Ucraina: lo stallo tra Europa e Russia

(di Giampiero Venturi)
27/04/16

Torna la primavera nel Donbass, ma il sereno è ancora lontano. Forse ancora più lontano di un anno fa, quando l’approccio di Minsk pur nello scetticismo generale aveva aperto uno spiraglio.

Scomparsa dalle cronache, l’Ucraina intanto continua a vivere, anzi a morire. Prevale la logica dello stallo o meglio dello status quo, che configura la linea di contatto tra Forze Armate di Kiev e separatisti del Donbass come separazione concreta fra due terre, due patrie, due sfere d’influenza.

La violazione continua dall’una e dall’altra parte di un cessate il fuoco buono per le coscienze occidentali, la dice lunga. In un Paese non più unito e ormai caduto nel baratro economico e sociale, ogni giorno aumentano le distanze tra le parti.

Le controsanzioni russe si avviano a generare il primo miliardo di dollari in danni alle casse di Kiev mentre terre ormai separate dall’Ucraina come la Crimea (nuovo soggetto federale russo dal marzo del 2014) si allontanano dall’Occidente anche sotto il profilo bancario: il sistema di pagamento UnionPay ha sostituito i circuiti Visa e Mastercard.

Quanto il silenzio allontani anziché accostare lo spiega bene Victor Levytskyy, direttore dell’UISGDA, l’Istituto ucraino di strategie e sviluppo globale, intervenuto a Montecitorio alla conferenza Ucraina: crocevia tra Occidente e Russia (presenziata tra gli altri dal Presidente della Commissione Esteri Cicchitto e dal Sottosegretario Della Vedova).

“Dopo un anno parliamo ancora delle stesse cose del primo giorno. Ogni minuto che passa i territori delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk si allontanano sempre più da Kiev e la gente continua a  morire…”

La paura di una guerra congelata ben oltre il freddo delle latitudini diventa uno spauracchio, ormai quasi certezza. Interrogarsi sui motivi, viene da sé.

Cominciamo dai punti fermi.

La centralità dell’intangibilità dei confini internazionali è il perno attorno a cui ruota la visione occidentale della crisi, per la cui soluzione è necessario ripristinare le condizioni territoriali antecedenti alla guerra. Lo stesso governo italiano, pur assente dai tavoli che contano, anche su questo punto è perfettamente allineato a Bruxelles e a Washington.

L’autodeterminazione dei popoli diventa quindi un principio subalterno al Diritto Internazionale, secondo un approccio essenzialmente pratico: nel mondo non tutto e tutti possono aspirare all’indipendenza, pena il caos globale. Soprattutto se le aspirazioni passano per la violenza. 

Secondo questa visione, la Crimea ad esempio, a prescindere dalle sue ragioni storiche, culturali e linguistiche è parte integrante dell’Ucraina, così come i territori del Donbass, autoproclamatisi a suo tempo Nuova Russia.

La stessa logica non ha avuto peso in Kosovo, dove con il referendum del 2008 si è invece assistito al contrario: il principio di autodeterminazione dei popoli ha prevalso sull’intangibilità dei confini internazionali. Oggi quasi tutti i Paesi che applicano le sanzioni a Mosca per il suo appoggio ai separatisti del Donbass riconoscono l’indipendenza di Pristina e con essa intrattengono relazioni diplomatiche, anche se ufficialmente Belgrado non ha mai riconosciuto la scissione. L’Italia, nemmeno a dirlo, è fra questi. Anche in questo caso la violenza è stata compagna di rivendicazioni politiche e grandi fratelli esterni, ma i supporters dell’UCK non sono mai stati oggetto di sanzioni internazionali.

Il diverso metro di misura è stabilito in base alla “determinazione dell’aggressore”, principio secondo cui si cerca di risolvere una crisi stabilendone a priori chi sia stato a crearla. In sostanza si ripete il gioco delle Scuole Elementari, quando toccava al capoclasse distinguere sulla lavagna i buoni dai cattivi.

È il retaggio a cui si è ispirato Paolo Messa, Direttore del Centro Studi Americani intervenuto alla stessa conferenza alla Camera

“In Ucraina deve essere chiaro, c’è un aggredito e un aggressore…”

Orfani della sua lucidità su questo tema, ci limitiamo a guardare il calendario, per molti fermo al 1991, quando con l’implosione dell’URSS e la fine della Guerra fredda molti ingenui si aspettavano un terremoto geopolitico con annesso refresh degli equilibri validi per il XX° secolo.

Ci si chiede però se certezze cosmiche e agende senza date siano la base adeguata per un osservatorio internazionale, sulla carta intenzionato a risolvere la più grande crisi dell’Est dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ci si chiede se dimenticare le evoluzioni dell’ultimo quarto di secolo aiuti davvero a capire le istanze di tutti: ucraini che guardano a ovest e quelli che guardano a est. Soprattutto ci si domanda se questo sia il vero obiettivo finale.

In realtà piccoli insignificanti dettagli parlano più del silenzio che li circonda:

  • l’Alleanza Atlantica con tre allargamenti e in soli 10 anni ha inglobato in blocco l’ex Patto di Varsavia e tre ex Repubbliche Sovietiche
  • Maidan significa “piazza” e Piazza Maidan è solo un errore, come ne sono stati fatti tanti in Ucraina.

Se a dimenticare queste piccoli passaggi sono un Presidente di Commissione Esteri e un Sottosegretario, allora c’è ancora molta strada da fare. Almeno affinché non si continui ad offuscare il mirino con cui inquadrare una terra in cui una moltitudine di cittadini europei muoiono ogni giorno.

(Foto: Giorgio Bianchi)