Strategia, vendetta e diplomazia nascosta: la guerra, nonostante tutto, è ancora un'arte

(di Claudio Verzola)
15/04/24

"L'attacco israeliano non rimarrà senza risposta. La vendetta dell'Iran è inevitabile e Teheran deciderà come e quando effettuare l'operazione di rappresaglia", dichiarò il capo di stato maggiore delle Forze Armate iraniane Mohammad Bagheri, all’IRNA (Agenzia di stampa della Repubblica Islamica), all’indomani dell’azione israeliana a Damasco, il 1° aprile.

E la vendetta è arrivata, puntuale e attesa. Le difese israeliane, supportate da USA, UK e Giordania, hanno fatto il loro lavoro impedendo ai droni e ai missili iraniani di raggiungere gli obiettivi prefissati. Mentre a Teheran, una folla festante scendeva in piazza sventolando bandiere iraniane e palestinesi dopo che le Guardie Rivoluzionarie iraniane avevano confermato che era stato lanciato un attacco contro Israele come rappresaglia per il raid del primo aprile sul suo consolato a Damasco.

Questo è quanto si è appreso dalle agenzie riguardo alla vicenda israelo-iraniana, sembra una sequenza di eventi con una sua logica: due stati, Israele e Iran, nemici tra loro, si contendono l’influenza dell’area, coinvolgendo nello scontro i vicini ma non solo.

Però, leggendo bene tra le righe della vicenda del primo aprile, il raid sul consolato iraniano a Damasco, emergono particolari che confermerebbero la presenza di un altro attore, gli USA, che a mio avviso potrebbero aver svolto un ruolo di mediazione davvero importante nella vicenda.

Ricorderete che a pochissime ore di distanza dall’attacco israeliano, gli USA dichiararono: "Noi non eravamo stati informati dell’attacco". Un messaggio chiaro, ma rivolto a chi? Non certo agli alleati nell’area, ma molto più probabilmente ai paesi antagonisti o potenzialmente tali di Israele, verso i quali gli USA cercano da tempo un'interlocuzione volta a favorire una certa stabilità nell’area.

Gli Accordi di Abramo ne sono la prova, così come le numerose prese di posizione volte a ottenere il cessate il fuoco nelle aree occupate dall’esercito israeliano.

Ma se tra i destinatari del messaggio non ci fossero stati solo i paesi arabi ma anche alcuni livelli della diplomazia iraniana?

Su questa tesi, ho riflettuto in questi giorni; non sarebbe infatti la prima volta nella storia che trattative diplomatiche di alto livello avvengono attraverso i cosiddetti backchannels.

Cosa sono i "backchannels"?

Il termine "backchannels", quando applicato al contesto della diplomazia internazionale e delle comunicazioni, si riferisce a canali di comunicazione informali e non ufficiali che sono utilizzati per condurre trattative e scambi di informazioni al di fuori dei canali diplomatici ufficiali. Questi canali riservati sono spesso impiegati per esplorare possibilità di compromesso, risolvere conflitti o gestire relazioni delicate tra stati, in maniera discreta e senza l'attenzione del pubblico o dei media.

I backchannels sono particolarmente utili in situazioni delicate dove le negoziazioni ufficiali potrebbero essere impraticabili o controproducenti. Essi permettono di esplorare terreni comuni al fine di identificare possibili aree di accordo o compromesso senza la pressione delle formalità diplomatiche.

Prevenire i conflitti ed offrire un modo per de-escalare situazioni tese o risolvere crisi in modo controllato e riservato. Riparare relazioni e aiutare nel ripristinare o costruire relazioni diplomatiche che potrebbero essere state danneggiate o interrotte.

Nella storia, esempi famosi di utilizzo di questo genere di diplomazia sono stati:

  • La crisi dei missili di Cuba (1962): durante la Crisi dei missili di Cuba, backchannels tra il consigliere per la sicurezza nazionale degli USA, Robert Kennedy, e l'ambasciatore sovietico Anatoly Dobrynin furono cruciali per negoziare la rimozione dei missili sovietici da Cuba e degli americani dalla Turchia, evitando un potenziale disastro nucleare.
  • La normalizzazione delle relazioni USA-Cina (1970): i backchannels tra Henry Kissinger e i suoi omologhi cinesi furono essenziali per preparare la storica visita di Richard Nixon in Cina, che segnò l'inizio della normalizzazione delle relazioni tra i due paesi dopo decenni di isolamento.

Nella storia delle relazioni USA-Iran troviamo traccia di numerosi eventi risolti attraverso i backchannels, che testimoniano la capacità dei due stati di mantenere aperto un dialogo anche in situazioni in cui formalmente ogni interlocuzione appare impossibile.

Ad esempio, il Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), noto come l'accordo sul nucleare iraniano del 2015, è forse l'esempio più significativo del successo ottenuto grazie ai backchannels. Prima che le negoziazioni diventassero pubbliche e coinvolgessero altre potenze mondiali, USA e Iran utilizzarono questi canali non ufficiali per esplorare la possibilità di un accordo.

O le pre-negoziazioni avvenute mediante interlocuzioni backchannel attraverso intermediari come l'Oman, dove gli USA e l'Iran poterono stabilire le basi di fiducia e i contorni preliminari dell'accordo, facilitando così i dialoghi formali successivi.

Altri casi che confermano l’interlocuzione con l’Iran li abbiamo osservando alcune vicende come quella del 2016 dove l'Iran rilasciò quattro prigionieri americani in cambio del perdono di sette iraniani detenuti negli USA. Questo scambio fu il diretto risultato di trattative backchannel, che permisero di superare gli ostacoli diplomatici ufficiali. E ancora sempre nel 2016, il caso dei dieci marinai americani detenuti dall'Iran dopo un ingresso accidentale in acque iraniane fu risolto efficacemente grazie a comunicazioni backchannel, che beneficiarono della buona volontà costruita durante i negoziati del JCPOA.

USA ed Iran, non solo attraverso intermediari come l'Oman, ma anche in contesti multilaterali, hanno utilizzato backchannels che hanno permesso di facilitare dialoghi su questioni sensibili e di preparare il terreno per incontri ufficiali, riducendo le tensioni in modo controllato e discreto come a Vienna nel 2021 dove le trattative per il ritorno al JCPOA, sebbene formalmente aperte, sono state intensamente supportate da una serie di interazioni backchannel che hanno aiutato a chiarire le posizioni e a modulare le aspettative delle parti.

Ritornando al presente ed analizzando gli eventi ritornerei sulla dichiarazione USA dopo Damasco. Il "Noi non sapevamo…" potrebbe lasciare intendere un sottinteso, "se avessimo saputo…" avremmo cercato di impedirlo, oppure vi avremmo avvertiti.

Se il destinatario del messaggio fosse a Teheran, confermerebbe la volontà USA di esercitare un ruolo nell’area, ruolo potenzialmente minato da alcune iniziative del governo Netanyahu, verso le quali gli USA sono immediatamente corsi ai ripari, attraverso dichiarazioni formali e invio di aiuti umanitari a Gaza, ma le attività non si sarebbero limitate a questo.

La mia tesi è che la mediazione abbia portato anche all’attacco di questa notte, un attacco che - come già rilevato da questo giornale - ha qualche stranezza nelle modalità di esecuzione, prima fra tutte la mancanza del fattore sorpresa.

Il fattore sorpresa è stato sempre un elemento cruciale in numerose vicende belliche, che ha spesso determinato l'esito di battaglie e campagne militari grazie alla sua capacità di cogliere l'avversario impreparato, massimizzare l'effetto psicologico delle azioni intraprese e sfruttare temporaneamente il caos nelle file nemiche.

Il fattore sorpresa consente all'attaccante di disorientare l’avversario un attacco a sorpresa può disorganizzare le sue operazioni, causare confusione e impedire una risposta coordinata, dando così un vantaggio tattico decisivo. Inoltre l'uso sorpresivo della forza può avere un forte impatto psicologico, demoralizzando l'avversario e inclinando la bilancia morale a favore dell'attaccante provocando euforia tra le proprie fila.

Nella storia sono molti i casi in cui il fattore sorpresa ha giocato un ruolo decisivo. Nella Battaglia di Manzikert (1071) i Selgiuchidi utilizzarono la sorpresa contro l'Impero Bizantino, attaccando con una forza di cavalleria che i Bizantini non aspettavano. Questo uso efficace del fattore sorpresa non solo portò a una vittoria schiacciante ma cambiò anche il corso della storia in Anatolia. Nel 1941 due gli eventi bellici che beneficiarono del fattore sorpresa l'attacco di Pearl Harbor, e operazione Barbarossa, ed ancora il raid israeliano all'aeroporto di Entebbe in Uganda nel 1976, un altro esempio emblematico di operazione militare che sfruttò l'elemento sorpresa per liberare ostaggi tenuti da terroristi pro-palestinesi. Il successo dell'operazione fu largamente dovuto alla rapidità e segretezza con cui fu eseguita.

Ebbene, è chiaro che per l’Iran la risposta militare avrebbe dovuto avere una doppia valenza, la prima una questione d’onore, ad uso interno, la seconda un messaggio di deterrenza rivolta non solo ma soprattutto ad Israele.

E da qui l’inusitata quantità di razzi lanciati ad uso propagandistico, tanti razzi, vecchi, moltissimi dei quali intercettati puntualmente dalla difesa aerea, un mostrare i muscoli all’opinione pubblica interna che rimane impressionata più dalla quantità che dalla qualità, Il secondo messaggio, è stato condotto con soli 7 missili ipersonici tutti diretti ed andati a segno sulla base aerea israeliana da cui partirono gli F35 dell’attacco a Damasco.

E quindi come affermato da Mohammad Bagheri, ottenere la vendetta i cui effetti erano da spendere internamente per mantenere il controllo dell’opinione pubblica iraniana e placare le frange più radicali interne, colpite gravemente da Israele con l’azione del Consolato a Damasco, e allo stesso tempo avvertire Israele.

Da questa considerazione, la rinuncia ad utilizzare il fattore sorpresa, in un'azione probabilmente concertata con la diplomazia USA utilizzando backchannels. Se così fosse, si spiegherebbero le dichiarazioni iraniane all’ONU - “la questione può considerarsi chiusa così” - che hanno fatto appello a Israele perché non reagisca al suo attacco diretto di droni e missili, definito giustificato e risposta obbligata al raid contro il consolato di Damasco.

Ulteriore conferma arriverebbe dalle parole di Biden a Netanyahu durante la telefonata di questa mattina dove sostanzialmente il presidente USA avrebbe invitato Israele a non reagire, ammonendo Israele a non intraprendere azioni che sarebbe costretta a portare avanti da sola.

Sicuramente l’evento “bellico” osservato ed analizzato da tutti, ha delle sfaccettature tecnicamente non prive di interesse per il futuro, per tutte le parti in causa. Le dichiarazioni fatte all’Onu e l’unicità dell’azione mi fanno ritenere più plausibile che la dimostrazione simbolica, anche se condotta con un numero di sistemi d’arma senza precedenti, sia stata dettata più da questioni di immagine, un'occasione sfruttata anche per dimostrare ad Israele che probabilmente la capacità di risposta Iraniana è stata sottovalutata.

Appare evidente che in assenza di un allineamento tra Stati Uniti e Israele sulla gestione delle politiche nell’area diventa difficile se non impossibile assicurare stabilità nell’intera regione, nonostante i notevoli sforzi compiuti dall’amministrazione statunitense.

Tradizionalmente, il supporto per Israele è stato forte sia tra i Democratici che tra i Repubblicani negli Stati Uniti. Tuttavia, recenti dinamiche hanno visto una polarizzazione crescente: mentre il supporto repubblicano rimane robusto e quasi uniforme, nel partito Democratico si osserva una crescente diversità di opinioni, con una frangia più a sinistra che critica apertamente alcune politiche israeliane, soprattutto riguardo alla questione palestinese e ai diritti umani.

Se è pur vero che Israele è un avamposto della democrazia in un contesto tutt’altro che democratico, è altrettanto vero che il governo di Benjamin Netanyahu sta portando avanti riforme come quelle giudiziarie che hanno suscitato notevole opposizione interna e prese di posizione anche a livello internazionale con dichiarazioni espresse da politici, diplomatici e osservatori internazionali, inclusi gli Stati Uniti, che hanno espresso preoccupazioni per le potenziali implicazioni sulle norme democratiche.

Sono in gioco due visioni contrapposte del mondo e della giustizia: quella occidentale, in cui la giustizia si basa su principi di equità e proporzionalità, e quella della “legge del taglione”, basata sulla reciprocità diretta e proporzionale della punizione, dove le sanzioni mirano a replicare l'offesa commessa, innescando cicli perpetui di vendetta.

Far valere la superiorità del pensiero illuminista occidentale significa ampliare il range di possibilità e, attraverso il dominio cognitivo e la ricerca di canali di interlocuzione, anche quelle di prevalere.

I backchannels rappresentano esattamente questo tipo di atteggiamento, volto a risolvere crisi in modo controllato e riservato. 

Occorre migliorare la capacità di utilizzare in modo efficace le conoscenze e le competenze cognitive per pianificare, prendere decisioni e risolvere problemi in situazioni complesse e spesso sotto pressione. 

Parlo del dominio cognitivo cruciale nelle operazioni militari, poiché implica l'utilizzo di pensiero critico, giudizio, percezione situazionale e decision-making per gestire situazioni dinamiche e potenzialmente pericolose. Eccellere in questo campo non solo supporta la conduzione efficace delle operazioni ma è essenziale per l'adattamento alle evoluzioni del campo di battaglia moderno, caratterizzato da incertezza, rapidi cambiamenti e la necessità di integrare tecnologie avanzate. 

Le forze armate (che eccellono nel dominio cognitivo) sono meglio equipaggiate per affrontare minacce asimmetriche, cyber attacchi, e guerre ibride, dimostrando così la crescente interdipendenza tra capacità cognitive e tecnologiche nel teatro operativo moderno, che non può essere interpretato con le regole delle guerre del passato e con soluzioni semplicistiche come quelle offerte dalla “legge del taglione”.

Foto: X / IRNA