Storia dell’80enne cambio automatico, i tradizionali i più versatili

(di Gianluca Celentano)
12/01/21

Avevo già parlato in precedenza di trasmissioni automatiche, una realtà che ha toccato anche le AR, come abbiamo visto per la J8 destinata, a quanto pare, a soppiantare il cambio manuale anche nelle nostre forze armate (v.articolo). Un cambio di passo che dovrà comunque tener conto di un enorme platea di utenti ancora legati ai sistemi manuali che generalmente non ti lasciano quasi mai a piedi, oltre a infondere un personale feeling tra uomo e mezzo che nessun tipo di automatismo può replicare. Questo per coerenza va evidenziato.

Nonostante una formazione con i manuali ZF, ammetto che i sistemi idrodinamici mi hanno affascinato fin dall’età di 12 anni, quando richiedevo i manuali d’officina alle case costruttrici, e devo dire che me li spedivano pure!

Come è nato il cambio automatico?

Seppur già Leonardo da Vinci avesse progettato sistemi per ridurre o aumentare la velocità finale di un asse, alcuni passaggi sullo sviluppo del cambio automatico sono davvero curiosi e intorno a questi gravitano diversi autorevoli nomi.

Carri armati e moderni blindati su gomma sono dotati di flessibili trasmissioni automatiche ben lontane da quei fondati pregiudizi degli anni ‘80, periodo in cui l’automatismo era associato alla tranquilla DAF Variomatic oppure era un optional poco gradito se la cavalleria sotto il cofano era limitata. Comunque sia il Borg Warner di Mercedes nei primi anni ‘90 o il Tiptronic Porsche piuttosto che la BMW, sono stati precursori che hanno ribaltato preconcetti.

L’invenzione di un sistema progressivo di velocità prende spunto dai vari progetti e brevetti sulle trasmissioni, ma c’è un dispositivo “centrale” che è stato l’elemento basilare per mettere a punto la progressione di velocità senza l’ausilio dell’uomo: il trasferimento del moto da motore a cambio. Ecco allora che frizioni centrifughe, giunti idraulici e convertitori di coppia, l’optimum realizzato inizialmente per l’ambito navale nei primi del ‘900 da Hermann Föttinger, sono state le idee vincenti in questa direzione.

E. TRENTA: un italiano il primo ideatore dell’automatico negli USA

Pensate un po' che già a fine ‘800 gli ingegneri francesi Louis-Rene Panhard ed Emile Levassor avevano già un progetto di automatismo che però fallì clamorosamente, mentre i fratelli americani Sturtevant nel 1904, avevano messo a punto una frizione centrifuga, più o meno come il sistema che muoveva il mitico Ciao della Piaggio o gli attuali scooter. Ma all’inventiva non c’è limite, infatti nel 1923 un semplice sistema prese forma dal progetto ingegnoso del canadese Alfred Horner Munro che utilizzava aria anziché olio per mandare in pressione i circuiti.

Ma non voglio annoiarvi e vi dico subito che tra questi nomi e progetti c’è anche un Italiano, Elio Trenta, un ingegnere umbro che nel ‘32 brevettò con il numero 306379, il primo gruppo epicicloidale necessario per avere dei rapporti di marcia.

Trenta presentò l’invenzione alla Fiat la quale però non mostrò alcun interesse come invece fece la Oldsmobile americana che lo realizzò sulle versioni Hydra-matic.

Negli USA poco dopo il ‘39 stava iniziando la rivoluzione del metodo di guida - anche con spot pubblicitari TV - che avrebbe consegnato nel corso del secolo il cambio manuale a circa il 10% di mercato. De Soto, Buick nel 1947 con Dynaflow Drive e Chrysler con Fluid Torque Drive nel ’50 contrassegnarono con questi nomi la nuova gamma semiautomatica.

Manuali “idraulici”

Ricordate quando abbiamo parlato del trattore trasporto carri ATC81 (v.articolo)? Quel concetto di trasmissione semiautomatico (Hydrotrans convertitore più frizione) ma sempre a 3 pedali, è stato molti anni prima il concetto su cui si basavano le prime auto semiautomatiche made in USA.

Si trattava di associare un cambio manuale a due marce a un giunto idraulico – pompa e turbina – e far aderire sulla pompa una frizione comandata dal tradizionale pedale. Qualcosa di simile fece anche la Citroën con la DS (squalo) versione semi-auto, ma qui la frizione si apriva mediante un elettrocontatto sulla leva del cambio.

Partiamo dal presupposto che negli USA in quegli anni il costo del carburante non era assolutamente un problema per cui si poteva aprire la farfalla del carburatore fino in fondo per dar coppia ai macchinoni che dovevano essere dei comodi uffici su ruote con una linea inconfondibile da mostrare come un trofeo yankee a stelle e strisce. Quindi la massa finale non era un dramma per veicoli a telaio portante, con cilindrate nell’ordine dei 4/5 mila centimetri cubici o più (vedi carro M113) con 6 o 8 cilindri disposti V.

Pochissimi cavalli e molta coppia erano il toccasana dei giunti idrodinamici che permettevano anche qualche nervosa sgommata tipica dei manuali, seppur con complessive e magrissime prestazioni stradali e di stabilità.

Come funzionavano?

Argomento interessante. In realtà la frizione sul giunto idraulico era stata posta perché ancora non si disponeva – eravamo a fine anni ‘30 – di un gruppo epicicloidale comandato idraulicamente con un gruppo valvole a cassetto arrivato dall’Italia grazie a Elio Trenta. Era quindi necessaria una frizione per effettuare le cambiate manuali (movimento tradizionale su e giù con in mezzo il folle) tra prima e seconda e retromarcia. Una volta inserita la marcia da fermi, si poteva alzare la frizione premendo il freno e l’auto rimaneva in moto. Vista la coppia dei propulsori, si poteva tranquillamente partire in seconda o terza – la gioia dei taxisti – senza necessità di premerla poco prima di fermarsi. Le scalate si facevano per aver un po' di freno motore (in realtà pochissimo) oppure dello sprint.

ATC81 Hydrotrans

L’autocarro Iveco trasporto carri era equipaggiato con un cambio manuale ZF 8 marce in affiancamento a un convertitore di coppia su cui lavoravano due frizioni. Una tradizionale per comandare il cambio delle marce (come nelle prime semiautomatiche USA) e una seconda che invece andava in pressione per escludere il convertitore dopo la partenza.

La realizzazione di questo sistema Hydrotrans, ideato per muovere i carichi eccezionali nell’ordine delle 80 tonnellate, non fu in realtà molto apprezzato dagli autisti per la repentina sostituzione delle frizioni e per i consumi. Tuttavia avrete notato che, quando descrivo un mezzo automatico, specifico sempre un particolare del convertitore, cioè la sua esclusione. Infatti dopo il primo spunto “idraulico” – di per sé già una prima marcia – il veicolo automatico, grazie ai gruppi epicicloidali, può avere un contatto diretto e ininterrotto tra motore e trasmissione.

Prestazioni migliori, freno motore e minori perdite d’energia e consumi contenuti sono i principali motivi che a partire dagli anni ‘80 hanno visto l’introduzione di una frizione che congiungesse i semitori “pompa e turbina” inizialmente solo sui mezzi commerciali, e senz’altro su camion e bus urbani.

Il concetto di continuità tra motore e trasmissione è il principio su cui si sono sviluppati successivamente i cambi a doppia frizione robotizzati, più veloci, leggeri ma anche più delicati.

È proprio sull’affidabilità che la partita delle opinioni tra conducenti e appassionati è aperta. Infatti se un moderno manuale ZF può avere il suo punto debole magari sul blocco dell’epiciclo di programma marce corte/lunghe, è anche vero che è praticamente inarrestabile e maltrattabile nonché molto indicato nei cantieri, in montagna o negli impieghi militari operativi.

Passando a un gradino sotto, ci sono i moderni idraulici a convertitore e infine i robotizzati, che però andrebbero condotti come se si avesse a che fare con un manuale, ma ideali soprattutto sulle autostrade.

I selettori e le sigle

Se il convertitore di coppia ha sostanzialmente dato il semaforo verde al tradizionale sviluppo del cambio automatico epicicloidale è curioso ripercorrere la storia della sua leva selettrice.

Le primissime “automatiche” utilizzavano il classico cambio a cloche posto sulla colonna dello sterzo, così da poter inserire un divano anteriore. Da quello che emerge, si guidavano come auto tradizionali a due o tre marce, ma vista la presenza del giunto, tutto poteva essere più semplice, dimenticandosi o quasi della frizione.

L’evoluzione percettiva di questo sistema, rispetto a un tradizionale schema ad H, fu proprio nella cloche che fu associata a un ghiera un po' ingannevole con delle lettere, R, Low, N, Dr. In realtà di “automatico” c’era solo un giunto idraulico.

Anche per l’inserimento della retro il movimento era il tradizionale, cioè tirando a sé la leva portandola in alto verso Low.

Con l’intensificarsi tecnologico, le sigle hanno subito spostamenti, ad esempio: N D Low R ma è curioso ricordare che l’introduzione della posizione di parcheggio P fu inserita verso gli anni ’60, mentre prima l’auto si parcheggiava in folle tirando energicamente il Park Brake Lever (il freno a mano), da qui la sigla P. La posizione R fu spostata dal fondo scala e messa in alto, per evitare di inserirla accidentalmente convinti di posizionarla su Low (un termine per indicare la posizione di prima)

Selettori militari

Qualcuno di voi si starà chiedendo per quale motivo il VTLM Lince non abbia la posizione di P. Bene, neppure gli ACTL o i Bus automatici ce l’hanno perché sono dotati di un manettino pneumatico di stazionamento (il freno a mano) che funziona scaricando rapidamente l’aria e serrando le ruote motrici.

In taluni modelli un secondo manettino blocca la coppia assi anteriore (es. APS 95).

Il sistema del Park, tra l’altro, è un particolare (un arpionismo, un perno dentro una ghiera dentata dritta) che se sollecitato da pendenze, spinte etc, può rompersi tanto più se il mezzo è pesante.

La posizione di P è invece presente sugli autoveicoli “leggeri” come J8 o MUV 70/20 o comunque sulle comuni autovetture di derivazione civile in uso di rappresentanza per le Forze armate.

Opinione sugli eccessi tecnologici

Chapeau a quella tecnologia che ha permesso di semplificarci la vita rendendola soprattutto più sicura e ancor più a quella che non ci ha relegato a una vera schiavitù permettendoci ancora di pensare a un’azione senza ricorrere a programmi pre confezionati e molto spesso lontani dalla realtà d’impiego. Si tratta della saggia teoria che separa la pratica dalla teoria, a maggior ragione per i militari.

Anche nella tecnologia automobilistica oggi rigonfia di ogni sofisticatezza, è da tener presente che l’acquisto iniziale, senz’altro sensato, andrà in contro a dei periodi di manutenzione specializzata senza i quali non è da escludere il fermo del veicolo.

Il cuore del problema è molto spesso rinchiuso in una scatola chiamata centralina piuttosto che in cablaggi soggetti al deterioramento del lavoro o addirittura dal tempo o inattività del mezzo, situazione imbarazzante sopratutto sui grandi numeri di unità.

I sistemi di cambio automatico tradizionali ormai testati anche in ambito urbano – vedi gli stress meccanici dei bus ipercarichi – offrono e garantiscono degli standard di funzionamento apprezzabili anche nel convulso utilizzo operativo previsto nell’Esercito. Una forza armata che oggi, a maggior ragione, deve farsi ancor più i conti in tasca prima di acquisto, magari lanciando per primo le linee guida basilari. Questo, nonostante la ricca e attuale offerta di mercato rispecchi – non sempre per piccoli particolari –, i ritrovati per gli utilizzi prettamente civili dei veicoli.

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