Il Medio Oriente visto da dentro: intervista al prof. Uzi Rabi

(di Gino Lanzara)
09/05/22

Quando si hanno fortuna e possibilità di intervistare un esperto di Medio Oriente come il prof. Uzi Rabi sarebbe imperdonabile mancare all’appuntamento.

Arguto, vivace, profondo conoscitore di un’area che si estende dal Mediterraneo all’Iran, il professore dà vita concreta ai concetti che esprime, li anima, li rende soggetti vivi e palpitanti di una realtà che sovrasta per complessità, struttura e soprattutto rapidità, osservatori lenti e policy makers analogici; studioso di storia moderna, di stati, politica e società mediorientali, di relazioni arabo iraniane, di dinamiche sunnite-sciite.

Il prof. Rabi, grazie anche alle sue stesse ascendenze irano irachene, riunisce tutti gli aspetti utili a cogliere i più piccoli particolari, i più infinitesimi cenni di situazioni altrimenti indecifrabili.

Cercheremo di dare un quadro completo, agile, avvincente, con la premessa/promessa di seguire lo stesso filo logico oggettivo e realista con cui il prof Rabi ha delineato il panorama di una delle regioni più interessanti e complesse del pianeta, tratteggiando i caratteri salienti dei players più rilevanti.

L’inizio è obbligato: gli Accordi di Abramo.

Evento fondamentale della storia contemporanea medio orientale, politicamente drammatico per alcuni, ha visto per la prima volta Paesi del Golfo giungere ad un entente con Israele ma senza tuttavia porre condizioni, in particolare quella relativa alla querelle israelo palestinese. L’aspetto politico significativo risiede proprio nel fatto che è la prima volta che Paesi musulmani pongono realisticamente i loro interessi davanti alla solidarietà intra araba o intra islamica, compenetrandosi nelle dinamiche di un secolo, il XXI, che riserva agende politiche difficili e rese ancora più complesse dalla pandemia, e senza dimenticare le questioni ambientali che portano a considerare proprio in quell’area penuria d’acqua e comuni problemi climatici.

Come ha detto il professor Rabi, cominciare ad intrattenere relazioni con Israele, Stato con una dialettica politica viva, è equivalso a varcare il Rubicone, a compiere un passo storico. Gli accordi di Abramo, nel costituire un riallineamento nei rapporti tra Israele e Stati arabi comportano, per gli USA, un ruolo diverso da quello finora rivestito.

Partendo dal presupposto che le ultime 3 amministrazioni americane1, pur così diverse tra loro, hanno trovato un comune denominatore nel porre come condizione l’America first, gli accordi di Abramo hanno trovato da parte di Washington una razionalizzazione nell’essere stati percepiti come strumento di conciliazione tra arabi e israeliani, utile a porre le basi funzionali al ritiro delle proprie forze dal Medio Oriente; il tutto nella prospettiva di evitare di ripetere gli errori commessi in Iraq e Afghanistan, dei quali sono ancora vive le immagini del precipitoso ritiro delle truppe evacuate dagli USA.

Quest’impostazione costituisce di fatto un messaggio per molti Paesi che, nella regione, non possono non nutrire preoccupazioni sulle evoluzioni geopolitiche. Stati come il Bahrain, l’Arabia Saudita, gli EAU, lo stesso Israele, hanno considerato il XXI secolo quale base temporale naturale per il permanere del dominio occidentale, o quanto meno come pilastro della leadership statunitense dopo la caduta dell’URSS. Gli eventi susseguitisi, tuttavia, hanno condotto a momenti di grande rivolgimento come questo attuale: mentre gli USA mostrano una politica esitante, Russia e Cina stanno riempiendo i vuoti regionali che si sono venuti a creare.

In quest’ottica, gli Accordi di Abramo costituiscono una chiave di volta politica per Israele, marcando peraltro delle linee rosse che indichino con sicurezza chi possa essere considerato come un antagonista: l’Iran, diventa per certo un nemico, così come lo diventano gli appartenenti alla Fratellanza Musulmana, cui non possono essere considerati estranei i gruppi che operano a Gaza.

Tenuto conto che gli affiliati alla Fratellanza provengono principalmente da Arabia Saudita, Bahrein e EAU che li considerano gruppo terroristico fuori legge, per una logica dell’esclusione questi stessi Paesi hanno concluso che Israele non può essere il nemico; è ovvio che nessuno dei Paesi arabi aderenti agli accordi possa essere considerato sionista, anche perché esistono ancora punti da definire e su cui trovare accordi condivisi, tuttavia esiste un denominatore concreto che non solo ha contribuito ad identificare nemici comuni, ma anche a trovare forme fattive di collaborazione, come per quanto concerne le energie rinnovabili, un elemento che non va trascurato dato che si riconduce a rentier states petroliferi.

Si può dire che esista la coscienza che, nonostante il prezzo del petrolio sia notevolmente levitato, non si possono non considerare i prossimi cambiamenti energetici, tutte alternative diversificanti che la vicinanza tecnologica con Israele permetterà di valorizzare. L’importanza geopolitica e geoeconomica è evidente, dato che la scacchiera delle relazioni internazionali, tra XX e XXI secolo, è mutata rendendo il Medio Oriente irriconoscibile.

Dal 1979 il regime degli Ayatollah ha reso l’Iran di fatto un problema che vede il connubio di marca prettamente sciita tra religione e fini concreti di carattere geopolitico. Ambizione e volontà di potenza iraniane nella regione intimoriscono i paesi arabi; non è solo una lotta geopolitica, ma dato che la maggior parte dei persiani sono sciiti e gli arabi sunniti, è anche un confronto religioso. Il regime iraniano ha al suo vertice autorità religiose che dispongono dei pasdaran, le guardie della rivoluzione, che molti Paesi riconoscono quali membri di un gruppo terroristico.

Sullo sfondo dell’evoluzione delle relazioni internazionali, e per quanto concerne il JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action, intesa sul nucleare iraniano, ndr), mentre gli USA tornerebbero volentieri agli accordi del 2015, gli iraniani percepiscono la debolezza americana, ma rimangono in uno stato di profonda incertezza per ciò che concerne lo scenario ucraino.

Quel che è certo, secondo una visione probabilmente condivisa a largo spettro, è che crisi energetiche e alimentari sono alle porte, con tutto ciò che questo socialmente determina.

Teheran, quale condizione per la chiusura della negoziazione del JCPOA, sta premendo perché i suoi Pasdaran siano cancellati dall’elenco delle organizzazioni terroristiche, richiesta questa che ha accomunato nella sua inaccettabilità sia repubblicani che molti democratici americani; la posizione espressa dagli USA non dovrebbe oltremodo stupire: la classificazione quale gruppo terroristico discende dal fatto che i Pasdaran, potenti perché espressione diretta dello Stato, agiscono su scala planetaria. Al Qaida, Settembre Nero, Isis, pur nella loro pericolosità non hanno a supporto un apparato istituzionale come quello attestato dalla simbiosi tra Ayatollah e Guardie della Rivoluzione, una liaison ultimamente esaltata dalle affermazioni dell’Ayatollah Khamenei durante la festa di al Quds quando ha qualificato Israele in termini diplomaticamente e geopoliticamente inaccettabili, definendolo uno stato illegittimo destinato ad essere spazzato via, come fosse una sorta di formazione cancerosa.

In questo momento l’Iran può sentirsi soddisfatto per essere stato solo lambito dalle invasioni americane di Iraq e Afghanistan; di più, può percepirsi necessario se non quasi indispensabile in funzione del regime sanzionatorio applicato alle esportazioni di gas e petrolio russi. L’ipotesi di un blocco effettivo dell’export energetico russo, non può escludere l’intento americano di un ricorso al gas iraniano per l’Europa2.

La generazione del prof. Rabi si è formata in un Paese che ha dovuto pensare in termini diadici di noi e loro; ora Israele ha le capacità, non solo geopolitiche, di negoziare e discutere con chiunque di economia di energie rinnovabili, di risorse strategiche come l’acqua. Ma nel frattempo gli iraniani si stanno avvicinando, sempre più velocemente, a disporre dell’arma nucleare. Il quadro generale vede quindi un Iran prossimo a divenire potenza atomica, con Israele in grado di rispondere alla minaccia, aspetto questo pungente e noto anche agli Ayatollah. Ed è fin d’ora che gli arabi cominciano a nutrire un concreto timore dovuto non tanto al fatto che l’Iran possa adoperare l’arma nucleare direttamente contro di loro, quanto piuttosto perché la potenza così acquisita permetterà a Teheran di metterli sotto perenne scacco.

Si tratta di un esercizio di potenza di fatto già iniziato, basti vedere Iraq, Yemen, Libano, tutti Paesi annichiliti anche (se non soprattutto) a causa delle interferenze iraniane. Insomma, in un’area in cui i Paesi si fondano su sovranità di fatto spesso limitate, la penetrazione iraniana non potrà che portare ad ulteriori problemi in zone sempre più estese, dove Libano e Siria rimangono un minaccioso corridoio iraniano che si apre al Mediterraneo e ad Israele.

Il quadro così delineato spiega perché paesi arabi come Egitto, Giordania e Marocco con le monarchie del Golfo abbiano iniziato ad intrattenere normali relazioni con Israele. Non c’è dubbio che se l’Iran intende condurre delle proxy war contro Israele grazie a Libano o Siria, Gerusalemme non rimarrà a guardare, poiché in grado di agire disponendo di informazioni e collegamenti in tutta la regione. A prescindere dal colore del governo in carica, Israele rimane dunque l’unica opzione politica, l’unico Paese con cui i leader dei paesi arabi possono effettivamente interloquire.

Ampliando ulteriormente il raggio verso ovest si tocca la Turchia di Erdogan, uno dei player più controversi della regione, interprete di una politica ondivaga che, negli anni, lo ha condotto da posizioni fortemente critiche al limite dell’antisemitismo a rivedere in chiave realistica la negatività della posizione sempre più isolata di Ankara.

Del reis si sa come è stato formato, e si crede di sapere cosa abbia in mente; presidente di un Paese in bancarotta Erdogan ha impugnato la bandiera della Fratellanza Musulmana perché in cerca di egemonia e legittimazione regionali. Erdogan è un animale politico, un attore che ha quotidianamente davanti agli occhi le pagine del Principe di Machiavelli: cambia posizione, imprime accelerazioni repentine che caratterizzano i suoi mutamenti di rotta. Non più di due anni fa appellava come traditori i Paesi che avevano sottoscritto gli accordi di Abramo con Israele, ora vi si reca in visita e lui stesso si pone come interlocutore con Gerusalemme inaugurando un rinnovato impegno politico e diplomatico.

Interessante in questo quadrante la politica di Israele, che ha implementato le relazioni con Grecia ed Egitto in un’ottica che non privilegia solo la creazione di rapporti economici legati allo sfruttamento del gas, ma che permette di plasmare una sorta di homo mediterraneus caratterizzato cioè da un sentire comune.

Ma il Medio Oriente non finisce qui, rimane ancora la Giordania, altro case study di estremo interesse che impone di tenere presenti numerosi aspetti. La monarchia giordana gioca una volta di più un ruolo fondamentale nell’impedire la diffusione delle idee radicali provenienti da Iraq e Iran.

Il binomio costituito da Israele e dalla monarchia hashemita rappresenta un unicum essenziale per la Giordania in perdurante e grave situazione economica aggravata dalla presenza di quasi 2 milioni di rifugiati provenienti da Iraq e Siria; la Corona giordana è povera, non certo ricca come quella saudita, e necessita del costante sostegno esterno; in più va ricordato che gran parte della popolazione giordana è di origine palestinese (la stessa regina Rania appartiene ad una famiglia di Tulkarem). La crisi sociale giordana è resa ancora più grave dalla presenza dei Fratelli Musulmani e dai palestinesi nuovamente in rotta di collisione con le élite giordane presenti sul suolo nazionale prima ancora dell’arrivo palestinese nel 1948.

La Casa reale Hashemita deve preservare il rapporto con Israele per desalinizzare l’acqua e per ottenere risultati tangibili dalle energie rinnovabili; ma è anche la Casa discendente dal profeta Maometto, ragion per cui deve mantenere saldo il legame con i luoghi islamici sacri di Gerusalemme, che al momento è il punto geopolitico dove si esercita la pressione principale a partire dalla Moschea di Al Aqsa. Non da Gaza né dal confine con il Libano, ma da Gerusalemme può ripartire il rogo capace di incendiare una volta di più il Medio Oriente: in Israele ci sono gruppi di palestinesi in contatto con i Fratelli Musulmani a nord e con Hamas a Gaza.

Come nel caso turco, i giordani non sono certo sionisti, ma la preservazione dei buoni rapporti con Israele rimane fondamentale proprio in relazione alla custodia ed alla protezione dei luoghi sacri gerosolimitani; il timore neanche troppo velato è che la casa Al Saud, sfruttando le relazioni migliorate che intrattiene con Israele, possa sostituirsi agli Hashemiti diventando così la protettrice di tutti i luoghi più sacri, dunque Gerusalemme inclusa, a partire da Medina e dalla Mecca.

Il beneficio di un mutuo supporto israelo giordano dovrebbe indurre a non considerare troppo rigidamente le situazioni secondo l’ottica realista che induce a porre sotto una luce favorevole la collaborazione securitaria tra Abu Mazen e Israele, e più in generale tra Ramallah, Amman e Gerusalemme al fine di prevenire l’ennesimo precipitare degli eventi evitando che Hamas prenda il controllo della West Bank perpetuando il rischio di ripetere la stessa drammatica esperienza vissuta con lo stato islamico, responsabile della morte di centinaia di migliaia di musulmani.

Non c’è dubbio che Israele sia ormai un interlocutore da dover considerare, a patto che il rispetto tra soggetti politici sia reciproco. Più in generale potremmo dire che tutto il Medio Oriente sia ormai in uno stato di evoluzione tale da dover essere costantemente aggiornato sulle mappe regionali anche e soprattutto in funzione delle variazioni degli equilibri di potenza modificati dal cambiamento di politica statunitense e dalla conseguente creazione di spazi politici da dover necessariamente riempire.

Il professor Uzi Rabi, Ph.D (Tel Aviv University, 2000) è il direttore del Moshe Dayan Center for Middle Eastern and African Studies e ricercatore senior al Center for Iranian Studies, entrambi presso l'Università di Tel Aviv. In precedenza, è stato capo del Dipartimento di Storia del Medio Oriente e dell'Africa all'Università di Tel Aviv. Dal 2004 al 2005 ha ricoperto una cattedra in visita presso il Lipinski Institute della San Diego State University. È regolarmente invitato alla Knesset e ad altri forum governativi per tenere briefing e conferenze su questioni di importanza nazionale e regionale.

1 Obama, Trump, Biden

2 La National Iranian Oil Company è la terza al mondo per produzione totale di petrolio e gas, dopo Aramco (Arabia Saudita) e Gazprom (Russia).

Foto: Difesa Online