Iraq: la chiave di volta per non ricadere nei tragici errori del passato

(di Denise Serangelo)
21/10/15

Più o meno alle 5 di mattina (ora locale irachena) del 20 marzo 2003 iniziava l'operazione Iraqi Freedom. Il paese fu invaso da una “coalizione di volenterosi”, come la definì l’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, formata per la maggior parte da Stati Uniti, Regno Unito e altri contingenti minori. Le bandiere nere che oggi troneggiano fiere in alcune delle principali città irachene, ci suggeriscono che qualcosa è andato storto.

Il dialogo tra mondo politico e militare non è mai stato così disastroso come nell'operazione in Iraq. Una mescolanza di gravi errori strategici e di importanti aspetti sottovalutati hanno portato alla condizione attuale. Lo scorso 26 settembre persino il presidente Obama in uno slancio di autocritica ha definito l'invasione dell'Iraq "un grosso errore". I più feroci antagonisti della politica estera a stelle e strisce non si tenevano dalla gioia e nonostante questo entusiasmo prematuro la vera domanda rimane insoluta: Gli Stati Uniti d'America quale lezione pensano di aver appreso dall'Iraq?

Considerate le recenti vicende mediorientali non sembra che a Washington si stia coltivando questa grande lungimiranza in termini di politica estera. L'ammissione dell'errore è un fatto lodevole e del tutto apprezzabile ma a cui dovrebbe seguire un cambio di rotta sostanziale.

Nel tentativo di dissipare l'oscurantismo dietro il fallimento iracheno abbiamo parlato con il prof. Stefano Ruzza - docente di "Conflict, Security and State Building" presso l'università degli studi di Torino.

Professor Ruzza, potrebbe spiegarci lo scopo della missione in Iraq e come è stata condotta la conseguente campagna militare?

A grandi linee, si può dividere l'intervento in due fasi. La prima, della durata di poco più di due mesi (19 marzo - 1 maggio 2003), era volta all'abbattimento del regime di Saddam Hussein, sperando che questo consentisse a non meglio definite forze democratiche locali di fiorire e di trasformare il paese. La seconda - che segue immediatamente la prima, è assai più lunga e giunge fino al ritiro del 2012 - ha fatto i conti con l'illusione che stava dietro alla prima e cioè col fatto che la democrazia non sarebbe sorta spontaneamente.

La seconda fase ha inoltre dovuto cercare di mantenere l'ordine in un paese fallito anche a causa dell'intervento militare. Contrastare gruppi estremisti indigeni o allogeni (come al-Qaeda) che trovavano nel caos iracheno un contesto di operazioni e di affermazione ideale, e garantire una cornice di sicurezza che consentisse elezioni presentabili.

L'Iraq si presenta subito agli analisti come una grande polveriera. Le diverse realtà presenti nella regione, le lotte per il potere e gli enormi interessi economici hanno aggravato la già tesa situazione post caduta del regime. L'approccio occidentale sarebbe dovuto essere multidisciplinare e soprattutto proiettato verso il futuro. Sono tantissimi gli aspetti che sono stati lasciati al caso, come se la democrazia fosse un processo che si può imporre e basta. Sfortunatamente l'avvicinamento alla democrazia ha delle propedeuticità che non si possono ignorare, in primis la volontà politica al dialogo con tutte le fazioni presenti sulla scena del paese interessato. Attualmente l'errore si sta ripetendo in altri scenari mediorientali dove il desiderio si fare qualcosa tanto per fare potrebbe presentarci il conto molto presto. Dopo l'uscita di scena del contingente americano l'Iraq è scivolato nel caos più buio.

Secondo Lei potremmo imputare questo fenomeno ad una exit strategy debole o le cause sono anche altre?

Non credo che l'exit strategy sia l'unica causa, penso che ciò al massimo abbia aggravato i problemi, che però erano già ben vivi e presenti nel paese, tutt'altro che pacifico e ordinato prima del 2012. A mio giudizio le criticità maggiori sono a monte. La violenza settaria al di sopra una certa soglia in Iraq non è una novità post-2012, ma piuttosto post invasione. Il problema avrebbe potuto essere forse contenuto dopo l'abbattimento del regime, con una politica di rinnovamento politico meno estrema, che non facesse squagliare le strutture dello stato assieme a quelle del regime e che non permettesse a una logica democratica distorta e parziale di consentire una sostanziale dittatura della maggioranza.

Un momento chiave che racchiude un'opportunità mancata è l’Anbar Awakening del 2006, ovvero il rigetto e l'espulsione da parte delle popolazioni sunnite collocate in Iraq occidentale dei qaedisti. Tale momento è stato indicativo della volontà dei sunniti di non essere soggiogati all'islamismo estremista e della loro fiducia in un possibile stato iracheno che lasciasse loro il giusto spazio. Invece, la politica del primo ministro Nouri al-Maliki ha marginalizzato i sunniti al punto tale da non lasciare ad alcuni di loro altra alternativa che ricadere nelle braccia degli estremisti, in questo caso l'ISIS. L'impostazione del governo che dovrà nascere dopo un lungo periodo di tensione e repressione politica è un problema che richiede competenze e volontà di cooperare.

Quello che ha dipinto il professor Ruzza ha tutte le sembianze di una bozza della Siria attuale. A prescindere da quelle che siano le posizioni a favore o no dell'intervento russo è importante ricordare che le politiche di esclusione di un gruppo a danno di un altro non hanno mai portato a nulla. La politica, che ci piaccia o no, è un compromesso continuo frutto della lungimiranza di un leader al potere. Dalla polveriera iracheno le lezioni che si apprendono non sono solo militari. La conduzione delle operazioni militari in Iraq è stata duramente criticata dai democratici e da quei sostenitori di una pace autoprodotta.

Quali, secondo lei, gli errori emersi dal teatro iracheno per quanto riguarda la conduzione militare delle operazioni e come possiamo applicarli ai moderni scenari - Libia e Siria - evitando di ricaderci?

Il problema non è militare, ma politico, anzi: di collegamento tra dimensione politica e obiettivi militari. Da un punto di vista tecnico la campagna di invasione in Iraq è stata pressoché impeccabile, ottenendo una rapida e quasi indolore (almeno dal punto di vista degli attaccanti) neutralizzazione della macchina militare irachena, nonché l'abbattimento del regime. I problemi sono sorti perché il raggiungimento di questo obiettivo era scollegato da una strategia politica di lungo periodo, sul tipo di transizione politica che si intendeva ottenere e sul come ottenerla. La de-baathificazione lampo non ha fatto altro che far collassare la struttura dello stato e incrementare le ragioni di attrito tra i diversi gruppi etnici, lasciando i militari impantanati in attività difficili, confuse e dall'esito incerto come controinsorgenza e statebuilding. Ci sono stati altri passi falsi, ma riguardano questioni che sono prettamente non militari (l'esempio principe sono le elezioni del 2010). Ci sarebbe anche da porsi alcune domande fondamentali sulla dottrina della controinsorgenza, e su quanto un tale tipo di attività possa ottenere risultati e con quali tempi.

Cambiando scenario, le competenze e le capacità militari per eliminare o ridimensionare qualunque fazione armata in Libia, Siria o Iraq di certo non mancano all'Occidente. Tralasciando i problemi (pur centrali) di competizione politica tra vari stati, a livello regionale e globale, che inibiscono operazioni troppo muscolari da parte della NATO o di coalizioni ad-hoc a guida occidentale, o la scarsità di capitale politico ad oggi a disposizione per giustificare nuovi interventi dopo i fallimenti degli anni passati, il nocciolo della questione è che l'azione militare deve essere posta in funzione a scopi che vanno oltre la sola neutralizzazione dell'avversario.

In sintesi, non si deve chiedere allo strumento militare quello che lo strumento militare non può produrre. In Libia e Siria bisogna prima di tutto definire con chiarezza ciò che intendiamo ottenere, e solo in secondo luogo capire se e come lo strumento militare può essere di aiuto. Lo stesso intervento in Libia del 2011, del resto, è di per se stesso un ottimo esempio di come la forza militare esterna possa facilmente demolire le strutture di potere e governo esistenti ma non così facilmente rimpiazzarle o ricostruirle. Sono in molti a sostenere che l'impegno in Iraq sia stato del tutto vano e che anzi abbia peggiorato in modo irrimediabile le sorti del paese.

Quali sono secondo Lei dei passi importanti da compiere in Iraq per risollevare il paese dal caos?

Se accettiamo che la guerra sia la continuazione della politica con altri mezzi, allora ancor prima di porci il problema militare e di sicurezza - che pure esiste - dobbiamo interrogarci sulla condizione politica che ne è alla base. In somma sintesi, la situazione irachena è stata lungamente inficiata da un governo "democratico" debole, contestato e troppo pendente in favore della componente sciita della popolazione. Questo ha lasciato una minoranza importante del paese - quella sunnita, che prima dell'invasione del 2003 reggeva anche le redini del governo nazionale - sostanzialmente marginalizzata e dunque preda di movimenti estremisti. Finché non si propone un'alternativa politica viabile ai sunniti che consenta loro di avere i giusti spazio e riconoscimento politico, allora non c'è soluzione che possa tenere. In questo si spera che la politica di al-Abadi sia più lungimirante di quella del suo predecessore e che il resto del mondo si muova con accortezza per appoggiare politiche volte all'apertura e riconciliazione settaria, oltre che a contenere militarmente l'ISIS. Concentrarsi sul secondo punto senza tenere a mente il primo rischia di produrre soltanto risultati di breve durata: del resto anche AQI fu sostanzialmente smantellata, ma è proprio dalle sue ceneri che è nato l'ISIS.

Quanto abbiamo descritto con il professor Ruzza è un Paese, l'Iraq, che potrebbe essere la chiave di volta per non ricadere nei tragici errori del passato. Tuttavia, l'incapacità di prendere decisioni non popolari sta portando un nuovo "fenomeno Iraq" in tutto il medioriente. Sono poche è semplici le regole che bisogna seguire per guidare un nuovo Stato verso la democratizzazione della sua politica, la prima sarebbe quella di evitare che la nostra politica interferisca con la loro.

Gli americani sono dipinti come maestri nell'interferire con la politica interna di altri Stati ma bisogna ricordare che tutte le guerre devono avere un ritorno. Per ogni bomba sganciata e per ogni obbiettivo annientato in cambio qualcuno vorrà qualcosa. Sempre.

(foto apertura: US DoD)