle linee di faglia interne ad un’impresa, soprattutto quando si tratta di un grande gruppo con una pluralità di centri produttivi dislocati in un retroterra statale di riferimento dalle dimensioni continentali.

Se questo vale per gli USA non c’è da stupirsi che in Europa le frizioni interne alla capogruppo di Airbus, EADS, abbiano costituito un problema costante assorbendo parte delle energie di direzione, condizionate nel loro agire dalla necessità di salvaguardare gli equilibri interni.

Particolare rilievo hanno sempre avuto i contrasti franco-tedeschi in merito alla distribuzione del peso dei piani di ristrutturazione, andando ad interessare la partnership tra due paesi che sono non solo i principali “azionisti di riferimento” di EADS, ma anche i pilastri di quell’asse renano che ricopre il ruolo di perno dell’unificazione europea.

Anche Airbus ha avuto il suo da fare nel conciliare la propria espansione internazionale con le istanze locali delle diverse aree di insediamento europeo. I primi passi di una cooperazione con la Cina risalgono all’era di Jean Pierson, presidente del gruppo dal 1985 al 1998, ma il punto di svolta è rappresentato dalla seconda metà degli anni 2000 con la costruzione del sito produttivo di Tianjin in associazione con la cinese Avic per l’assemblaggio dell’A-320. Inizialmente il peso del costruttore europeo nel mercato cinese si avvicinava al 20%, a circa un decennio di distanza i rapporti di forza con Boeing si sono equilibrati con una spartizione al 50%.

In programma c’è un ulteriore rafforzamento della collaborazione con l’apertura di un centro – la cui effettiva entrata in servizio è prevista per la fine del 2017 – per il controllo di qualità e assemblaggio finale per l’A-330 di cui la Cina ha ordinato 75 esemplari per 18 MLD di $ lo scorso luglio.

I vertici del gruppo si sono dimostrati attenti all’impatto che questi movimenti possono esercitare sul proprio retroterra europeo, facendo circolare un documento relativo ad uno studio volto a dimostrare che per ogni posto di lavoro creato in Cina si genererebbe un carico di lavoro per addirittura 3 lavoratori degli impianti europei, dato che i cinesi assemblano parti d’aereo costruite in Europa.

Intanto il management di Airbus punta sullo stabilimento di Mobile in Alabama, inaugurato ufficialmente lo scorso 14 settembre, dove si assemblano gli A-320, per ambire alla conquista di una quota pari al 50% del mercato americano che equivarrebbe a più che raddoppiare l’attuale 20%. A Mobile Airbus ha già assunto 260 persone e con l’entrata a regime dell’impianto, che dovrebbe avvenire nel 2018, si arriverà a quota 1000 con un rateo produttivo mensile di 4 A-320 portando il totale del gruppo a 63 aerei al mese.

Le imprese non sono sistemi chiusi ma interagiscono continuamente con un ambiente circostante che si compone in prima istanza di fattori locali e di elementi che via via presentano tratti di segno più globale fino ad interessare la dinamica delle relazioni internazionali: uno di questi è rappresentato dai rapporti monetari tra potenze.

L’entrata in scena della moneta unica europea tra gennaio e marzo del 2002 ha rappresentato un importante elemento di novità nel panorama internazionale, a partire ovviamente dall’UE e in particolare dall’area euro (di cui fanno attualmente parte 19 paesi), dove non c’è impresa, dal negozio sotto casa al grande gruppo internazionale, che direttamente o indirettamente non debba “fare i conti” con i tassi di cambio e con il valore della nuova moneta di riferimento.

La valuta in cui sono espressi i bilanci di un’impresa costituisce un fattore importante nella lotta di concorrenza influenzandone la solidità economica e la capacità di penetrazione commerciale. Questo vale a maggior ragione per un gruppo del peso internazionale di Airbus per il quale i tassi di cambio monetari giocano un ruolo anche sulle decisioni riguardanti la localizzazione degli impianti.

Nell’estate del 2008 i vertici di EADS, a cui fa capo Airbus, valutavano la possibilità di dover far fronte dal 2010 ad un tasso di cambio oscillante intorno alla media di 1,5 dollari per euro. Una moneta così forte costituiva un problema dato che le imprese europee della difesa hanno un sistema di contabilità che registra i costi in euro e i ricavi in dollari. L’allora presidente di EADS Louis Gallois, entrato in carica nel 2006, dava la linea: bisognerà aumentare la parte della produzione e degli acquisti realizzati in dollari (Giampiero Martinetti, Più America in Airbus, la scommessa finale del “certosino” Gallois, Affari & Finanza, 09 giugno 2008).

In altri termini questo significava sbarcare negli USA con propri stabilimenti e affidarsi in maggior misura alla rete di subfornitori a stelle e strisce per la componentistica. In quest’ottica Aerospace Dynamics International, alla fine del 2013 ha iniziato i lavori per la costruzione del sito produttivo di Santa Clarita nei dintorni di Los Angeles. L’azienda californiana si è così attrezzata per aumentare la produzione di parti dell’A-350 XWB.

Ad oggi il cambio tra le due monete in questione si è riavvicinato alla parità arrivando intorno a 1,1 dollari per euro e il rafforzamento relativo del biglietto verde favorisce il costruttore europeo in base al doppio regime valutario della propria contabilità generale. Quindi un investimento diretto negli USA assume anche il senso di mettersi al riparo dal rischio di cambio o comunque di posizionarsi per farvi meglio fronte, fermo restando il rilievo più direttamente produttivo dei vari aspetti che sono stati richiamati: professionalità locali elevate, ricadute in termini di posti di lavoro e accordi con produttori locali che agevolano la predisposizione collaborativa delle autorità politiche ecc.

Per gli Stati Uniti il termine “belt” è stato utilizzato storicamente per descrivere una sorta di specializzazioni geoeconomiche, combinandolo con la particolare declinazione produttiva locale. Così la “cotton belt” (cintura del cotone), comprendeva gli Stati del Sud-Est tra cui Texas, Louisiana, Mississippi, Alabama, Georgia ecc. La “corn belt” (cintura del mais), si estende tra Nebraska, Iowa, Illinois, Indiana, Ohio; la “sun belt” (cintura del sole), va dalla Florida attraverso il Sud fino alla California.

Come si vedrà in tutte queste zone, nei diversi passaggi che hanno caratterizzato lo sviluppo economico-industriale degli Stati Uniti, si sono insediate filiere produttive che hanno portato a parlare di vere e proprie “gun belt”, dal distretto delle armi leggere del Nordest ai poli dell’aerospazio del Sud e della West Coast.