Non sono i presidenti a cambiare l’America; è l’America che cambia i presidenti

(di Giampiero Venturi)
17/11/16

Prendiamo spunto dall’elezione di Trump, ma possiamo allargare il concetto a tutta la storia recente degli Stati Uniti. Analisi e dibattiti del dopo-elezioni, si concentrano spesso sul “cosa succederà adesso”, puntando i riflettori sulle mosse del Presidente neoeletto e sul futuro della nazione.

Nel contesto attuale, le domande sono ancora più rilevanti, dal momento che l’elezione non prevista di Trump lascia intendere un cambio di scenari importante all’orizzonte, sia sul piano interno che su quello della politica estera.

Come ulteriore spunto di riflessione potremmo però chiederci se l’arrivo di un Presidente considerato di rottura rispetto alla precedente amministrazione, sia davvero antesignano a restyling importanti o se viceversa sia la sintesi di un cambio di rotta chiesto già da tempo dall’elettorato. In altri termini, sarà Trump a cambiare il Paese o l’America profonda ribolle da anni di un malcontento sociale stratificato?

In un sistema presidenziale puro, dove il capo dello Stato è anche il capo del governo e assume il ruolo di un monarca assoluto (soprattutto se affiancato da un Congresso amico), è evidente che tutti i prodotti del mandato saranno riferiti al suo operato diretto. Solo per citare alcuni esempi: è stato così per Kennedy, passato alla storia come presidente liberal dalle grandi vedute; è stato così per Reagan, padre del grande ritorno USA dopo la sordina degli anni ’70; è stato così per Obama, primo presidente afroamericano, patrocinatore della rottura di mille tabù…

In realtà ciascun Presidente nasce da un’investitura popolare che ha maturato una coscienza durante tutta l’amministrazione precedente. Il discorso vale soprattutto se il Presidente uscente ha goduto di un doppio mandato, aumentando le possibilità che un ribaltamento dello stato di cose sia gradito all’elettorato. Questo prescinde dalle virtù e dai successi di un’amministrazione: è un'inevitabile necessità di ricambio che si lega all’evoluzione dei tempi. Ne fece le spese anche Churchill che portò il Regno Unito alla vittoria nella guerra mondiale, ma fu rottamato subito dopo. Come a dire: “finita la festa, gabbato lo santo…”.

Per rimanere agli esempi allora, possiamo interpretare Kennedy più come il simbolo carismatico di una generazione nuova pronta a passare dal generale Eisenhower al beat degli anni ’60, che come un Presidente innovatore venuto da chissà dove. Stessa cosa per Reagan, riesumatore dell’America dalle ceneri del Vietnam, del Watergate, dalle figuracce in Iran e dalla depressione economica e identitaria degli anni ’70.

Arrivando ai nostri giorni, il ragionamento è lo stesso. Obama ha pensionato l’America di Bush cavalcando ambienti e istanze liberal pressanti, maturate in 8 anni di “repubblicanismo” radicale. Ora che tocca a Trump, non è difficile immaginare che quelle stesse istanze non rappresentino più il cuore interiore di un Paese nervoso e deluso. Se Obama era l’incarnazione della rivincita delle minoranze culturali, etniche, religiose e la sponda ideale per abbattere ogni tradizionalismo politico americano, a spingere Trump sulla soglia della Casa Bianca sono state decine di milioni di americani rimasti a lungo senza voce. Checché qualcuno storca la bocca, esiste una maggioranza demografica negli States fatta di bianchi, cristiani ed eteorsessuali, di cui almeno la metà sono uomini, che hanno diritto di avere un’opinione e soprattutto libero accesso al voto. Così è e bisogna starci.

Verrebbe da dire “i tempi cambiano” ed è proprio così in effetti. Non sarà Trump a introdurre chissà quali novità quindi, ma è stata un’America stufa di certi ambienti a chiedere di farlo. Che tocchi proprio a lui, può essere contingenza, destino o anche abilità. Provare a rompere il guscio del pensiero universale strutturato sui luoghi più comuni del politicamente corretto, non era un compito facile e in tutta onestà, ci voleva il personaggio adatto. Ora vedremo, sapendo che “cosa c’è da aspettarsi da Trump” diventa in realtà “cosa c’è da aspettarsi dall’America che lo ha eletto”.

Su questo si sposta l’asse dell’analisi. Se Hillary Clinton e l’intellighenzia DEM non sono riuscite a captare il battito più profondo del Paese, la stessa cosa sta avvenendo nel resto dell’Occidente?

Ciò che saranno gli States attraverso le scelte del nuovo Presidente corrsponde a quello che gli States hanno mormorato negli ultimi anni di profondo distacco dall’operato di Obama. Vale lo stesso per l’Europa?

A giudicare dalle risposte elettorali degli ultimi anni in diversi Paesi europei, la risposta non può essere che “sì”, con ogni certezza. Mentre le lobbies al potere a Washington si allontanavano da una base sociale allargata (fatta eccezione per le roccaforti liberal, ora tornate minoranza), anche in Europa si ha la certezza che il potere politico-burocratico non stia al passo col malcontento delle comunità locali.

La “semplicità” istituzionale degli USA però ha garantito il cambio, confermando quella grande forma di democrazia diretta che rappresenta l’America. Sarà così anche da noi?

Lo spunto è interessante e ci invita ad una considerazione: non dobbiamo chiederci cosa comporterà la presidenza Trump per l’America, ma ciò che succederà al mondo che dall’America dipende, direttamente o indirettamente.

Noi europei, viziati da mezzo secolo di deleghe culturali, politiche e ideologiche siamo ancora in grado di decidere del nostro futuro? Appiattiti sull’onda lunga americana che abbiamo assecondato in ogni passaggio, dal maccartismo degli anni ’50 fino al gay friendly dell’ultimo decennio, cosa faremo davanti ad una sterzata a 180° come l’elezione di Trump? Andremo in tilt in un corto circuito tra popolo e istituzioni che non lo rappresentano o faremo i cagnolini che si riposizionano davanti al padrone?

Sarà interessante a questo proposito vedere il linguaggio politico delle amministrazioni embedded dallo strapotere liberal di Washington, che tra le altre colpe ha avuto soprattutto quella di credersi immortale e amato da tutti.

Solo per questo vale la pena tenere gli occhi aperti per almeno un quinquennio.

(foto:web)