Reportage Donetsk: l’anno che verrà

(di Giorgio Bianchi)
29/12/17

La città di Donetsk si sta preparando alla festa.
Anziché festeggiare il Natale il 25 di dicembre da queste parti si celebra il Capodanno; abeti decorati stanno spuntando un po’ dappertutto nelle piazze, nei giardini, negli edifici pubblici così come le immancabili lucine intermittenti.

Di giorno le attività scorrono regolarmente, mentre di notte dalle 23 è ancora in vigore il coprifuoco e i rumori della guerra si sostituiscono a quelli del traffico e del fluire della vita.

Se nel centro città i segni della guerra sono oramai impercettibili, man mano che ci si avvicina alla zona dell’aeroporto essi si manifestano con sempre maggiore evidenza, fino a cancellare qualsiasi residuo di quello che dalle nostre parti si chiama “normalità”.

Proprio da quelle parti mi sono recato per incontrare Spartaco, il volontario italiano che dal 2014 milita nelle fila dell’esercito della DNR.

Ferito quattro volte e pluridecorato, Spartaco è uno dei veterani di questo conflitto che lo ha visto sul fronte fin dalla primissima ora.
Rincontrarlo per me è sempre un piacere; lo trovo bene nonostante la vita di trincea, lamenta dolori alla testa e una difficoltà cronica a prendere sonno ma non parlategli di PTSD potrebbe finire male.

Spartaco e due ragazzi del suo gruppo mi accompagnano per un giro di perlustrazione dell’area. Dei civili che abitavano la zona sono rimasti solo due coppie di anziani che hanno avuto la casa risparmiata dalla furia dei bombardamenti, mentre il resto sono solo macerie, desolazione e branchi di cani randagi.
I militari si muovono con circospezione nella boscaglia che circonda l’area, del resto il nastro rosso esposto all’ingresso non lascia adito a dubbi: la zona è interamente minata e ancora oggi non è nota la collocazione di tutti gli ordigni.
Mi vengono mostrate due mine anticarro situate lungo il sentiero principale mentre Spartaco mi racconta di Rafi il volontario afghano che non più tardi di due mesi fa ha perso le gambe proprio in quella zona saltando su una mina antiuomo.

Vicino alla postazione di Spartaco c’è Spartak un villaggio che prima della guerra registrava più di 5000 abitanti ma che ora conta poco più di 40 anime che si ostinano a vivere nelle loro case semidistrutte dai bombardamenti senza né luce, né acqua, né gas.
Ho passato con loro un’intera settimana condividendone la routine giornaliera fatta di lavori socialmente utili, di momenti di convivialità, ma soprattutto di privazioni: ho sperimentato la difficoltà di affrontare i rigori dell’inverno senza nessun tipo di utenza domestica, per non parlare delle notti trascorse nei rifugi sotterranei, in ambienti completamente saturi dei fumi delle stufe a legna artigianali, per sfuggire ai bombardamenti notturni.
Li ho seguiti in tutte le fasi della loro vita: ho assistito alla distribuzione dell’acqua potabile, all’assegnazione del lavoro giornaliero, sono andato a scuola con le uniche due bambine della comunità alle 6.00 del mattino nella completa oscurità in equilibrio precario sul ghiaccio.
Mi sono perso nel silenzio dell’assenza per essere ogni volta ridestato da una raffica colpi sempre troppo vicini.

Con il comandante dell’area ho visitato le postazioni avanzate, situate a poche centinaia di metri da quelle dell’esercito di Kiev e sempre con lui sono tornato nel bunker nel quale abbiamo trovato rifugio nel 2016 durante un bombardamento notturno.
Del caseggiato che ci ospitò in quella circostanza ben poco è rimasto in piedi, segno che il “Nulla” continua inesorabilmente ad avanzare.

In città ho avuto l’occasione di incontrare il capitano Goodwin.
Attualmente il suo lavoro consiste nel registrare, verificare e pubblicare le conseguenze delle attività militari ucraine e rendicontare l’addestramento dei militari della DNR.
Mi informa che recentemente l’esercito ucraino ha occupato Gladosovo and Metalist due villaggi situati nella Grey Zone.
Con una punta di ironia mi riferisce che pur non rivestendo alcun valore strategico la loro conquista è stata accompagnata dai media ucraini come una grande vittoria sul campo, segno a suo dire delle difficoltà sul fronte interno del governo di Kiev, costantemente pressato dalle frange ultranazionaliste a loro volta rimaste a corto di successi militari da presentare alla loro platea.

Il 23 novembre gli edifici del governo di Lugansk sono stati circondati da militari senza segni di identificazione (l’unico distintivo era una fascia bianca al braccio come segno di reciproco riconoscimento) che hanno intimato agli uomini di guardia di consegnare le armi. Interpellate dalle autorità locali queste persone non hanno rivelato né chi li comandasse e né gli ordini di chi stessero eseguendo.
Secondo la versione ufficiale i militari che hanno preso Lugansk erano uomini della polizia dell’LNR e dell’MGB (Addetti alla sicurezza statale, ndr).

Una fonte interna al Ministero degli Esteri della DNR mi ha riferito che le forze leali a Plotnitski non sono riuscite a reagire e lui stesso sul momento non ha saputo cosa fare.
Tutta la giornata non è stato chiaro chi fossero quelle persone ma nessuno ebbe il coraggio di fare nulla in quanto non era chiaro cosa stesse accadendo.
Quando in serata sono giunti sul posto diversi Ural carichi di soldati della DNR si è finalmente capito che la Polizia e i Servizi di sicurezza della LNR che avevano preso parte all’azione erano sostenuti dalla DNR.
Plotniskij già da tempo viveva sotto scorta rinchiuso nel suo ufficio di capo del governo della LNR in quanto temeva per la propria incolumità: pare che a salvargli la vita sia stata la sua firma sugli accordi di Minsk sui quali ha dichiarato di voler mantenere il ruolo di garante.
La mattina successiva all’operazione Plotniskij ha fatto un video dal suo ufficio nel quale incolpava i suoi assalitori di essere al servizio degli ucraini.
Alle 12 circa Plotniskij è fuggito a Rostov dove si è consultato personalmente con funzionari politici russi che hanno continuato a non prendere posizione sull’accaduto. Probabilmente era già troppo tardi e i rapporti di forza nettamente favorevoli agli insorti.
Politicamente questo può essere considerato un primo passo verso l’unificazione delle due repubbliche e il fatto che Mosca non sia intervenuta lascia ipotizzare che questa sia una soluzione auspicata dal Cremlino soprattutto alla luce del fatto che per il governo russo sarebbe più facile controllare una fonte di spesa per gli aiuti umanitari piuttosto che due, anche perché negli ultimi tempi gli aiuti economici provenienti da Mosca nella LNR prendevano troppo spesso vie traverse.
Il ministro dell’MGB Leonid Pasechnik dopo la rinuncia di Plotniskij ha assunto il ruolo di capo dell’ LNR.

Ho chiesto alla mia fonte all’interno del Ministero degli Esteri se non teme per l’anno nuovo un intensificarsi del conflitto a causa delle imminenti elezioni presidenziali in Russia e dei mondiali di calcio che si svolgeranno in estate nella Federazione; mi ha risposto che ogni volta che gli occhi del mondo sono stati puntati su Mosca il Governo di Kiev non ha perso mai l’occasione per riprendere le ostilità ritenendo lo sguardo dell’opinione pubblica globale un ottimo deterrente per qualsiasi iniziativa da parte del Cremlino a difesa delle Repubbliche.
Pertanto nei mesi a venire dobbiamo aspettarci un'escalation del conflitto e i segnali che abbiamo registrato in questi giorni vanno esattamente in questa direzione; l’amministrazione Trump infatti ha approvato in questi giorni la più grande vendita di armi all’Ucraina dal 2014; il contratto dovrebbe prevedere anche la fornitura del missile anticarro spalleggiabile Javelin, che verrebbe fornito in numero di 210 esemplari compresi 35 lanciatori.

A noi non resta che consolarci con lo scambio di prigionieri natalizio avvenuto il 27 dicembre nella città ucraina di Nikolaevka dove 306 persone hanno potuto fare rientro nella DNR a fronte di 76 che potranno ritornare sul territorio controllato dal Governo di Kiev.

(In cammino prima dell'alba per andare a scuola)

(la vita delle famiglie nei pressi del fronte)

(il volontario afghano Rafi)

(testo e foto: Giorgio Bianchi)