Houthi di ieri e di oggi

(di Gian Carlo Poddighe)
07/03/24

Siamo tornati ai tempi più caldi della guerra fredda, anche nei toni e nelle forme della politica italiana, sviluppata in base a preconcetti ed ideologie e non nei termini degli interessi italiani.

Il dibattito sulla missione Aspides ne è la prova, politicamente non la più importante ma sicuramente in questo momento la più controversa, senza nemmeno rendersi conto che e anche quella più impegnativa e pericolosa.

In politica estera non sono ammessi distinguo, soprattutto in un contesto semi bellico quale quello in cui ci troviamo. Ne va della credibilità dell’Italia e della nostra sicurezza nazionale.

Non siamo impegnati in azioni umanitarie e diplomatiche (necessarie, opportune, ma collaterali e dipendenti da fattori e attori esterni con cui interloquire e coordinarsi), ma stiamo direttamente operando per la nostra sicurezza e la nostra sopravvivenza, come chiaramente viene illustrato ed approfondito nel “Rapporto mar Rosso” pubblicato dal SeaCS, il Centro Giuseppe Bono*.

Paradossalmente pare che la cronaca, non la storia, ritorni indietro di alcuni decenni, senza che neppure il proliferare di opinionisti lo scopra; non è la “solita” azione antipirateria, gli Houthi sono un’organizzazione armata, non dei “simpatici piratini” come quelli che si disegnano nei cartoni animati, ma molto più pericolosi, per esempio, di Hamas.

Pochi sanno quale sia la loro capacità bellica, sono riforniti (Iran, Cina?, ...?) di missili, di razzi, mezzi non pilotati aerei e di superficie in grande quantità (e la disponibilità sopperisce alla qualità, dei mezzi e della conduzione) e meno si sa sull’acquisizione di capacità under water (un relativamente facile obbiettivo con le reti cavi sottomarine per la trasmissione dei dati, ma non è detto che non si pensi alle navi, con mezzi autopropulsi ma anche con il ritorno alle mine come già fatto in passato).

Settori per i quali, dopo l’ubriacatura facilmente indotta della supposta fine della guerra fredda, forse non si è prestata tutta l’attenzione necessaria.

L’intervento del Duilio di qualche giorno fa non deve né portare a facili entusiasmi né a farci stare tranquilli, ma solo a renderci consapevoli dell’impegno e che - seppur siamo più preparati e pronti di altri Paesi (vedi la stessa Germania), seppur disponiamo di mezzi idonei verso alcune minacce - ci esponiamo, necessariamente, anche a molti rischi che non copriamo, o non copriamo completamente.

Gli Houthi combattono da decenni, asse di un conflitto politico religioso tra sunniti e sciiti, e di un parallelo conflitto non solo sul controllo dell’energia ma sul modello di sviluppo che inevitabilmente dovranno adottare i paesi arabi, una transizione che comprende(va?) anche un modello occidentale, comprese anche relazioni pacifiche, comprese quelle con Israele, che vede protagonista l’Arabia Saudita, regno guidato de facto da Mohammed bin Salman (foto seguente), osteggiato anche in campo occidentale, con evidente ricorso alla disinformazione, nello stesso modo in cui lo fu a suo tempo lo Shah di Persia, una similitudine che dovrebbe allarmare tutto l’Occidente, autolesionista e di memoria corta sui propri errori.

Colpire gli alleati dello stato ebraico è una narrazione, la “leggenda”, che gli Houthi e l’Iran (o l’Iran per gli Houthi) hanno costruito e sostengono per colpire ed affossare un modello di sviluppo che li avrebbe emarginati, una narrazione che cerca di nascondere la volontà degli Houthi di usare il contesto – compresa la dimostrazione di capacità militari, compresa la volontà di ascriversi a leader del network della resistenza filo-iraniana – per la propria legittimazione ed i propri interessi nei negoziati sulla guerra civile in Yemen.

Gli Houthi dopo oltre dieci anni sono arrivati a un momento decisivo di trattative, vogliono mostrare i muscoli, perché sanno che è un linguaggio che può essere ricevuto dall’altro lato del tavolo – dove siedono Sanaa (resta da vedere quale e quanto attendibile), sauditi ed emiratini.

Un passo, una trattativa che più che la pace riguarda(va?) il modello di sviluppo da seguire, od almeno i tempi e le forme da seguire: qualsiasi ritardo gioca a favore dell’Iran, anche se potrebbe non esserlo per gli Houthi, dipende dalla loro spregiudicatezza ed affidabilità nei confronti del loro mentore.

Riad è stata in effetti messa in una posizione problematica dalla duplice mossa (con una unica regia) di Hamas e degli Houthi.

Riad non può “perdere la faccia” di paese arabo confessionale, con la Mecca come riferimento assoluto, e sebbene da un lato voglia negoziare un accordo per uscire dalla guerra, dall’altro è consapevole che qualsiasi intesa sarebbe una sconfitta da gestire attentamente.

In entrambe le situazioni serve muoversi per proteggere innanzitutto la narrazione interna di un paese confessionale, anche se sotto la guida de facto di Mohammed bin Salman che in qualche modo, con le buone e con le cattive ha saputo depurare il regno, l’Arabia Saudita ha cambiato sostanzialmente linea sugli affari regionali.

Meno di dieci anni fa, credeva fermamente nella necessità di esercitare potere con la forza militare, con il pesante confronto, insieme agli Emirati, nello stretto di Bab el Mandeb: ora sta cercando di normalizzare una serie di situazioni complesse (dal rapporto con l’Iran alle relazioni con Israele fino alla guerra in Yemen): percepisce e vuol far percepire alla regione ma a tutta la comunità internazionale che la distensione generale è necessaria per creare un Medio Oriente di prosperità, non basata solo su rendite parassitarie come quelle estrattive

Un nuovo Medio Oriente che Riad intende guidare – e come spiega una fonte saudita, “il nuovo Medio Oriente detesta il vecchio Medio Oriente”.

Gli Houthi giocano non una doppia ma una tripla partita, e non a caso il loro portavoce, sorta di ministro degli esteri, Al Ezzi ha espresso “particolare gratitudine” all’Arabia Saudita per la sua riluttanza a unirsi agli attacchi degli Stati Uniti e del Regno Unito sullo Yemen, aggiungendo che la milizia è “desiderosa” di iniziare negoziati di pace con il Regno: “Sanaa (dice il portavoce insinuando che le milizie controllano la capitale, dunque rappresentano lo Yemen, ndr) è pronta per la pace con Riad nonostante le sfide poste dagli Stati Uniti e dai gruppi yemeniti ad esso associati”.

La minaccia al traffico commerciale, una minaccia di cui l’Italia è una delle principali vittime, fa parte di questo cruento “gioco”, un gioco che può portare non a momentanee distorsioni dei traffici, ma potrebbe portare a un riassetto permanente dei traffici che danneggerebbe irrimediabilmente il nostro Paese.

Di fronte a tutto ciò, è del tutto evidente che l’interesse nazionale italiano si misura e si tutela con un intervento diretto italiano ed europeo, politicamente corretto anche se operativamente sarebbe stato più efficace un intervento “collettivo” ampio, NATO o non solo NATO, con regole di ingaggio chiare e realmente deterrenti.

Chi è in prima linea deve essere supportato, non limitato con il rischio che il timore (delle interpretazioni) prevalga su capacità e abilità.

L’importanza politica di questo intervento risiede anche nel fatto che si tratta di una missione europea in cui l’Italia ha un ruolo di primo piano; servirà a coprire, a sostenere, a garantire rotte marittime per noi fondamentali ed anche se la base è insediata a Larissa in Grecia, il comando è affidato all’Italia con un ammiraglio nel ruolo di force commander.

È un passo significativo per noi, per il ruolo dell’Italia, per la sicurezza delle rotte marittime globali e dunque per la sicurezza collettiva: potrebbe essere un primo segnale di risposta comune europea che per l’Italia coincide con la guida semestrale del G7, una sorta di banco prova, con precedenti nelle passate riunioni, visto che in futuro i meeting del G7 mireranno a consolidare sempre di più la sorveglianza navale come tutela della sicurezza e del benessere di tutti.

Come è stato detto nel recente dibattito parlamentare, quando la storia corre, gli equilibri si ridisegnano, i popoli e gli Stati possono decidere di stare in seconda fila e seguire le partite scritte da altri, oppure si assumono le responsabilità anche accettando, come è ovvio, i rischi del caso.

Nulla di nuovo sotto il sole, soprattutto per la memoria corta occidentale e la labilità della nostra memoria politica nazionale: l’attuale crisi del Mar Rosso ha un parallelo, se non ne è la replica, della “guerra dei tankers” degli anni ’80, altrettanto cruenta, solo che all’epoca si stette alla finestra, e tutto il peso del conflitto ricadde sulla U.S. Navy, un precedente che è forse il caso di rivisitare anche alla luce delle incognite della prossima campagna elettorale statunitense e dei diversi equilibri che potrebbero derivarne.

* https://www.academia.edu/115347980/Rapporto_SEACS_La_crisi_nel_Mar_Rosso_contesto_e_implicazioni_globali?email_work_card=view-paper

Foto: apertura U.S. Navy (La USS STARK, FFG 58 colpita da un missile - Exocet iracheno - nel maggio 1987. Il bis che sognano gli attuali protagonisti) / Marina Militare / Cremlino