L’Italia di Benedetto Brin: gradualismo, forza e volontà

(di Federico Maiozzi)
18/02/23

Può un paese piccolo per forza economica, politica, militare e diplomatica uscire dalla sua condizione di minorità? Sì, a patto che chi lo dirige sappia pensare ed eseguire piani senza rassegnazione ma con senso della realtà, attuandoli il più possibile alla luce del sole, informando e coinvolgendo i cittadini al fine di includerli nel progetto e non renderli meri passivi esecutori o fruitori. Per averne la prova, basti studiare la storiografia1.

Prendiamo l’anno 1871; il nostro paese era reduce dalle dure sconfitte del conflitto che noi chiamiamo Terza guerra d’indipendenza2, iniziato e terminato nel 1866. Custoza aveva dimostrato – prendendo solo tre identità regionali tra le altre - come un soldato sardo, più un soldato toscano, più uno napoletano non necessariamente risultassero in tre soldati italiani. Quanto meno non ancora. Inoltre, l’andamento della battaglia poteva far sorgere qualche dubbio sulla lucidità strategica degli alti ufficiali ex-Regno di Sardegna, in teoria il motore del nuovo stato. Insomma, i soldati blu e azzurri parevano essere andati a morire (tra morti, dispersi e feriti circa 7000 vittime) e a uccidere (7-8000 vittime tra gli austro-ungarici) per nulla3.

D’altro lato, sul mare era andata anche molto peggio4. A Lissa la flotta italiana, nuovissima e in parte Made in Great Britain, aveva subito una dura sconfitta da parte di quella Austro-Ungarica, inferiore per tonnellaggio e tecnologia. Per Custoza è legittimo (ma comunque errato) lasciarsi andare ad elucubrazioni del tipo: “Se solo Tizio avesse contrattaccato Caio allora forse…”, per Lissa neppure questo tipo di consolazione regge. Anche la mera aritmetica è a favore austro-ungarico (2 navi affondate contro nessuna: 100-200 vittime contro 600-700), per non parlare della quanto meno discutibile gestione della sconfitta a livello politico nelle settimane successive.

A questo punto, sarebbe però impreciso ridurre Custoza e Lissa (immagine) a due battute d’arresto militari, a due umiliazioni, qualsiasi cosa significhi questo termine. Due sconfitte tanto dure potevano far paventare una possibilità profonda e grave ovverossia che dopo 18 anni di guerre e torbidi risorgimentali, dopo migliaia di vittime, di cambiamenti radicali, di anni passati in prigione, torture ed eccessi da tutte le parti in causa e non ultimo di tagli dolorosi col passato in verità nulla fosse cambiato. Il regno d’Italia era o non era uno stato indipendente, in grado di vivere senza un alleato più grande? O piuttosto si apprestava a diventare un enorme Granducato di Toscana, indipendente fino a diversa desiderata straniera?

Si badi bene, l’indipendenza e l’autonomia non sono importanti per un solo fatto di dignità. Lo sono perché un padrone straniero, soprattutto dell’epoca, quasi sempre drena le risorse materiali e intellettuali di un paese soggetto verso sé stesso e i suoi clientes abitanti per lo più nel paese di provenienza. A volte è vero che ci sono domini esterni migliori di democrazie interne, ma questo caso rappresenta comunque un’aberrazione e un’eccezione e non si può vivere sperando nelle eccezioni.

Allora torna la domanda di Černyševskij: che fare? Per fortuna sua e nostra (nostra anche di italiani contemporanei), in quel 1871 citato in apertura Benedetto Brin5 divenne direttore delle costruzioni navali della Regia Marina. Tale Brin era un trentottenne torinese, ovviamente ufficiale del genio navale, che aveva trascorso otto anni nella Marina Sarda (1853-1861) e dieci in quella italiana. Non aveva al suo attivo invenzioni straordinarie o innovazioni organizzative dirompenti, possedeva però una chiara visione del futuro che non ebbe paura di esporre e difendere con chi ebbe a collaborare, fossero essere civili o militari, politici o industriali. Il resto, questo sì dirompente, venne da sé.

In primissima battuta, Brin individuò la necessità di evitare fughe in avanti da parte di una delle componenti del notabilato italiano. Industria, militari e politica dovevano camminare insieme. Inoltre, se da un lato era necessario dotarsi di armamenti stranieri laddove la superiore qualità lo imponesse, dall’altro questo doveva servire da stimolo e punto di riferimento per la produzione nazionale, affinché questa producesse beni e materiali di eccelsa qualità che almeno potenzialmente potessero sostituire del tutto le forniture straniere.

Nel periodo che va dal 1871 al 1898, Brin ricoprì incarichi di altissimo livello (deputato, ministro della Marina, ministro degli Esteri…) che materialmente gli permisero di attuare molti dei suoi progetti. Per quanto sarebbe affascinante ripercorrerne la biografia, esulerebbe dal tema dell’articolo e quindi l’attenzione sarà rivolta al lavoro dell’ufficiale e politico italiano, inteso come sistema di capacità intellettuali, materiali, organizzative e politiche).

Parafrasando Lewis Carroll, potremmo dire che Benedetto Brin partì dal principio.

Di cosa aveva urgentissimo bisogno il Regno d’Italia? Di buone navi. Benedetto Brin progettò due buone (c’è chi dice eccellenti, ma restiamo cauti) navi gemelle: le corazzate Caio Duilio e Dandolo. Il progetto fu innovativo e rappresentò una sfida intellettuale che probabilmente fece bene anche all’apertura mentale del notabilato militare e politico italiano. Furono posti in discussione modalità di progettazione e costruzione precedentemente assodati, sia nel progetto delle stesse navi che in quelle del loro armamento e il risultato fu che la Regia Marina uscì dal periodo di stasi dolorosa seguito alla battaglia di Lissa.

Ma dopo aver progettato due buone navi, come costruirle? Inoltre, per quanto questi due progetti potessero essere validi, dopo trenta, venti o anche solo dieci anni sarebbero stati già anziani poiché il resto del mondo non sarebbe rimasto certo fermo a farci i complimenti. Andava quindi pensato un sistema industriale e gestionale tale che potesse essere valido nei decenni. In questo frangente, Brin si mostrò in linea con la politica economica italiana dell’epoca, che prevedeva la parziale chiusura del libero mercato in alcuni settori strategici fino a che le aziende del Regno d’Italia non avessero raggiunto capacità e qualità paragonabili a quelle degli altri attori mondiali6.

Per fortuna del paese, tuttavia, Brin sapeva che il Made in Italy non basta se non è un buon Made in Italy e così soprattutto da ministro della Marina contribuì a un decisissimo miglioramento e ampliamento degli arsenali esistenti e alla creazione di nuovi poli industriali a Nord, a Sud e al Centro, a Terni. Sul sito ternano è doverosa una riflessione che forse anche da sola basterebbe a capire quanto lungimirante fosse Benedetto Brin anche in quanto politico.

La necessità di produrre acciaio nazionale esisteva e i luoghi geografici adatti alla costruzione di un nuovo polo siderurgico erano diversi, Terni insomma era un’ottima variante ma non l’unica.

Allora perché proprio Terni? Il motivo è banale, ma a guardare l’Italia dell’evo contemporaneo dove il sopra è sotto e il sotto è sopra forse dovremmo definirlo geniale. Il grande polo siderurgico sarebbe dovuto servire per produrre acciaio anche per le navi da guerra. Di oggi, di domani, di dopodomani. Dato questo, era dunque lecito pensare che in quanto luogo deputato alla produzione bellica avrebbe rappresentato un eventuale obbiettivo per qualsiasi nemico di oggi, domani e dopodomani. Dato anche questo, era dunque doveroso pensare che il nemico lo avrebbe provato a colpire con le armi di oggi ma anche e soprattutto con quelle di domani e dopodomani ed era proprio da queste che il polo stesso andava difeso.

Forse memore della lezione dei possenti forti costruiti a difesa di Roma all’indomani della presa della città e resi inutili a pochi anni dalla loro costruzione dai progressi dell’artiglieria, allo stesso modo Brin immaginò un ipotetico sviluppo delle artiglierie tali da poter sparare nel Tirreno e colpire in Adriatico (ovviamente si semplifica ma l’idea era questa); al fine di ritardare l’invecchiamento geostrategico del prossimo polo siderurgico italiano, l’ufficiale italiano e i suoi collaboratori scelsero Terni poiché non solo ricchissima di acque, ma anche lontana dalla costa e protetta dalle montagne sia da eventuali proiettili nemici e gruppi da sbarco provenienti dal mare che da fanterie nemiche attaccanti in massa, aspetto che invece rendeva vulnerabile il bacino del Po. Questa considerazione non invecchiò neppure con l’avvento dei primi aeroplani e dirigibili da guerra, visto che nel primo conflitto mondiale i mezzi aerei austro-ungarici e tedeschi attaccando dal mare riuscirono a colpire installazioni italiane sia a nord che a sud, ma senza mai addentrarsi nell’Appennino.

Sia chiaro, in questa sede l’autore non esclude che la costruzione sia dei nuovi poli che delle nuove navi non sia stata esente da episodi (episodi) di corruzione, approssimazione o veri e propri errori, ma a livello sistemico il salto che Brin garantì al paese fu enorme, e proprio a tale salto l’industria italiana deve moltissimo ancora oggi.

Se si può trovare un’ombra nell’opera di Brin, possiamo sfiorare il limite del paradosso affermando che ebbe l’ardire di dare eccessivo credito alla politica italiana del tempo, giungendo alla bizzarria di credere che se il notabilato politico italiano affermava con la viva voce e con documenti scritti che la marina italiana dovesse prepararsi a una guerra contro la Francia poiché la sorella latina era vista, a torto o a ragione, come il nostro primo rivale nel Mediterraneo, questo fosse anche vero nella realtà dei fatti.

Brin, infatti, creò un sistema industriale ben equilibrato in grado di produrre quel numero di navi sufficiente a contrastare quella parte di marina francese operante nel Mediterraneo; quindi, pronta a grandi battaglie navali non possedendo i nostri fratelli latini coste frastagliate in cui nascondere il proprio naviglio, se non in parte in Corsica, dove del resto non esistevano grandi basi. Sappiamo come andò in seguito. Oltre a una distrazione di risorse nell’affrettata campagna d’Etiopia, malgrado dai documenti archivistici più recenti l’Austria-Ungheria7 (come del resto nemmeno la Francia), non stesse preparando alcun attacco preventivo contro il Regno d’Italia, Roma dichiarò guerra a Vienna e Budapest circa due decenni dopo la morte di Brin (1898) e quel modello di marina, basato su grandi navi che avrebbero dovuto impegnarsi in pochi, decisivi combattimenti, si trovarono a combattere contro una marina motivatissima nella lotta contro gli invasori (dal loro punto di vista) italiani, che poteva contare su coste frastagliate, irregolari e piene di insenature da cui far partire mezzi insidiosi e dar potenzialmente vita a una seconda edizione di Lissa. Ciò non avvenne, ma i danni inflitti dagli austro-ungarici agli italiani furono maggiori di quelli subiti8. Ciò ad ogni modo non fu certamente responsabilità di Brin. Egli al contrario dimostrò come anche un paese piccolo non possa compiere miracoli ma possa rafforzarsi, dando stabilità e sicurezza, anche economica, ai suoi cittadini integrando il sistema militare nella società, anziché usarlo per il suo controllo come anche in Europa spesso è stato.

Palesò inoltre come anche una nazione “minore” possa gestire le ingerenze esterne. Queste sono importanti ed esistono, è vero, e l’Italia di quegli anni, soprattutto quando egli divenne direttore delle costruzioni navali, esistevano eccome e non risultavano affatto piccole o poco assertive. Allo stesso tempo, però, nessun impero è onnipotente e l’indipendenza quando le idee sono chiare e si è pronti ad eseguirle, si può conquistare passo per passo, accettando i punti di arresto ma avendo sempre chiaro l’obbiettivo.

Dunque quella di Brin fu un’Italia che approcciava i problemi con serietà e dunque con gradualità. Non si può scrivere una tesi di laurea in dieci giorni; non si può ricostruire un paese in dieci settimane.

Un’Italia forte, poiché l’indipendenza è la condizione necessaria allo sviluppo economico e morale dei suoi cittadini, e questo pragmaticamente vuol dire sanità accessibile, medicine e cibo in farmacia e al supermercato e non nei container di “aiuti” stranieri, arte e industria libere, guardarsi allo specchio e ricordarsi che nel proprio paese non si è mai soli.

Un’Italia "volenterosa", poiché la volontà per ora non è misurabile e quindi non è categoria scientifica, eppure nell’equazione che descrive un paese va inclusa, per non cedere all’ineluttabilità o alla paranoia, che sono due importanti componenti con cui gli imperi dominano i loro sudditi.

1 Lasciamo stare il termine “storia”, spesso è confuso con “memoria” e nella contemporaneità sta assumendo una connotazione metafisica sui cui rischi sarebbe opportuno discutere.

2 Sulle forze italiane (variamente intese) in campo durante il Risorgimento, confrontare tra gli altri il recentissimo e reperibile in italiano: G. Esposito, Gli Eserciti del Risorgimento italiano 1848-1870, Gorizia, 2019.

3 Tra le altre cose, vale la pena ricordare che le stime sono indicative e la redazione delle stesse risente della cultura del tempo in cui sono state redatte. Per fare un esempio, uno storico degli anni Venti probabilmente non avrebbe considerato tra i rimasti invalidi a seguito di uno scontro chi soffrisse di quello che oggi chiamiamo stress-post traumatico.

4 Per la storia dello strumento navale italiano prima della Grande Guerra, confronta tra gli altri dall’ufficio storico dello Stato Maggiore Marina: M. Gabriele, Il Potere Marittimo Italiano, 1861-1915, Roma, 2017.

5 Dello stesso autore del volume sul potere marittimo italiano confronta tra gli altri M. Gabriele, Benedetto Brin, Roma, 1998. Per inquadrare l’opera di Brin in un più ampio contesto sulla storia delle dottrine militari navali degli stati europei, si consiglia anche: C. Alfaro-Zaforteza, A. James, M. H Murfett, European Navies and the Conduct of War, Londra, 2017.

6 Quanti tra i lettori abbiano studiato economia mi perdoneranno la semplificazione.

7 Vedi il volume mai abbastanza divulgato: J. Schindler, Fall of the Double Eagle: the Battle for Galicia and the Demise of Austria-Hungary, Lincoln, 2015.

8 Sull’argomento: P. Halpern (aut.), A. De Toro (cur.), La grande guerra nel Mediterraneo, Gorizia, 2011.