Libano, 27 maggio 2011, ore 15.55...

(di Maria Grazia Labellarte)
23/03/17

È il 27 maggio 2011. Tra due giorni i caschi blu della missione UNIFIL in Libano ricorderanno i loro caduti, fra questi anche i soldati italiani dell’operazione Leonte. Alle ore 15.55, un ordigno esplode sul ciglio della superstrada che collega la capitale libanese con l’antica città fenicia di Sidone. Le agenzie stampa battono la notizia: un soldato italiano è morto. Poco dopo, il portavoce dello Stato Maggiore della Difesa dichiara “Nessun ferito rischia la vita”; Antonio Bettelli è lì, con l’incarico di addetto per la difesa presso l’ambasciata italiana, e sa che adesso, a distanza di quattordici anni dagli ultimi caduti del nostro contingente in Libano, un altro soldato italiano potrebbe lottare tra la vita e la morte, e il giovane Giovanni Memoli, la cui vicenda si intreccerà drammaticamente con le vicende della Terra dei Cedri.

L’autore è un ufficiale dell’Esercito Italiano, più volte impegnato nelle operazioni di supporto alla pace in vari ambiti internazionali. Tra questi, vi sono l’Iraq del post Saddam,nella provincia meridionale del Dhi Qar, l’esordio dell’operazione Enduring Freedom in Afghanistan, monitorata dal comando operativo di Tampa in Florida, e nel Libano,dove ha lavorato come Addetto per la Difesa presso l’Ambasciata Italiana a Beirut e come comandante del Sector West della missione UNIFIL nel sud del Paese.

Generale Bettelli, perché scrivere un romanzo dal titolo Leonte?

Il Libano è un paese controverso, affascinante, inintelligibile. Leonte cerca di descriverlo. Leonte è però anche il nome dell'operazione delle Forze Armate italiane in seno alla pluridecennale missione UNIFIL nel sud del Paese dei Cedri; perché Leonte è l'appellativo occidentale di uno dei due fiumi più importanti di quella terra - il Litani - che è il limite settentrionale dell'area di operazioni del contingente multinazionale delle Nazioni Unite, nonché l'appellativo dell'azione militare israeliana che nel '78 diede origine, per accordo internazionale, alla stessa missione UNIFIL. Un concatenarsi di situazioni e di eventi, dunque, che da circa quarant'anni tesse lentamente, talora con accelerazioni rapide e cruente, le vicende del martoriato sud libanese e descrive alcune delle pagine più importanti della storia contemporanea delle nostre Forze Armate. Queste furono precorritrici, con le bianche livree dei tre elicotteri dell'Esercito che atterrarono nel marzo del 1979 sulle scogliere di Naqoura, della missione delle Nazioni Unite. 

Leonte è il Libano, dunque, ma è anche la circostanza nella quale improvvisamente, il 27 maggio 2011, l'allora caporal maggiore Giovanni Memoli andò incontro all'esperienza che gli ha cambiato definitivamente la vita: un'esplosione proditoriamente provocata da mani ignote, viatico iniziale di una passione ancora ininterrotta. In quel frangente, reso disperato dal bisogno di assistenza che la stessa famiglia di Giovanni portò con urgenza al figlio agonizzante, io mi trovavo a Beirut come Addetto per la Difesa presso la nostra Ambasciata. Da quella circostanza, che si svelò inaspettatamente in un nitido pomeriggio di quasi estate nella capitale libanese, avvertii che la passione di Giovanni e della sua famiglia diventava, nell'esercizio del mio dovere, anche la mia passione. Leonte è quindi la mia storia insieme alla storia di Giovanni, ma è anche un tributo al sacrificio dei tanti colleghi che per il servizio hanno perduto la vita o sono stati gravemente feriti. Quei sacrifici ripropongono oggi all'attenzione delle opinioni pubblica e politica nazionali l'immagine dell'onore militare, rivelato non solo dalle commemorazioni istituzionali in ricordo dei caduti, ma anche dalle decorazioni indossate con ferma dignità dai soldati feriti.

Nel romanzo il protagonista, il colonello Qa’ id, vive vertiginosamente emozioni che irreversibilmente lo colpiranno profondamente e “nel viatico che vive assieme alla famiglia del giovane Giovanni vittima dell’ attentato, trova a man mano le ragioni del vivere”. Crede che un militare impegnato nelle missioni di pace, un contesto non sempre facile e impegnativo sia fisicamente che spiritualmente, acquisisca una maggiore consapevolezza delle ragioni del vivere in genere e della bellezza della vita in un paese come il nostro che conosce la pace?

Compiere il proprio servizio in ambiti sociali fortemente provati da instabilità, come accade nei paesi che sono oggi teatro operativo per i nostri contingenti militari, offre la possibilità di osservare i comuni fenomeni del vivere con una lente d'ingrandimento molto particolare. Le contingenze della missione pongono i nostri soldati all'interno di un microcosmo connotato da condizionamenti che sollecitano ripetutamente il loro animo. Non è facile, per esempio, rimanere indifferenti al bisogno di chi abbia, fino a pochi attimi prima, subito la violenza della guerra o che ancora soffra acutamente per le privazioni della povertà estrema. Da quelle esposizioni, cui il servizio obbliga, se ne diventa in un certo senso corrotti. I giorni di missione, che si ripetono ininterrotti nella routine del servizio, sono ricchi di stimoli forti e anomali, in grado di scardinare le certezze acquisite e di indurre profonde riflessioni sul senso della missione, sulle relazioni con i propri affetti, sul valore tanto della disciplina quanto dell'amicizia. Ragioni, appunto, del vivere.

A mio parere attualmente nel nostro contesto sociale assistiamo al dominio del “Relativismo” negli ideali, negli affetti, nelle scelte di vita, come pure nel quotidiano. Valori come la speranza, la fede e carità cristiana, possono secondo lei ancor oggi avere la stessa forza di un tempo? 

La nostra società ha assistito all'indebolimento del sistema di valori al quale si era adattato il percorso culturale, politico e sociale degli ultimi decenni. Oggi, sembra che ci si stia muovendo all'interno di uno spazio deprivato di confini da rispettare e che l'attenuarsi del perimetro comportamentale sia la causa principale dell'inquietudine sociale. I mutamenti stimolano le dinamiche che animano costantemente la società, affinché quest'ultima provveda, in virtù appunto al suo dinamismo, alla ridefinizione di se stessa, ma se i cambiamenti sfuggono al controllo, è indubbio che il timore del disordine possa prevalere. 

Per noi militari, educati alla disciplina del servizio, il perimetro è molto chiaro. A quei limiti, evocativi dell'impegno di chi ci ha preceduto nel servizio, siamo educati sin dai primi passi negli istituti di formazione. Nei momenti di difficoltà quei limiti diventano i nostri riferimenti.

Sollecitato dalla vicenda di Giovanni Memoli - che ho condiviso con la famiglia del nostro graduato nei giorni immediatamente successivi all'attentato - ho riflettuto molto sul valore cristiano dell'accettazione, ancor più vivendo in una terra che è un autentico caleidoscopio confessionale e che è punteggiata dalla toponomastica dei luoghi descritti nel Vecchio Testamento e nel Vangelo. Mi sono così personalmente ritrovato nel messaggio religioso al quale sono stato educato, al pari, se non più, dei molti messaggi trasmessi dalla formazione militare: subordinazione, disciplina, servizio. 

Le circostanze dell'attentato costringono ancora oggi Giovanni a un cammino intenso, talora duro, di accettazione. Nelle necessità dell'inatteso percorso neo-natale, la sua famiglia - mamma Maddalena e papà Nicola, con la cara sorella Marianna - gli è stata sempre accanto. Giovanni non meritava la prova di una nuova vita, è evidente. Dall'ineludibile viatico di accettazione provocato dall'attentato, spero che egli possa, tuttavia, rafforzare il senso dell'appartenenza alla sua famiglia e alla comunità militare. Oggi, Giovanni Memoli è primo maresciallo del ruolo d'onore. Per tutti noi è un fondamentale e irrinunciabile riferimento.

 

Maresciallo Memoli, quel 27 maggio del 2011 (data dell’ attentato, protagonista celato del romanzo Leonte ) lei è il “peacekeeper italiano che tra i sei ha subito più gravemente gli effetti dell’ordigno fatto esplodere sul ciglio di quella superstrada tra Beirut e la parte sud, oggi la sua vita è enormemente cambiata a causa di quel fatidico giorno. Potrei chiederle quale messaggio trasmetterebbe a quei giovani che oggi fanno tanta fatica a trovare un senso nel loro quotidiano da taluni considerato persino ordinario e noioso?

Di vivere la propria vita, come meglio possono, di trovare la gioia in ogni singolo momento trascorso e vissuto, e di non arrendersi mai davanti a niente, proprio come ME e tanti altri a cui è stato tolto ingiustamente qualcosa, ma che cerchiamo di riprendercela, vivendo come meglio possiamo.

Attualmente è croce d’onore alle vittime di atti di terrorismo e anche medaglia d’oro al valor militare, che significato hanno per lei questi riconoscimenti?

Queste medaglie hanno certamente un altissimo valore simbolico, costruito sul sacrificio e sul dolore di servitori dello Stato, spesso sconosciuti al grande pubblico, e non posso che essere onorato di fregiarmene.

Certo se avessi avuto facoltà di scegliere, avrei chiesto di poter conservare la mia vita di prima, con la possibilità di tornare ad avere altre esperienze in Teatri Operativi, fianco a fianco con i miei commilitoni. Si, confesso che, se ho un rimpianto, è proprio quello di non poter andare in missione con il mio reparto, con i miei comandanti e con i miei colleghi.

(foto: web)