Medio Oriente in ebollizione: chi soffia dietro il conflitto sciiti-sunniti?

(di Giampiero Venturi)
11/04/16

Tra sciiti e sunniti non corre buon sangue dal VII° secolo, praticamente dalle origini dell’Islam, quando la legittimità della guida spirituale per i musulmani diventò un tema centrale. Lo scontro tuttavia non ha mai interessato i grandi numeri. Gli sciiti rappresentano poco più del 10% dei fedeli di Allah e il conflitto, anche se mai superato, non è mai degenerato. Nell’ultimo secolo in particolare, prigioniero delle rivendicazioni e delle fratture etnico-scismatiche che caratterizzano i tanti rivoli dell’Islam, non è mai uscito dalla sfera confessionale.

Ai nostri tempi la divisione fra “ortodossi” e “ribelli” islamici ha ripreso peso politico solo col ritorno dell’ayatollah Khomeini in Iran nel 1979. Ma anche quando l’Iran sciita ha iniziato a far paura alle monarchie sunnite del Golfo, lo scontro ha generato attriti capaci di influenzare la geopolitica in Medio Oriente, ma mai al punto da innescare guerre su larga scala.

Facciamo un esempio.

Per tutta la durata della guerra Iran-Iraq Khomeini si riferiva a Saddam Hussein con l’appellativo di “serpe infedele”, infuriato non solo per l’aggressione del 1980 ma anche per la feroce repressione del rais di Baghdad della maggioranza sciita in Iraq. Le monarchie del Golfo dal canto loro hanno appoggiato l’Iraq per tutti gli anni ’80 proprio per frenare Teheran. L’ossessione era forte soprattutto in Arabia Saudita e in Bahrein dove le minoranze sciite sono più rumorose. La città saudita di Qatif è il cuore dello sciismo della Penisola e sta a un passo dall’arcipelago del Bahrein, più volte agitato da rivolte religiose. 

Tuttavia l’appoggio a Saddam fu tutto tranne che teologico. Il rais, benché sunnita, oltre ad essere laico era anche di formazione baathista nasseriana, con una vena socialista anti teocratica. Neanche a dirlo Saddam due anni dopo l’armistizio con l’Iran sconfessò il “volemose bene” sunnita attaccando proprio il Kuwait, primo anello della filiera araba anti-iraniana e anti-sciita.

In altri termini nella Storia contemporanea guerre importanti tra sunniti e seguaci di Alì non ce ne sono state e gli scontri, anche violenti, sono sempre stati circoscritti a faide locali.

Le cose cambiano. Vediamo perché.

La fonte concreta di pericolo integralista fino a venti anni fa è stata più che altro lo sciismo che fa un assioma dell’unione tra sacro e profano e di teologia e politica. I seguaci di Alì sono i fautori di un’interpretazione onnicomprensiva dell’Islam che aspira ad una fusione totale fra Terra e Cielo: la teocrazia appunto, dal 1979 messa in atto proprio dall’Iran. 

I sunniti hanno però spodestato il potenziale fondamentalista degli sciiti da quando la visione conservatrice wahhabita si è diffusa a macchia d’olio tra Asia e Africa.

Dietro questa crescita c’è l’Arabia Saudita, culla dell’interpretazione più conservatrice del Corano, divenuta poi guida teologica e ideologica per Talebani, Al Qaeda e Stato Islamico.

La jihad sunnita col tempo ha doppiato quella sciita, permettendo perfino all’Iran di far la parte del moderato (guerra all’ISIS in Siria).

Per dirla in breve, oggi in Medio Oriente gli Stati teocratici sono due, Arabia Saudita e Iran, schierati sulle due rive opposte del fiume Islam.

L’Arabia Saudita, Paese custode dei due maggiori luoghi sacri islamici (La Mecca dove è nato Maometto, Medina dov’è sepolto), fa del wahhabismo la base per l’esportazione del suo peso politico. Viene da sé che il terrorismo internazionale di matrice sunnita, goda di coperture enormi, politiche e finanziarie.

In questa rubrica abbiamo parlato più volte della crescita geopolitica di Riad, sempre più in grado di influenzare le scelte strategiche americane e sempre più autonoma come potenza regionale e addirittura globale.

Cosa ci dobbiamo aspettare dunque?

Due eventi recenti hanno una rilevanza enorme nello sviluppo delle prossime calibrature geopolitiche mediorientali e non solo:

  • l’esecuzione del 2 gennaio in Arabia Saudita dell’imam sciita Al-Nimr;
  • la decisione della Lega Araba e del Consiglio di Cooperazione del Golfo di dichiarare Hezbollah organizzazione terroristica.

Il primo è un grande segnale politico: Riad può permettersi di sfidare l’Iran su scala non solo regionale. I due Paesi sono rispettivamente primo e quarto produttore di greggio al mondo, con visione diversa anche riguardo al prezzo del barile. Lo scontro a distanza tra sunniti e sciiti in Siria, nello Yemen e in Iraq, è quindi la prova di una sfida geopolitica tra potenze che va al di là della religione.

Lo testimonianio la Lega Araba e il Consiglio di Cooperazione del Golfo (i sei Paesi del Golfo Persico) che rispettivamente il 12  e il 2 marzo, sotto pressione dell'Arabia Saudita, hanno messo al bando Hezbollah. Il voto della Lega la dice lunga su chi sia a dare le carte tra gli arabi e sul nuovo clima che si respira in Medio Oriente: contro la condanna si sono espressi solo Iraq e Libano, Paesi con forti presenze sciite e cinvolti nella guerra in Siria. La Siria, sospesa dai lavori, non ha votato.

Il “Partito di Dio” libanese è stato per decenni mito degli islamici di tutto il mondo per aver colpito e tenuto testa a Israele. Ora i sauditi (e gli arabi che li seguono) ne parlano con lo stesso linguaggio di una cancelleria occidentale alimentando i sospetti iraniani e siriani di “complotto sionista”.

L’enigmatico rapporto di Arabia e Israele con lo Stato Islamico, i due nemici comuni Iran e Hezbollah, il rapporto privilegiato con gli USA, l’amicizia storica con la Turchia… Non sono pochi quelli che sostengono che Stato ebraico e Arabia Saudita abbiano molte più convergenze di quanto l’etichetta faccia credere.

L’Iran sarebbe quindi il vero antagonista della plutocrazia dollaro-centrica occidentale e l’Arabia Saudita al contrario il regno bicefalo che da una parte la asseconda e dall’altra la minaccia col fondamentalismo islamico. 

C’è questo dietro lo scontro sunniti-sciiti?

Molto ci diranno il prossimo presidente USA e l’evoluzione del rapporto strategico tra Iran e Russia.

Quale che sia lo sfondo, la scelta di Riad comporta comunque una frattura interna al mondo islamico ma anche al mondo arabo. Col rilancio della sfida agli sciiti si accresce la polarizzazione di un Medio Oriente i cui equilibri sono in evidente fase di rotazione.

(Foto: ISNA)

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